Cinquant’anni fa 42 vescovi del mondo (poi diventati 500) si impegnarono per una “Chiesa povera per i poveri”Era il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura del Concilio Vaticano II. Alcuni vescovi di varie parti del mondo, a Roma per partecipare all’assise conciliare, si trovarono a celebrare alle catacombe di Santa Domitilla e “alla fioca luce della sera” firmarono un patto in 12 punti per una “Chiesa povera e per i poveri”. “Era emersa già l’idea della Chiesa dei poveri, soprattutto per l’influsso dell’episcopato latino-americano – racconta uno dei firmatari, mons. Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, allora ausiliare a Bologna di mons. Giacomo Lercaro-. Si era, però, ai tempi della Guerra Fredda e il papa Paolo VI ebbe timore che questa sottolineatura potesse assumere un colore politico, così preferì pubblicare più tardi un’enciclica su questo argomento: la Popolorum Progressio”. Fu allora che i vescovi belgi, capofila del Movimento della Chiesa dei poveri, proposero l’idea di un patto tra i vescovi del mondo per impegnarsi in uno stile di vita sobrio, più vicino alla gente, lontano dal lusso e dalla tentazione del potere.
A cominciare dai titoli: “Rifiutiamo di essere chiamati con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore…) – si legge nel testo -. Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre». “Vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto” enuncia puntigliosamente l’elenco in 12 punti, rinunciando “per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti. Né oro, né argento”. “Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca” si impegnavano i vescovi, e “tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale della nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli”.
Alla base del servizio rivolto in particolare a “persone e gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati” c’è la consapevolezza “delle esigenze di giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni”; per questo i vescovi – inizialmente 42, arrivati poi nel corso del tempo a 500 – si proponevano di cercare di “trasformare le opere di ‘beneficenza’ in opere sociali fondate sulla carità e la giustizia”.
Non meraviglia trovare tra i firmatari personalità come dom Helder Camara, arcivescovo di Recife in Brasile; l’ausiliare di Cordoba (Argentina) Enrique Angelelli assassinato durante la dittatura e amico dell’allora padre Jorge Mario Bergoglio; l’arcivescovo di Nazaret, Hakim; Massimo IV patriarca di Antiochia, Leonidas Proaño, vescovo di Riobamba (Ecuador), difensore dei campesinos; il vescovo di Tournai (Belgio), Charles-Marie Himmer, che tenne l’omelia di quella celebrazione alle catacombe. Successivamente il patto fu firmato anche dal beato mons. Oscar Romero, assassinato dalla giunta militare del Salvador.
“Ah, come vorrei una Chiesa povera per i poveri” disse a pochi giorni dalla sua elezione, il 16 marzo 2013, papa Francesco. Cinquant’anni dopo la sensibilità e lo stile del pontefice venuto dalla fine del mondo sembra realizzare quell’impegno preso dai vescovi conciliari a Santa Domitilla e conferisce un sapore particolare alle celebrazioni previste per l’anniversario (http://www.emi.it/50-anniversario-patto-catacombe-seminario-urbaniana-14-novembre, http://www.catacombedinapoli.it/it/patto. “Come un seme di frumento – afferma mons. Bettazzi – messo sotto la terra e cresciuto pian piano fino a dare i suoi frutti”.