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Intifada dei coltelli: la rabbia di una generazione

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Chiara Santomiero - Aleteia - pubblicato il 09/11/15
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La nuova escalation di violenza tra israeliani e palestinesi all’ombra dei muri di separazione. P. Halaweh: “Senza giustizia non c’è sicurezza”

E’ la rabbia impotente contro la politica degli insediamenti dei coloni israeliani e la segregazione ad armare la mano dei giovani protagonisti di quella che i media occidentali chiamano l’Intifada “dei coltelli”. “Sarebbe ingiusto – afferma p. Aziz Halaweh, sacerdote palestinese in Italia per studiare liturgia alla Pontificia Università della Santa Croce – leggere ciò accade solo alla luce dell’attualità. Bisogna andare all’origine del problema. La gente è esasperata dalle continue provocazioni del governo israeliano e dei coloni che occupano le terre dei palestinesi“.

Anche stamattina una ragazza palestinese di 23 anni è stata uccisa dopo aver tentato di assaltare con un coltello dei soldati ad un posto di controllo nei pressi dell’insediamento ebraico di Alfei Menashe in Cisgiordania. Nella borsa di Rasha Muhammed Ahmed Ryian è stato trovato un biglietto che spiega le sue motivazioni: “Faccio questo con mente lucida, in difesa della Nazione, dei giovani e delle giovani. Non posso più sopportare quello che vedo”. Poco prima di lei era morto in un ospedale di Gerusalemme Benyamin Yaakubovic, la guardia di frontiera israeliana di 19 anni travolta da un’auto palestinese nei giorni scorsi. Dagli inizi di ottobre la nuova escalation di violenza nel conflitto che oppone da decenni israliani e palestinesi sta provocando vittime da una parte e dall’altra. Gli esperti sono cauti nel definirla “Terza Intifada”, dopo le due rivolte palestinesi avvenute nei territori occupati a partire dagli anni Ottanta. Lo slanciarsi disperato e spesso suicida verso gli obiettivi umani armati di coltello, sembrerebbe suggerire una mancanza di coordinamento degli attacchi e un carattere più spontaneo. Secondo l’intelligence israeliana, invece, una strategia esiste e fa capo agli elementi più radicali di Hamas, sfuggiti al controllo del presidente palestinese Mahmud Abbas.

In ogni caso è vero che esiste una “generazione Oslo”, dal nome degli accordi di pace del 1993, che soffoca nella frustrazione di non aver conosciuto altro nella sua giovane vita che Intifada, check point, misure discriminatorie e muri di separazione. Muri che continuano a moltiplicarsi (di recente un muro è stato costruito a Gerusalemme est tra il rione palestinese di Jabal Mukaber e quello ebraico di Armon HaNatziv) e ad allungarsi, come dimostra la vicenda della valle di Cremisan, alle porte di Betlemme.

Dopo nove anni di contesa giudiziaria il governo israeliano ha avuto la meglio e ha iniziato la costruzione del muro di separazione tra Israele e Palestina attraverso la valle dove sono le case e i terreni di 58 famiglie cristiane di Beit Jala, sradicando olivi secolari da cui traggono sostentamento le stesse famiglie e coinvolgendo anche un monastero e un convento salesiano.

La decisione della Corte suprema di Israele che ha dato il via alle ruspe è arrivata a sorpresa qualche mese dopo una precedente decisione che invece aveva dato ragione alle famiglie palestinesi e forse non vi è estranea, secondo il Patriarcato latino di Gerusalemme, la decisione del Vaticano di riconoscere lo Stato palestinese. “Si può capire, senza giustificare” ha detto il patriarca di Gerusalemme Fouad Twal a proposito dell’Intifada dei coltelli: “è la logica conseguenza dello scontento generale e della strategia di Israele che alimenta la tensione con l’ingiustizia e i muri”.

La violenza non dà frutti – concorda p. Halaweh – e non porta pace. Ma anche l’ingiustizia non porta alla sicurezza: quando finirà l’occupazione, la violenza non avrà più scuse“.

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