di Anne-Marie Pelletier
Per molti, nelle nostre culture occidentali contemporanee, le lacrime sono innanzitutto un indicatore di sensibilità femminile. Si continua a insegnare ai bambini che un uomo non piange. Così negli strati profondi della coscienza s’iscrive il contrasto tra un controllo virile delle emozioni, che si abbina alla capacità di far fronte e di agire, e, per contro, una sensibilità femminile pronta a lasciarsi sopraffare dall’evento e, quando questo è contrario e irritante, a rifugiarsi in una rassegnata passività. Perciò è agli uomini che spetterebbe fare la storia, come pure pensarla e spiegarla se sono storici o filosofi. Le donne, avrebbero invece la funzione di “piangerla”, in particolare laddove questa affronta l’esperienza della morte, della violenza, o una delle infinite forme dell’infelicità. Tipico dell’uomo saggio, insegna già il Fedone di Platone, sarebbe opporre all’avversità non le lacrime, ma il coraggio dell’impassibilità. Da qui il gesto di Socrate che, al momento della sua morte, allontana le presenze femminili che rischiano di turbare la sua serenità.
Certo, lo status delle lacrime è mutevole, dipende dai tempi e dai momenti delle culture. Le Scritture bibliche testimoniano pratiche molto diverse, mostrando Giuseppe e i suoi fratelli che versano abbondanti lacrime di riconciliazione, David che versa lacrime di pentimento dopo il suo peccato, o ancora un profeta che piange sconsolato per la rovina del suo popolo. Nei vangeli, le lacrime di Maria Maddalena, delle vedove e delle madri in cerca d’aiuto che attraversano il racconto, della prostituta pentita, hanno come contrappunto quelle di Gesù che piange per la morte di Lazzaro (Giovanni 11, 35), o per la rovina futura di Gerusalemme (Luca 19, 41). E la stessa cultura europea fa alternare le lacrime dell’estasi della mistica, del cuore infranto, della “preghiera per chiedere le lacrime”, a quelle, secolarizzate e mondanizzate a partire dal xviii secolo, che scorrono abbondanti nella sensibilità e nella letteratura dell’Illuminismo.
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Persino oggi — e senza poter prestare qui a tale realtà tutta l’attenzione che meriterebbe — vediamo rinascere un dibattito sulle identità di genere e gli atteggiamenti che dovrebbero appartenere rispettivamente agli uomini e alle donne. Il fatto che i modelli identificatori tradizionali del maschile si siano sgretolati nelle nostre culture occidentali determina, a mo’ di risposta, l’esaltazione di una figura di virilità conquistatrice, associando il maschile alla forza fisica, all’avventura, all’energia dell’“indomabile” (è il titolo di un’opera di John Eldredge che ha avuto grande successo negli Stati Uniti). E ciò, in contestazione delle società post-moderne, che sarebbero soggiogate dall’ossessione del care, della vulnerabilità, della preoccupazione per l’altro, in poche parole, che starebbero scivolando verso una femminilizzazione debilitante, rovinosa per l’identità del maschile, condannato a essere vissuto oggi come una condizione infelice.
Non insisto sulla dimensione politica di questa ideologia, che sta guadagnando terreno nella stessa Europa, negli ambiti sedotti dall’autoritarismo, dalla difesa identitaria e parallelamente dal discredito dell’altro. In questo spazio mentale così permeabile al maschilismo, si stanno ripresentando stereotipi molto problematici del femminile, che, tra l’altro, rinviano le donne a una sfera di sensibilità di cui proprio le lacrime sarebbero un buon simbolo, un respingente per la virilità. Questa congiuntura indubbiamente conferisce un’attualità particolare alla questione che ci ha riuniti. Ci spinge a chiarire, di nuovo, il rapporto delle donne con l’infelicità del mondo, con le lacrime e la compassione.
Analizzerò la questione osservando come alcune donne hanno potuto resistere, nel xx secolo, il “secolo dei genocidi” come lo chiama Sylvie Germain, nelle tragedie della storia e nei tracolli dell’umanità. Lo farò innanzi tutto attraverso il libro di Zabel Essayan, scrittrice e giornalista armena, che, con il titolo Dans les ruines, ha lasciato un racconto dei giorni trascorsi nel 1909 nella città turca di Adana, subito dopo uno dei tanti massacri che costellano la tragedia del popolo armeno. Le storie di queste donne ci faranno interrogare e pensare al modo in cui le donne possono abitare un mondo di lacrime e di infelicità senza fine, al loro modo di affrontare la disperazione e, lungi dal dolorismo femminile stereotipato, d’introdurre nell’inferno il balsamo della compassione, o meglio della consolazione.
Zabel Essayan, armena, nata a Costantinopoli nel 1878, è una donna colta, studia filosofia e letteratura alla Sorbonne ed è nota negli ambiti letterari della capitale turca all’inizio del xx secolo. Fa parte di una commissione della Croce Rossa incaricata dal patriarca armeno di indagare in Cilicia sulle atrocità commesse e di organizzare l’assistenza agli innumerevoli orfani sperduti tra le rovine di Adana.
Il racconto è terrificante, perché la barbarie è senza confini. La sua forza allucinata è tale che sarebbe insignificante, o indecente, pretendere di farsene eco in questa relazione. Bisogna leggere, tentare di leggere, quelle pagine che raccontano la disperazione assoluta di un mondo devastato, dove i sopravvissuti — donne, bambini e anziani, fondamentalmente — sono ridotti a ombre, corpi macilenti e scossi da spasmi di lacrime inarrestabili. Attraverso le sue stesse lacrime, che sgorgano e scorrono in lei, Zabel Essayan ascolta l’indicibile, tesa fino ai limiti possibili dell’attenzione, per esprimere una infelicità al di là di qualsiasi parola, e alla quale lei tuttavia dà voce.
Oseremmo dire che occupa così il posto di Dio che il salmista invoca e supplica; «nel tuo otre raccogli le mie lacrime» (Salmi 56, 9), che è anche il Dio che il perseguitato implora quando, dal profondo di un abbandono senza rimedio, protesta perché dimenticato?
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Zabel Essayan, in ogni caso, raccoglie le lacrime perdute e vede l’infelicità. E ben al di là di ciò che può essere accessibile alla vista di un semplice reporter. Il suo sguardo annebbiato dal pianto, paralizzato dalla compassione, le fa vedere e nominare l’abisso che si apre negli sguardi resi folli dall’orrore. E attraverso di essi, sa restituire la storia dei morti, che i carnefici intendevano — e intendono ancora! — far scomparire nel nulla dell’oblio. Trasmettendo con le sue parole i racconti della sofferenza che abortiscono sulle labbra dei sopravvissuti, fa in realtà della scrittura letteraria “echi del silenzio”, un atto di pietà.
C’è una nota profondamente materna nel suo modo di raccogliere, come in un sudario di presenza silenziosa, ciò che è ascrivibile a una perdita totale. Come anche nel suo modo di articolare, con le parole e il racconto, la realtà polverizzata dell’umanità, d’iscrivere in parole condivisibili il caos allucinato di corpi, di vite, di memorie, sfigurati per sempre.
Eppure questa compassione qui non può che restare al di sotto della consolazione. Ad Adana, in questo momento, la consolazione è impossibile. Parlando di sé e della persona che l’accompagna, Zabel Essayan osserva: «Nessuna parola di consolazione, nessuna sillaba che ispirasse una qualunque sicurezza usciva dalle nostre labbra secche. Eravamo diventate più impotenti e più mute dei più ignoranti. Dietro la calma apparente che conservavamo a fatica, si preparava una tempesta imminente, un totale abbattimento e torrenti di lacrime. Perché eravamo venute tra loro? Che cosa potevamo donare di fronte a quella miseria vasta come un oceano?».
La posta in gioco qui è analoga al disastro che schiaccia Rachele nell’oracolo di Geremia, che Matteo cita ricordando il massacro degli innocenti di Betlemme compiuto da Erode («Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande; Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più»).
Ma mentre l’oracolo di Geremia continua con una promessa divina («Trattieni la voce dal pianto, i tuoi occhi dal versare lacrime, perché c’è un compenso per le tue pene; essi torneranno [i tuoi figli] dal paese nemico»), la citazione di Matteo s’interrompe dopo la constatazione della pena insormontabile di Rachele. C’è dell’inconsolabile nel mondo e nella storia umana! Ed è proprio Rachele a testimoniarlo, essendo menzionata in apertura dell’annuncio evangelico. È importante e al contempo profondamente significativo che tale verità sia posta all’inizio del Vangelo che proclama il compimento della consolazione nella croce e nella resurrezione. Solo qui, dove l’annuncio della salvezza è ancorato nel terreno pesante della sofferenza degli uomini, la fede cristiana può trovare la sua verità e la sua piena dimensione.
Le lacrime di Rachele e di tutte le donne che l‘accompagnano nella storia ricordano a quale primo eccesso risponde la realtà nel sovra-eccesso del mistero pasquale. Restando nello spazio dell’inconsolabile, che le teodicee eludono troppo facilmente, le donne affermano che la sofferenza degli innocenti non può essere scavalcata, per quanto scomoda e inquietante sia per le belle costruzioni del pensiero speculativo. È solo, dopo aver percorso fino alla fine il cammino desolato dell’inconsolabile, che l’annuncio della consolazione si rivela per quello che è, una resurrezione, che oltrepassa tutto ciò che l’essere umano nella sua disperazione può immaginare, desiderare, sperare.
È proprio questo che suggerisce, nel racconto evangelico, la presenza delle donne ai piedi della Croce. Che cosa pensano? Che cosa aspettano? In che cosa sperano? Il testo non dice nulla. Si accontenta di riportare il fatto che hanno seguito Gesù fino alla fine. Ed è per questo che sono le prime a ricevere l’annuncio della resurrezione.
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Leggere il racconto di Zabel Essayan è provare le lacrime al femminile, non come una debolezza o una rinuncia ma, al contrario, come un atto di resistenza alla tentazione di fuggire, di schivare, di distogliere lo sguardo, laddove la realtà appare rigorosamente insopportabile. Poiché le donne si ritrovano spesso a vegliare, che lo vogliano o no, sui luoghi dell’insopportabile, si sarebbe tentati di concludere provvisoriamente, di contrapporre due logiche, in rapporto al mistero del male: l’una, piuttosto maschile, affine alla comodità della teodicea, l’altra, più femminile, che si rifiuta di rimuovere troppo presto la prova del dolore e che, così facendo, diventa forse più capace di accedere alla verità della croce che deve restare follia e scandalo, secondo le parole di Paolo. È evidente che si tratta di qualcosa di ben diverso da quello che sarebbe, tra uomini e donne, un conflitto tra ragione ed emozione, concetto e sensibilità.
Da Rachele, che non vuole essere consolata, a Etty Hillesum, che si sente in dovere di aiutare Dio, si scopre quale può essere l’audacia delle donne di fronte all’infelicità. Ben lungi dallo stereotipo di “piangenti”, queste mostrano quanto deve essere profonda la preoccupazione per l’altro, persino la preoccupazione per l’Altro assoluto. Non c’è bisogno, per essere potenti in questo mondo, di trattenere le lacrime e non mostrare emozioni. A essere vero è esattamente il contrario, secondo la rivelazione che Dio fa di sé nelle Scritture di Israele e che Cristo prolunga nei giorni della sua incarnazione. Questa verità, che è per tutti, sembra trovare nella vita delle donne un’espressione privilegiata.