È un errore cercare di unirsi all’orchestra delle minoranze oppresse: è una questione di ingiustizia, non di discriminazione
È un fatto che i cristiani affrontano sempre più difficoltà nella società occidentale. In primo luogo, c’è un crescente clima di ostilità nei confronti del cristianesimo: sembra che il male si stia radicando nella società. L’esoterismo e la violenza sono ovunque nei mezzi di comunicazione; l’aborto, la pornografia e le droghe sono diventati un luogo comune; ogni giorno, soprattutto in Europa, chiese e cimiteri vengono profanati; la blasfemia pretende di essere un’arte per il grande pubblico; attiviste come le Femen attaccano simboli religiosi e i mezzi di comunicazione perdono raramente l’occasione di sminuire i cristiani e la Chiesa cattolica. È questa latente ostilità verso il cristianesimo a spiegare l’indifferenza, o anche la compiacenza, della nostra società verso la profanazione della sua eredità religiosa e la persecuzione dei cristiani nel mondo.
Insieme a questo clima di ostilità, che pretende di sradicare il sentimento cristiano dal cuore della gente, i cristiani si scontrano sempre più con norme sociali alle quali non possono acconsentire in coscienza. Queste norme sono collegate alla moralità. In Europa possiamo verificare un fenomeno crescente che limita i diritti dei cristiani, soprattutto in Paesi liberali avanzati come il Regno Unito. La libertà d’espressione è limitata da norme che rendono un crimine l’incitazione all’odio o alla discriminazione, il diritto di protestare (ad esempio contro l’aborto) è limitato e i diritti dei genitori nell’educazione sono invasi dallo Stato.
La natura specifica delle Chiese viene messa alla prova: spesso sono considerate imprese private che non hanno il diritto di selezionare il proprio personale in base a criteri religiosi. Il diritto di non effettuare aborti in cliniche cristiane è messo in dubbio; farmacisti, medici e infermieri sono sanzionati perché si rifiutano di cooperare ad aborti; impiegati e funzionari sono licenziati per il loro rifiuto morale dell’omosessualità. La Repubblica Francese chiede di esigere l’iscrizione del suo motto ateo sulle porte delle scuole private confessionali. L’aborto e l’omosessualità sono le principali, ma non uniche, cause di conflitto tra i cristiani e il potere politico.
Prendiamo l’esempio del Regno Unito: dall’approvazione dell’Equality Act 2010, le multe e le condanne sono aumentate drammaticamente. Una coppia si è vista negare l’approvazione come famiglia di accoglienza a causa della propria opinione sull’omosessualità, un medico ha dovuto lasciare il proprio incarico nei servizi sociali perché si è astenuto di fronte alla decisione di affidare bambini a coppie dello stesso sesso, le agenzie cattoliche di adozione si sono viste costrette a porre fine al proprio lavoro per il rifiuto di permettere l’adozione di bambini da parte di coppie omosessuali, un funzionario del Comune e un consigliere matrimoniale sono stati licenziati in nome della non discriminazione dopo aver espresso la propria obiezione di coscienza a celebrare l’unione civile e offrire consulenza sessuale a una coppia gay.
Nel gennaio 2013, il Tribunale Europeo dei Diritti Umani non ha ritenuto questi licenziamenti illegali in un processo che esemplifica la tendenza draconiana del liberalismo, per cui una società basata su un consenso di immoralità diventa intollerante verso quanti continuano ad esercitare in coscienza un giudizio morale sulla condotta umana. Lo stesso accade sempre più spesso negli Stati Uniti.
Si tratta di discriminazione?
La discriminazione (nel suo significato attuale) è la violazione del principio di uguaglianza; è l’atto di privare una persona di un diritto per qualche elemento particolare rispetto a un’altra persona nella stessa situazione. L’esempio tipico è rifiutarsi di dare lavoro a qualcuno solo a causa del sesso o della religione, anche se non c’è prova del fatto che queste caratteristiche personali influiscano sulla realizzazione soddisfacente del lavoro. Rifiutarsi di dare impiego a un musulmano praticante in una macelleria non sarebbe discriminazione, in una libreria sì.
Possiamo quindi dire che i cristiani d’Occidente sono oggetto di discriminazione? Sono privati di certi beni o dell’esercizio di certi diritti a causa della loro religione? Sì, ma in modo insidioso e raramente ufficiale. Alcune professioni sono ostili ai cristiani praticanti. Ad ogni modo, come durante la crisi anticlericale della Terza Repubblica Francese, ci sono alcune tracce di discriminazione reale contro i cattolici che ancora permangono nelle leggi francesi. Ne ho vista una: il divieto che i religiosi insegnino nelle scuole primarie pubbliche (legge del 30 ottobre 1886). Questa è di fatto una violazione della libertà per ragioni religiose. Non ci sono prove del fatto che un religioso sia un cattivo docente.
Siamo franchi: il laicismo e la libertà religiosa, mettendo tutte le religioni su un piano di uguaglianza, hanno avuto l’effetto di eliminare la discriminazione per motivi di religione, tra le religioni. Al di là del caso menzionato in precedenza, in teoria qualsiasi persona può accedere a funzioni amministrative ed elettive, qualunque sia la sua religione. Se però le sue convinzioni morali o religiose le impediscono di svolgere tutte le sue funzioni professionali, allora è un’altra questione.
In realtà, sono piuttosto i cristiani che desiderano essere discriminati, e sono puniti per questo. Più in generale i cristiani, come i seguaci di altre religioni, vorrebbero non dover rispettare certe leggi che sono contrarie alla loro religione o offendono la loro coscienza.
Si discrimina una ragazza musulmana esclusa da una scuola pubblica perché porta il velo? Non è piuttosto lei a privarsi del bene dell’istruzione rifiutando di rispettare l’“uguaglianza” tra gli studenti imposta dal secolarismo? Gli obiettori possono invocare le proprie convinzioni religiose e morali per negare l’applicazione della legge? Possono protestare dicendo che sono discriminati se la legge viene applicata a loro come sarebbe applicata a qualsiasi altra persona? L’uguaglianza non sarebbe un’applicazione uniforme della legge? Di fatto, il concetto di non discriminazione si trova in una strada senza uscita, visto che si fonda su un’uguaglianza astratta: in primo luogo, il problema reale non è la questione della “discriminazione contro i cristiani”, ma il fatto che la legge si allontana dalla giustizia e invade tutti gli ambiti della vita. Non sono i cristiani ad essere diventati improvvisamente moralisti, lo sono sempre stati; è la legge che vuole creare la moralità e afferma inoltre di essere la moralità comune. La vera questione è quella della definizione della giustizia e della fonte della moralità pubblica. Quella che i cristiani percepiscono come una “discriminazione contro i cristiani” non è altro che la violenza con cui un’altra “morale” tende a sostituire l’antropologia cristiana.
L’antropologia è diventata una questione politica; è diventata legge con l’esplosione dei diritti umani, perché questi esprimono una definizione dell’uomo. Determinando i diritti fondamentali, si definisce l’uomo stesso. Mediante la modifica dei suoi diritti, quindi, è possibile modificare la definizione sociale dell’uomo. È questo il motivo per il quale tutti i dibattiti antropologici si traducono in termini di diritti umani e si portano davanti ai giudici. Spetta dunque ai politici e ai giudici dei diritti umani rivelare l’uomo a se stesso attraverso la progressiva protezione dei nuovi diritti.
A differenza
di una legge o di una decisione della giustizia ordinaria, l’affermazione di un diritto umano si impone come una progressione verso la verità. Non c’è libertà di pensiero in materia di diritti umani: nessuno può dire di non credere ai diritti umani.
Quando un politico o un giudice ridefinisce la vita, la morte, la famiglia o anche la persona, questo interessa non solo il diritto, ma anche la nostra percezione della realtà, e quindi la verità.
Ad esempio, quando la legge ridefinisce il matrimonio, quando afferma che un bambino è di due padri, due madri o tre padri, è giusto? È questa la realtà? Di quale realtà stiamo parlando, di quella vera o di una realtà fittizia che tuttavia è legale e quindi obbligatoria? Si può parlare di un uomo che è una donna, e dobbiamo credere che lo sia – in virtù dei diritti umani – dal momento in cui ci chiede di farlo? L’uomo, la donna, il feto, il matrimonio, la famiglia, la vita, la morte, la morale sono solo “nozioni” sotto il controllo dell’uomo? Questi diritti soggettivi danno all’uomo la libertà della follia, la libertà dell’essere “libero dalla realtà”. Qual è la differenza reale tra un uomo che grida per la strada “Sono Napoleone!” e un altro che pretende in pubblico di essere la madre di un bambino? Ad ogni modo, questi “diritti” pretendono di definire la verità e sono sostenuti dalla forza dell’autorità pubblica.
Quando obietta contro questa follia, un cristiano può continuare a dire di essere discriminato?
Quella che alcuni cristiani percepiscono come una discriminazione contro di loro è in realtà un’ingiustiziaper se. Quando quindi si richiede a un’infermiera di effettuare un aborto, dov’è la principale causa dell’ingiustizia? Nell’obbligo o nell’aborto? Perché ci sia una discriminazione, dovrebbero esistere situazioni moralmente equivalenti paragonabili tra loro. Un’infermiera disprezzata perché si oppone all’aborto potrebbe affermare che c’è stata una discriminazione a condizione che la sua scelta venga considerata equivalente all’opzione opposta di realizzare l’aborto.
Perché una differenza di trattamento costituisca una discriminazione, le situazioni in questione dovrebbero essere simili. Allo stesso modo, se un giudice crede che le coppie dello stesso sesso siano oggetto di discriminazione rispetto alle coppie omosessuali è perché presuppone l’equivalenza di questi due tipi di coppie. Come risultato, una persona che si lamenta di essere oggetto di discriminazione a causa delle sue convinzioni o del suo credo si colloca nel paradigma liberale relativista. Ciò sarebbe una pura contraddizione visto che la persona pretenderebbe di imporre il proprio giudizio sulla società in nome dell’equivalenza dei giudizi di coscienza. La persona chiederebbe rispetto per la sua intolleranza in nome della tolleranza.
Questo approccio è senz’altro destinato al fallimento. Nella nostra cultura soggettivista, popolata da soggetti presuntamente irrazionali, la coscienza individuale ha perso tutta la sua autorità, tanto che il diritto positivo sarebbe l’unica norma sociale oggettiva accettabile e fattibile: il “pensiero unico”.
I cristiani non dovrebbero cercare di unirsi all’orchestra delle minoranze oppresse. Islamofobia, omofobia, cristianofobia, sono la stessa battaglia? Decisamente no. L’ingiustizia individuale che subiscono alcuni cristiani è il risultato di un’ingiustizia maggiore in relazione alla definizione stessa dell’uomo. Il dovere dei cristiani non è avere una vita esente dai problemi, ma dare testimonianza per tutti. La battaglia oggi si gioca intorno alla determinazione della fonte della moralità, che il mondo cerca di strappare dalla coscienza e dalla Chiesa.
Perché la morale non sia espulsa dallo spazio pubblico e tutte le ingiustizie divengano vulnerabili, l’atteggiamento morale del servizio cristiano è necessario più che mai, per dare testimonianza. Chiedendo di essere tollerato presuppone il fatto di rinunciare ad essere compreso, e quindi di rinunciare a dare testimonianza di colui che è “la via, la verità e la vita”.