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Shalom, papa Francesco!

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Chiara Santomiero - Aleteia - pubblicato il 15/01/16
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Di Segni: “La visita di Bergoglio è un segno di amicizia e di pace in controtendenza con i tempi che viviamo”. “Ebrei fratelli maggiori? Sì, ma non perdenti”

Quando Giovanni Paolo II si recò al Tempio Maggiore di Roma, il 13 aprile 1986, l’evento segnò la storia: era il primo pontefice a mettere piede in un luogo di culto ebraico. Dal Vaticano alla sinagoga sul Lungotevere de’ Cenci ci sono poco meno di 4 chilometri, ma c’erano voluti quasi due mila anni per percorrerli. La visita di papa Francesco il 17 gennaio, a sei anni esatti di distanza da quella di Benedetto XVI e a quasi trent’anni da quella di Wojtyla, comincia ad assomigliare ad una consuetudine e di sicuro è il segno di una amicizia che si rafforza.

“La strada aperta di amicizia e di lotta contro ogni forma di intolleranza che è il significato delle precedenti visite – sottolinea il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni – non è una strada ferma, non si torna indietro, ma si va avanti”. Ma c’è anche un altro significato molto importante della visita che: “Si immerge nella realtà dei nostri tempi, tristissimi per quanto riguarda la rinascita di una violenza ispirata alla religione. Il fatto che i rappresentanti di due importanti religioni si incontrino con un segno di pace, va in assoluta controtendenza rispetto ai segnali che ci stanno preoccupando“.

“Fratelli prediletti, fratelli maggiori”

Nel 1986 fu Elio Toaff, per mezzo secolo rabbino capo di Roma e grande protagonista del dialogo, ad accogliere papa Wojtyla che si riferì agli ebrei come “fratelli prediletti” e “fratelli maggiori”, un’espressione che Di Segni non ama particolarmente. “Da una parte è un’espressione molto bella – ed è innegabile che lo sia – perchè sottolinea il rapporto della fratellanza e il rapporto di antichità rispetto alla fratellanza; d’altra parte, da un punto di vista strettamente biblico e teologico, il tema dell’essere fratello maggiore si accompagna a quello dell’essere fratello cattivo e fratello perdente, come Caino o Esaù. Sono tutti esempi negativi e persone che hanno perso. Questo si ricollega al tema teologico – che riguarda poche persone – del fatto che il popolo ebraico ha perso la primogenitura e ha perso questo in rapporto a una sostituzione“.

Una teoria, quella della sostituzione del popolo cristiano al popolo ebraico come “popolo eletto” da Dio, decisamente messa da parte dal documento “Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29), pubblicato dalla Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo in occasione del 50° Anniversario della “Nostra aetate”, la dichiarazione del Concilio Vaticano II che aprì al dialogo tra le due fedi. “La dichiarazione che è stata fatta dalla Chiesa cattolica è importante – afferma il rabbino capo di Roma a proposito delle prospettive del dialogo ebraico-cristiano – perchè riassume dal punto di vista teologico cinquant’anni di lavoro svolto soprattutto dalla Chiesa cattolica, ma sempre ascoltando il punto di vista ebraico. Abbiamo davanti una grande sfida che è quella di essere impegnati e dare segno attraverso la nostra amicizia di un segno di costruzione e di arricchimento delle nostre società e della società che ci circonda. Questo è il nostro grande incarico per gli anni che seguiranno”.

La Shoah, monito per il nostro tempo

La visita di Papa Francesco è attesa con molta partecipazione e simpatia dalla comunità ebraica romana, la più antica della diaspora, e il Tempio sarà “ai limiti della capienza”. Il pontefice si fermerà davanti alla lapide che ricorda il 16 ottobre del 1943 quando le SS invasero il Ghetto e deportarono 1024 ebrei romani nel campo di sterminio di Auschiwtz, simbolo della tragica realtà della Shoah. “Un mistero dal significato esclusivo e una sfida alla ragione”, l’ ha definita in passato Di Segni. “Si è trattato – dice ad Aleteia – di un enorme crimine arrivato al culmine di una storia di persecuzioni, intolleranze, sofferenze e che si è distinto non soltanto per le dimensioni, ma per la programmazione sistematica e l’uso della tecnologia. Da questo punto di vista è un orrore unico e un enorme monito per tutta la nostra società che in questi errori può ricadere”.

La storia del popolo ebraico diventa monito per i nostri giorni segnati da nuove violenze in nome della religione e può suggerire come affrontare i fenomeni delle migrazioni e della convivenza tra culture e fedi diverse. “La nostra storia – conferma il rabbino capo di Roma – offre un modello estremamente importante di diversità che si inserisce in un contesto urbano integrandosi e arricchendolo. É l’integrazione la condizione per la convivenza. E’ su questo che bisogna lavorare perché un’emigrazione senza integrazione è destinata a fallire tragicamente”.

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