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L’incontro tra John F. Kennedy e un ragazzino del Bronx

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Larry Peterson - pubblicato il 22/11/16
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Nel 53esimo anniversario dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, Larry Peterson ricorda il suo “quasi-scontro” con quello che sarebbe diventato il presidente degli Stati Uniti“Il Presidente è morto”. Per chi le può ricordare, queste parole di 50 anni fa resteranno per sempre impresse nel cervello, come lettere scolpite su una lapide di granito: parole chiare, concise e dal significato inequivocabile. Come è potuto accadere? Cose del genere non erano comuni, soprattutto nell’America del 1963. Ma pochi giorni più tardi John John, col suo piccolo soprabito e con i pantaloncini corti, era lì a salutare il feretro di suo padre, coperto dalla nostra bandiera. Era tutto vero, senza alcun dubbio.

Io ho avuto un incontro personale con John Fitzgerald Kennedy. E proprio come il momento in cui ho sentito della sua morte, anche quello del nostro contatto è un momento impresso nella mia mente. Sono ricordi chiari e vividi, come se fossero avvenuti 10 minuti fa. L’unica differenza è che questi sono i miei momenti con JFK. Nessuno ha mai vissuto qualcosa così. Eravamo soltanto io e il 35esimo presidente degli Stati Uniti. Facciamo un salto al 5 novembre 1960.

L’hotel più famoso del Bronx era il Concourse Plaza Hotel all’angolo tra la 161esima Strada e il Grand Concourse. Costruito nel 1922, era un elegante albergo a 12 piani, a tre isolati dallo Yankee Stadium. Molti degli Yankees sono stati lì, tra cui Babe Ruth, Mickey Mantle e altri. Sabato 5 novembre 1960, il senatore John F. Kennedy avrebbe dovuto fare un discorso elettorale in quell’hotel. Mancavano soltanto quattro giorni alla fatidica elezione che lo avrebbe portato alla presidenza.

Avevo un lavoretto per il doposcuola, consegnavo generi alimentari e mettevo in ordine gli scaffali di Harry “il Droghiere”. Lavoravo per Harry ogni giorno dopo la scuola, fino alle 18; il sabato invece lavoravo dalle 10 alle 18. Mi capitò più volte di fare consegne al Plaza. Diversi anziani vivevano lì tutto l’anno, e chiamavano sempre Harry quando avevano bisogno di qualcosa. Due volte a settimana preparavo le buste con la spesa e le caricavo su un carrello che poi spingevo per due collinette, fino all’hotel.

Un venerdì eseguii una consegna all’ottavo piano e la cliente mi disse che il senatore Kennedy sarebbe arrivato lì, la mattina successiva, per un discorso. Era molto emozionata e mi disse che avrebbe fatto di tutto per assicurarsi di essere nella sala conferenze al suo arrivo. Sapendo che avrei dovuto lavorare, diedi per scontato che non avrei potuto esserci, e la cosa mi pesò molto.

Quella sera ne parlai con il mio amico “Sticks” e decidemmo che la mattina seguente saremmo stati in hotel verso le 9. Arrivammo intorno alle 9.30 ed entrammo dalla porta sul retro adibita al carico e scarico merce, come quando eravamo di servizio. L’atmosfera era strana, perché non c’erano né macchine né camion. Quella mattina il retro dell’albergo era totalmente sgombro.

Sticks corse davanti a me ed entrò nella struttura. Fu così veloce che lo persi di vista. Presi un breve corridoio e poi girai a sinistra. Ricordo che era abbastanza scuro. Appena girai l’angolo sobbalzai, stavo per scontrarmi con un altra persona.

L’uomo addosso al quale stavo per inciampare, che mi stava guardando negli occhi, era il senatore Kennedy. Eravamo a pochi centimetri l’uno dall’altro. Aveva appena finito il suo discorso e stava lasciando l’hotel attraverso il portone sul retro. Era con un altro uomo. Tutto lì. Non c’era nessun altro. Soltanto me, John F. Kennedy e un altro signore. Il suo accompagnatore fece cenno e disse “Permesso, giovanotto”. Io non dissi nulla e feci un passo indietro. Il senatore Kennedy mi sorrise e disse “È bello vederti”. Poi lui e il suo amico presero delle scale ed uscirono dalla porta che dava sulla 162esima strada.

Di fronte a me c’erano delle scale a chiocciola. Salii rapidamente mezzo piano e mi affacciai alla finestra: guardai fuori e vidi per strada, a pochi metri di distanza, il presidente degli Stati Uniti accanto ad una limousine. Stava parlando con il suo accompagnatore. Per strada non c’erano né poliziotti né guardie del corpo. Nessun altro.


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Indossava un vestito blu che sembrava molto costoso e aveva il volto perfettamente abbronzato, cosa abbastanza insolita per la New York di novembre. I suoi gonfi capelli color sabbia svolazzavano al vento, e lui li riportò in ordine con la mano destra. Poi accadde: mi guardò, sorrise (ricordo ancora i suoi denti) ed alzò la sua mano. Non la mosse, si limitò a mantenerla alzata con le dita aperte. Stette così per un paio di secondi, penso.

Stava dicendo “arrivederci” a me, un ragazzino del Bronx che si era trovato lì, in quel momento, per caso. Alzai la mano destra e suppongo di aver sorriso. Poi entrò nella limousine ed andò via. Guardai la macchina del mio nuovo amichetto andare verso il Grand Concourse. Che momento!

“Hey, che stai facendo?” Mi girai e vidi Sticks in fondo alle scale. “Non sono riuscito a vederlo,” mi disse. “E tu?”

Suppongo di aver sorriso.

[Traduzione dall’inglese a cura di Valerio Evangelista]

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