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Quanta miseria si cela nell’abbondanza?

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Silvia Lucchetti - Aleteia - published on 16/03/16
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Il prezzo che l’Occidente paga al culto della trinità perversa: Piacere, Ricchezza e ImmagineClaudio Risé, noto psicoterapeuta e psicoanalista, con il libro “Sazi da morire. Malattie dell’abbondanza e necessità della fatica” (San Paolo Edizioni) offre una lettura critica e rigorosa della crisi di valori in cui si dibatte l’Occidente che rischia di intrappolare l’uomo “moderno” in un vicolo cieco da cui non è scontata la possibilità di uscita. Questo rischio è tanto più pernicioso in assenza della chiara consapevolezza che la triade “Piacere, Ricchezza e Immagine” rappresenta la trinità di questo nuovo millennio venerata dagli uomini occidentali «chiusi in un ego ipertrofico e disperato, dove non si vede più realmente l’altro, non si trasmette più nulla» se non la cultura dell’eccesso.

Per imboccare la via della salvezza dall’oscena assurdità dell’eccesso in cui siamo irretiti, l’unica strada è quella di riscoprire il valore del limite, la ricchezza educativa delle necessità, del prendere atto della realtà, “nella sua verità e meraviglia”.

«Troppi soldi, troppo cibo, troppi zuccheri, troppi grassi, troppe droghe. Un bisogno di essere riempiti di materie adulterate e avvelenanti. Evitando la fatica fisica, e consegnandosi così alla sedentarietà. Poggiati su macchine: in automobile, in aereo, sul tapis roulant in palestra, ma mai camminando, coi piedi sulla terra. Guardando alla vita come divertimento, gratificazione, rassicurazione permanente. (…) In Occidente, il 90% delle persone muore di malattie non comunicabili, che non si trasmettono. Siaamo diventati mondi chiusi, alla ricerca di un piacere fine a se stesso. Malati».

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Qualcuno potrebbe obiettare che in questa riflessione l’autore vagheggi un ritorno a una fase dello sviluppo umano “primitiva” eludendo di prendere atto della tendenza innata nell’uomo a superare i propri limiti, esemplificata dal verso dantesco «(…) fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» e dalla figura di Ulisse. A questo proposito Risé chiarisce il suo pensiero:

«Eccedere il limite, però, è sempre stata una tentazione dell’uomo, dal Giardino dell’Eden in poi. A volte si tratta di oltrepassare quello che Freud chiama principio di realtà, per inseguire il principio del piacere. Questo tipo di oltrepassamento assicura a chi lo compie non piaceri, ma sofferenze. Il dominio del principio di piacere, infatti, quando viola il principio di realtà fa ammalare, come prova tutta l’esperienza clinica della psicoanalisi. Sofferenza, malattia, errore, hanno tuttavia anche un senso, che occorre riconoscere per superarli. Andare verso altro, senza troppo temerne i rischi, è anche un aspetto dello sviluppo personale, oltre che collettivo. Restare rigidamente nel limite, senza mai confrontarvisi, mantiene “piccoli”. Ma non nel senso, amato da Gesù, del bambino interessato a tutto il vivente e desideroso di conoscerlo, ma nel senso di chi non chiede, non rischia mai, si accartoccia su se stesso in un crampo di paura del fuori e di avarizia di sé. Tendere all’oltre è umano e ci fa diventare davvero più grandi (non grandiosi, come vorrebbe il narcisismo). È decisivo però rimanere consapevoli del limite. Un buon esercizio per riuscirci è immergersi profondamente e spesso nel mondo naturale in cui ci troviamo, tanto più ampio di noi e nel quale fatalmente rientreremo».

Il problema non sta quindi nel “tendere all’oltre” in sé, ma nel perseguire in modo “delirante” questo obiettivo come assoluto, negando la stessa esistenza del limite e dei vincoli della realtà, in particolare della natura.

«(…) il limite viene continuamente spostato, e l’uomo acquista nuovo potere su di sé e sul mondo. Diventa però anche capace di scatenare le più devastanti tragedie per gli altri esseri umani e per tutto il vivente, per via della sua difficoltà a mantenere una misura nei suoi poteri e nelle sue facoltà. È sempre la hýbris, l’arroganza e presunzione di sé, che continuamente lo sfida in uno sviluppo estenuante, che lo fa crescere, ma che può anche distruggerlo. La hýbris è l’“ombra”, il volto arrogante, anche futile, della ricerca dell’uomo di trasformare sé e il mondo. L’uomo ne cade preda quando non risponde in modo profondo alla spinta trasformativa (spirituale, anche se ricca di effetti sul mondo materiale) cui è richiamato dall’esperienza del limite e della necessità, e ne fa invece solo uno strumento di potere, di vanità e di piacere. Attraverso la hýbris l’uomo esce – almeno apparentemente – dal proprio limite, ma nel modo della sopraffazione dell’altro e della natura. Ciò ha sempre conseguenze distruttive, anche per lui».

Quali sono per l’umanità le conseguenze della hýbris, di questa arroganza che si rivolge in definitiva contro se stessi e la natura?

«Ognuna delle possibilità prima immaginate, poi realizzate è tuttavia accompagnata da precise controindicazioni. Come gli sviluppi maniacali, o depressivi, in cui finisce ogni narcisismo fuori controllo. Le crisi economiche che accompagnano l’anarchia dei mercati, divorando ricchezze appena costruite. L’inutilità di ogni estetismo quando non è artisticamente ispirato. La caduta demografica, di cui ci occuperemo tra poco. La vecchiaia e la morte, che arrivano comunque, anche se tardi, e nelle culture materialiste sono per giunta private di ogni onore e tenerezza. Uno studioso del fenomeno così presenta la fase storica definita postumanesimo: «L’era del postumano è preannunciata da eventi che nell’antica Roma sarebbero stati definiti prodigi: nonne che partoriscono nipoti, figli generati da padri morti dieci anni prima, bambini nati da due madri». Ad essere cinici, si tratterebbe di accomodarsi, e vedere come continua lo spettacolo. Ma non lo siamo; oltretutto dentro lo spettacolo ci siamo anche noi».

Uno dei più devastanti effetti della hýbris è il netto calo demografico che si è registrato negli ultimi decenni nelle società occidentali, a cui si associa lo sviluppo di teorie antropologiche che, astraendo dai vincoli biologici posti dalla Natura, si muovono verso visioni artificiali dell’essere umano in cui viene negata la fondamentale complementarietà e l‘energia “fecondatrice” del maschile e del femminile.

«(…)Al fenomeno molto concreto e profondo della decrescita demografica in Europa se ne accompagna uno più superficiale e di natura prevalentemente ideologica, ma significativo sia del malessere del continente sia dell’invadenza (di cui quel malessere è spia) delle grandi strutture tecnoeconomiche e del loro potere sulle istituzioni politiche nella vita delle persone. Si tratta dell’appoggio di importanti ministeri (come quello della cultura e ricerca) di diversi Stati, e delle Istituzioni europee, alla cosiddetta “teoria del gender”. La sua autrice, Judith Butler, docente di inglese e letterature comparate e filosofa “deconstruttivista”, ritiene il maschile e il femminile delle “costruzioni culturali”, delle performance (recitazioni) cui l’individuo si adatta sotto la pressione dei condizionamenti correnti in materia di sessualità, ma da cui deve essere liberato in nome dei diritti umani. Il clamore suscitato da questa “teoria”, e l’appoggio che ha incontrato presso i grandi centri di potere statale ed economici occidentali, interessa direttamente questo libro perché è parte non secondaria di quell’attacco al mondo organico e naturale (quindi alla sessualità e affettività umana) e del tentativo di sostituire l’intelligenza astratta al sentimento umano, che abbiamo visto essere la base di tutte le patologie dell’abbondanza e dell’esonero dalla necessità. (…) In questa eliminazione del corpo e dell’affettività umana, la “gender theory” viene usata per ridurre la persona alle proprie pratiche sessuali, facendole «uscire allo scoperto» e facendone la base di nuove “identità”, sulla base delle quali l’individuo verrà riconosciuto dalla società».

L’autore nella postfazione lancia un messaggio di speranza, perché coglie i germi della reazione contro il deragliamento dalle radici profonde dell’Umano che la società occidentale ha, non da poco, intrapreso, negando la presenza del Divino.

«Mentre i media tempestano col mito del robot che ti porta la colazione a letto, chi ha più senso vitale torna a farsi il pane. L’ideologia della fine della natura, del maschile, del femminile, della riproduzione, dell’estinzione del vivente, suscita l’innamoramento per la vita. C’è voglia e urgenza di essere, non di consumare. Ascoltiamole».

«Si può vivere senza Dio? Probabilmente no. Dio è il primo altro, il tu che svela la piccolezza personale e apre la strada all’incontro con gli altri. Ti riempie di vita, di mondo, di comunità. Di sé. Questo, certo, relativizza l’individuo, che scopre così di non essere tutto e, anzi, forse quasi niente. Il tutto è fuori, oltre, altrove. L’occidentale ha creduto di avere tutto, e si è perso. Perché vuole prendere, avere, trattenere, godere. Ciò (tra l’altro) rallenta i suoi processi di ricambio, accelera le sclerosi, lo intossica, lo immobilizza. Lo uccide, intellettualmente, spiritualmente e fisicamente».

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