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Stato d’emergenza nelle Filippine, la Chiesa: “Attenti alla dittatura”

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Vatican Insider - pubblicato il 06/09/16
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Svolta politica nelle Filippine: il presidente Rodrigo Duterte, prima di partire per il vertice della Associazione dei paesi del Sudest asiatico in Laos – venuto alla ribalta per lo sgarbo verbale rivolto al presidente Obama – ha dichiarato lo stato di emergenza nazionale. Il provvedimento, ha spiegato un portavoce, è stato adottato in seguito all’attacco terroristico che ha colpito il 2 settembre la città di Davao, nel sud dell’arcipelago, causando 14 morti e 71 feriti. 

A Davao, città con due milioni di abitanti sull’isola di Miandanao, Duterte è stato sindaco per 23 anni. L’attentato dinamitardo, avvenuto mentre Duterte era in visita nella città, è stato rivendicato da «Abu Sayyaf» («Il brando di Dio»), gruppo terrorista attivo dal 1991 che lotta per la secessione e uno stato islamico nelle Filippine meridionali.  

Lo stato di emergenza, tecnicamente in vigore dal 5 settembre, pur non trattandosi della «legge marziale», dà al presidente il potere di affiancare alla polizia le Forze armate per tutelare la sicurezza nazionale. Secondo Duterte, il provvedimento serve a contrastare il diffuso «stato di illegalità» che si riscontra nel Paese, laddove la criminalità comune fa il paio con i gruppi terroristici che urge debellare. 

Il provvedimento è stato accolto con preoccupazione da osservatori e organizzazioni della società civile che intravedono una svolta autoritaria nella nazione asiatica a maggioranza cattolica, e paventano i tempi della dittatura di Ferdinando Marcos.  

Quest’ultimo, tra l’altro, è stato onorato da Duterte che lo ha elogiato come «un buon soldato». La sua recente decisione di traslare le spoglie di Marcos nel cimitero degli eroi di Manila ha provocato vivaci proteste nell’opinione pubblica. 

Broderick Pabillo, vescovo ausiliare di Manila, aveva messo in guardia la popolazione, temendo lo «stato di polizia». Le critiche sono partite dalla campagna di esecuzioni extragiudiziali compiute dalla polizia filippina e da gruppi paramilitari impegnati nella lotta senza quartiere a trafficanti e spacciatori di droga. Secondo stime ufficiali, sono 1.900 le vittime della campagna di giustizia sommaria condotta dagli agenti «dal grilletto facile» che il nuovo direttore generale della polizia Rolando Dela Rosa – pescato da Duterte nella sua Davao – ha assicurato che proteggerà da qualsiasi denuncia di «abuso di potere».  

Pabillo ha aggiunto che «le ombre di Marcos potrebbero avvolgere le Filippine», assicurando la vigilanza della Chiesa «perchè non tornino quegli anni bui», e molti altri leader cattolici hanno deplorato la deriva giustizialista che oggi, dopo la proclamazione dello stato di emergenza, potrebbe perfino peggiorare. Tra i vescovi intervenuti, Socrates Villegas, presidente in carica della Conferenza episcopale, e Antonio Ledesma, che in campagna elettorale aveva paragonato Duterte a Pol Pot. 

La cittadinanza di Davao è attonita dopo l’attentato al popolare mercato della città che ha richiamato alla memoria lo spettro del terrorismo. L’arcivescovo locale Romulo Valles, celebrando la Messa per le vittime, ha invitato gli abitanti a «rimanere forti nella fede» di fronte «alla barbarie disumana che uccide vite innocenti» e a «confidare sempre nella grazia di Dio». Anche nella capitale Manila gli studenti, i devoti e le associazioni della società civile hanno organizzato veglie di preghiera e acceso candele, chiedendo «giustizia». 

L’attentato è una sfida a Duterte, in un luogo a lui caro, nella città tuttora guidata da sua figlia Sara, neo sindaca. E lo è anche al processo di pace tra il governo e i gruppi ribelli islamici che ha appena ripreso fiato grazie ai colloqui preparatori in corso tra le parti, che porteranno entro luglio 2017 all’elaborazione di una nuova versione della «Bangsamoro basic law» (la Legge fondamentale «Bangsamoro», come si definiscono i musulmani filippini). La legge disegna confini e prerogative del territorio che sostituirà l’attuale regione autonoma musulmana, in un quadro che, come spiegato dallo stesso Duterte, sarà di tipo federale.  

Nel contempo le forze armate lanceranno un’offensiva contro il gruppo terrorista Abu Sayyaf che oggi si richiama allo «Stato islamico» (Is), sfruttando un marchio in voga sul mercato internazionale, dopo anni in cui si era dichiarato parte della rete «Al Qaeda». Spetterà a Duterte, forse, riuscire a svelare il «mistero» di Abu Sayyaf: capire come mai un manipolo di trecento militanti possa tenere in scacco per vent’anni l’esercito regolare filippino, in un territorio circoscritto, composto da piccole isole.  

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