Padre Hans Zollner, gesuita, è preside dell’Istituto di psicologia dell’Università Gregoriana, dirige il Centro per la protezione dell’infanzia attivo già da qualche anno presso lo stesso ateneo, ed è membro della Pontificia commissione per la protezione dei minori istituita da papa Francesco. Il suo, dunque, è un osservatorio privilegiato per capire come viene affrontato oggi lo scandalo degli abusi sessuali sui minori, una vicenda drammatica che ha colpito gravemente la credibilità della Chiesa in varie parti del mondo, ma che riguarda anche le società nel loro insieme.
Padre Zollner, cominciamo da una parola chiave delle varie iniziative in atto: prevenzione. Cosa significa applicarla nel campo della protezione dei minori?
«La prevenzione è qualcosa che deve partire da vari livelli. Si tratta di un lavoro educativo e di sensibilizzazione. Da un lato, dunque, è necessario iniziare a parlare degli abusi, bisogna superare la vergogna connessa con questo tema. Quindi in primo luogo è importante poter parlare, aprire gli occhi, capire, diventare più sensibili, usare le parole giuste, sia nei confronti di possibili vittime, sia nei confronti di possibili abusatori o delle stesse autorità, la polizia, il vescovo eccetera. E poi penso che sia indispensabile un lavoro di educazione molto profondo e continuo perché la questione è veramente come si possa entrare, da parte della Chiesa, nell’attività formativa, sia sacerdotale che nelle scuole cattoliche, fra i catechisti, negli ospedali, negli orfanotrofi, negli asili e nel lavoro pastorale giovanile».
Il messaggio essenziale quale deve essere?
«Bisogna lavorare per una tutela maggiore in favore dei più vulnerabili, i minori, gli adolescenti; questi non sono adulti, non possono esprimersi come tali, per cui noi vogliamo entrare nelle strutture educative e accademiche per vedere come può essere inserito un programma specifico sulla prevenzione, cioè sulla capacità di riconoscere i segni di abusi, sulla conoscenza della legge, sia della Chiesa che dello Stato in cui ci si trova, sia per la creazione di spazi sicuri. Per cui noi miriamo all’inserimento di programmi specifici nel curriculum di qualsiasi gruppo professionale. Ed è sorprendente che anche per professioni come il medico, lo psicologo, nelle università statali di quasi tutto il mondo, questo tema non venga trattato».
Quindi affrontando questo tema, avete verificato quanto le società, nel loro insieme, facciano fatica a confrontarsi col problema degli abusi sui minori…
«Sì, e perciò adesso affronteremo anche un tema che mi pare particolarmente urgente e sul quale vedo che anche a livello sociale c’è una certa difficoltà: ovvero l’abuso attraverso Internet. L’uso che adolescenti e bambini fanno di internet fra di loro praticando varie forme di abuso e poi naturalmente il commercio di immagini e foto pornografiche di minori che vengono venduti sulla rete; è diventato un grande commercio e può essere un rischio, un pericolo di carattere generale».
Come stanno reagendo le chiese locali, le comunità cattoliche, in giro per il mondo a queste vostre iniziative, agli input che state inviando?
«Ho girato ormai 40 Paesi parlando di questo tema, e posso dire che abbiamo un movimento positivo, certo, non ancora presente dappertutto e nemmeno presente con la stessa intensità all’interno di singoli Paesi ma, allo stesso tempo, c’è oggi a livello globale una maggiore sensibilizzazione, e una maggiore presa di coscienza e quindi la volontà di formare le persone. E’ un lavoro che riguarda sì seminaristi e sacerdoti, ma anche le scuole, perché in molti Paesi la Chiesa ha un forte peso nel settore educativo, sia in Paesi cattolici che non cattolici. E quindi posso dire che dalle isole Figi al Cile, dagli Stati Uniti fino allo Zambia, abbiamo molte risposte positive. Abbiamo avuto iniziative di vario tipo: con gruppi di 15 sacerdoti o di 400 persone come da ultimo, un mese fa, in Messico dove c’erano rappresentanti di 60 diocesi e di 40 ordini religiosi, e dove abbiamo parlato con la conferenza episcopale. L’anno passato abbiamo avuto un incontro di tre giorni con la conferenza episcopale delle Filippine solo su questo argomento. Questo per dire che nella Chiesa c’è molta più attenzione anche solo rispetto a un anno fa; il che non vuol dire che abbiamo risolto, che abbiamo cambiato la cultura. Una cultura non si cambia in 5 o 10 anni, si cambia in trent’anni. Una cosa che la gente molto spesso non riesce a capire è che la Chiesa non è un blocco monolitico che si muove tutto insieme: ci sono quelli che sono indietro, quelli che magari sono più avanti, c’è molto da fare, io parlo sempre di un cambio generazionale. Ma proprio per questo dobbiamo puntare sull’educazione, perché solo questo lavoro cambierà le cose. E vediamo che la prevenzione funziona: dove essa è stata introdotta istituzionalmente i nuovi casi sono ridotti al minimo, per esempio in Germania, Irlanda, Stati Uniti. Certo, il fenomeno non potrà mai essere sradicato del tutto, purtroppo, perché è comunque un fenomeno umano».
In effetti, a colpire molto l’opinione pubblica negli anni, non era solo il fatto in sé per quanto grave, ma l’insabbiamento, la copertura. Si può dire che la cultura dell’omertà stia venendo meno?
«Certamente questo è sempre un tema scomodo, al quale non si voleva guardare, o del quale si voleva addirittura negare l’esistenza. Bisogna anche dire che non sempre è stato così: alcuni vescovi hanno reagito bene, anche secondo la norma canonica che già da tempo è chiara. Solo che ci sono fattori di cui bisogna tener conto come la cultura all’interno di una diocesi locale: capisco bene che è difficile per un vescovo fare un’indagine su un sacerdote che lui ha ordinato o che con lui ha studiato. Si deve purtroppo dire che in alcuni Paesi, per esempio in nord America, la Chiesa ha risposto in un modo molto legalistico alle vittime e ha mandato delle lettere scritte da avvocati e non da pastori. Lo ha fatto per proteggersi, anche dal punto di vista economico, e per proteggere la fama dell’istituzione, di un sacerdote. Si può capire dunque che ciò sia accaduto ma non è la risposta che la Chiesa di papa Benedetto e di papa Francesco vuole dare; la svolta è iniziata nel 2001-2002, quando Ratzinger era prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, e Francesco ha continuato lungo quella strada, ha istituito la commissione pontificia per la tutela dei minori, e poi ha manifestato il suo impegno personale del quale io stesso sono stato testimone quando ha incontrato a Santa Marta, nel luglio del 2014, alcune vittime di abusi sessuali».
I nuovi organismi che si occupano di abusi, sia alla Gregoriana che in Vaticano, vedono la presenza di qualificate personalità femminili. Crede che sia una novità importante per la Chiesa?
«Certamente, dobbiamo dire che le donne hanno da una parte le loro competenze e forze specifiche; la composizione della commissione pontificia è praticamente per metà femminile – sono tutte donne competenti in vari campi: psichiatria, diritto, lavoro sociale, teologia – poi c’è una capacità di empatia che è propria delle donne. In molti corsi e conferenze che tengo, la maggior parte dei partecipanti sono donne, ultimamente invece sono comparsi pure molti maschi, molti uomini, e questo è un dato certamente significativo, perché si vede che il messaggio arriva anche a sacerdoti o laici; è importante perché anche dentro la Chiesa non si vive più il problema come un attacco dell’opinione pubblica dal quale bisogna solo difendersi».
Spesso si è legato lo scandalo abusi sui minori, alla difficoltà della Chiesa a relazionarsi con la sessualità e al celibato obbligatorio. Come valuta questo aspetto del dibattito?
«E’ comprovato statisticamente, ed emerge da tutto ciò che sappiamo, che la percentuale di abusatori nei vari gruppi professionali – medici, insegnanti, educatori, allenatori sportivi – e fra i sacerdoti, è la stessa. Purtroppo dobbiamo dire che il numero dei preti non è inferiore, cioè che i sacerdoti sono come queste categorie, ma non di più. Già questo ci dice che non è il celibato a provocare gli abusi. Poi, tutte le ricerche scientifiche che sono state fatte dimostrano che l’età media in cui un sacerdote compie il suo primo abuso è di 39 anni. Il che vuole dire, nella media, 10-15 anni dopo l’ordinazione, in questo tempo il sacerdote in questione non ha commesso nessuno abuso. Allora quello che dico sempre è che il celibato come tale non è connesso con gli abusi. Un celibato mal vissuto, sì, può esser un rischio. Per cui dobbiamo puntare sulla formazione iniziale dei seminaristi, parlare di come vivere meglio le relazioni, le emozioni, la sessualità. Ma dall’altro lato dobbiamo anche puntare sulla formazione continua e l’accompagnamento del sacerdote giovane. E soprattutto quando un sacerdote prende un incarico, va in una parrocchia, possono intervenire la solitudine, la pressione, lo stress, succede allora che si cerchino vie d’uscita: una vita confortevole, relazioni adulte, denaro, l’alcol e alcuni purtroppo vivono anche tensioni che non sono di pedofilia nel senso stretto della parola, tramite un contatto con un adolescente. Bisogna infatti distinguere: un vero caso di pedofilia riguarda l’abuso sessuale su un minore prima dell’adolescenza, si tratta di circa il 10% del fenomeno; il 90% riguarda l’abuso su adolescenti, e lì dobbiamo intervenire. I veri pedofili infatti sono malati e c’è molto poco da fare, anche sotto il profilo medico. Bisogna quindi verificare seriamente l’ammissione al sacerdozio alla quale deve seguire un lungo processo di monitoraggio».
Che tipo di situazione ha trovato in Vaticano?
«Posso dire che in tutte le varie iniziative prese in Vaticano trovo sempre appoggio, interesse e incoraggiamento, in tutti i dicasteri, questo già da diversi anni. Ciò che manca, il lavoro che va completato, è tradurre le norme generali nei contesti regionali e nazionali. Il Vaticano e la Santa Sede in realtà sono molto avanti».
Ci sono stati ritardi nella ricezione di questo impegno da parte della Chiesa italiana?
«In Italia c’è una situazione molto diversificata: c’è la diocesi metà italiana metà tedesca di Bressanone, dove sono molto avanti. Ora lavoriamo con la Lumsa, abbiamo iniziato un primo corso con la facoltà teologica di Firenze, poi abbiamo collaborato con i vescovi delle Marche. Altre iniziative sono già in programma, di nuovo a Firenze, e si sta prendendo atto di ciò che si deve fare. La Chiesa italiana è molto ricca di risorse professionali. C’è quindi un’attenzione crescente, lo stesso accade in Spagna e in Francia. Posso capire che per molti vescovi questo tema è uno dei tanti, però dobbiamo veramente puntare sulla formulazione di priorità e una di queste priorità è l’impegno contro gli abusi».
In effetti anche in Italia le denunce sono aumentate perché è venuta meno un po’ la vergogna delle vittime…
«Esattamente. Il fatto che vengono denunciati più casi è certamente un segno brutto ma è anche un segno positivo perché la gente inizia a parlare il che significa che bisogna reagire pubblicamente. Conosco molti casi anche in Italia in cui i vescovi hanno ascoltato le vittime, ma la Chiesa in Italia potrebbe fare molto di più per la prevenzione e potrebbe diventare un esempio importantissimo in questo campo per tutta la società. Si tenga conto che secondo l’Ue un minore su quattro è abusato sessualmente nel continente. E’ un’enormità, e questo fenomeno rischia di crescere con internet».
Infine, come segue il Papa tutto questo lavoro?
«Il Papa certamente è informato di tutte le nostre iniziative. Ricordiamo che già poche settimane dopo la sua elezione ha parlato pubblicamente del tema e poi ha continuato a farlo. Dopo un anno di pontificato ha istituito la commissione sulla tutela dell’infanzia che per i tempi del Vaticano, i tempi romani, significa la velocità della luce. E in due anni e mezzo di esistenza la commissione ha potuto proporre al papa, come organo consultivo, la giornata di preghiera per le vittime, il procedimento per i vescovi che non seguono la legge canonica. Il 14 giugno scorso, a conclusione del primo diploma del centro della Gregoriana, mi ha scritto una lettera in cui ci ha incoraggiati a proseguire. Per Francesco l’abuso sui minori è molto grave, tanto da paragonarlo a un sacrilegio, come l’abuso sull’eucaristia. Credo che per il Papa questa battaglia si inserisca in un contesto generale di giustizia, nel lavoro per un mondo in cui le persone più vulnerabili sono quelle che vanno protette. Ad esempio prendiamo i migranti, un tema che gli è particolarmente caro: sappiamo dalle statistiche che probabilmente molti minori e molte donne migranti sono state abusati; fenomeni diversi sono quindi connessi fra di loro».