«Se non si vuole assistere in silenzio all’ultimo capitolo della storia del cristianesimo iracheno, la comunità internazionale deve rispondere immediatamente»Una ferita profonda è stata inferta ai cristiani non soltanto dagli islamisti, ma dalla stessa società irachena». Così monsignor Emil Shimoun Nona, arcivescovo caldeo di Mosul, ha descritto i sentimenti dei suoi fedeli ad una delegazione internazionale di Aiuto alla Chiesa che Soffre che dal 13 al 17 agosto ha visitato alcuni villaggi del Kurdistan iracheno. «Dal 2003 ad oggi – continua – si è intensificata la discriminazione contro i cristiani iracheni: sul posto di lavoro, nel loro quartiere, ovunque. Da questo è scaturito quanto stiamo vivendo. I fondamentalisti sono frutto della società».
La delegazione ACS in visita in Iraq era composta dal presidente esecutivo Johannes Heereman, dalla responsabile della sezione progetti, Regina Lynch, e dal vicedirettore del dipartimento comunicazione, Maria Lozano. L’8 agosto scorso la fondazione pontificia ha stanziato un secondo contributo straordinario di 100mila euro – il primo era stato donato il 19 giugno – per fornire aiuti alle decine di migliaia di iracheni, molti dei quali cristiani, che hanno trovato rifugio in Kurdistan. Successivamente, su invito del patriarca caldeo Louis Raphael I Sako, ACS ha deciso di visitare l’Iraq per pianificare nuovi aiuti e mostrare vicinanza ai rifugiati e alla Chiesa locale.
«Se non si vuole assistere in silenzio all’ultimo capitolo della storia del cristianesimo iracheno, la comunità internazionale deve rispondere immediatamente e con decisione», ha detto Heereman di ritorno dal paese mediorientale. «In questi giorni abbiamo incontrato vescovi, sacerdoti, religiose e volontari che lavorano giorno e notte per fornire assistenza ai rifugiati. La situazione è drammatica e c’è davvero molto da fare». Oltre ad assicurare aiuti umanitari è necessario sostenere i cristiani e le altre minoranze religiose, affinché «questa tragedia non si ripeta. Come ha detto il patriarca Sako c’è ancora una speranza per i cristiani in Iraq, ma dobbiamo agire immediatamente».
La delegazione ACS ha incontrato i rifugiati nella città di Erbil e nel sobborgo di Ankawa per poi dirigersi, accompagnata da monsignor Nona, a Zakho, Dohuk e in alcuni dei villaggi circostanti. «Non potendo attraversare Mosul – spiega Maria Lozano – per raggiungere Dohuk abbiamo percorso una strada montagnosa, arrivando a soli diciotto chilometri di distanza dalle postazioni di Isis». Migliaia di iracheni fuggiti da Mosul, Alqosh, Tell Keyf, Tel Isqof e altre località hanno trovato rifugio in quest’area e dalle tante voci ascoltate da ACS emerge un’unica storia di angoscia e disperazione. «Non posso più rimanere qui, troppo sangue è stato versato», racconta la madre di un ragazzo ucciso dagli estremisti.
Sebbene con poche risorse a disposizione, la Chiesa cerca di accogliere degnamente i numerosissimi rifugiati che sono alloggiati nelle chiese, negli edifici abbandonati, nelle strade e nei parchi. Fino a sette famiglie condividono un’unica tenda e fino a trenta rifugiati vivono nella stessa casa. Le temperature sfiorano i 44 gradi e l’aria è irrespirabile. «La Chiesa fa tutto il possibile per alleviare le sofferenze della popolazione – aggiunge Heereman – ma la sicurezza e la difesa del diritto alla vita e alla libertà religiosa sono di competenza della politica. E i paesi occidentali non possono assistere inermi ad un genocidio imminente».
«Bisognava agire prima che Isis arrivasse a controllare quasi metà dell’Iraq», afferma monsignor Nona invocando una triplice azione da parte della comunità internazionale. «È innanzitutto necessario assicurare l’aiuto umanitario, perché da soli non riusciamo ad assistere così tante famiglie». In secondo luogo l’Occidente deve esercitare una continua pressione sul governo iracheno affinché le divisioni interne siano appianate e l’apparato statale rafforzato. «Un tempo avevamo uno stato forte, ma dal 2003 ad oggi sono stati commessi troppi errori ed ora la nostra politica è fondata sul niente». Infine occorre difendere militarmente il Kurdistan, «perché fino a quando Isis sarà presente, noi saremo costantemente minacciati».