La sua storia di adozione vibra di un dolore che fa da controcanto alla gioia di sentirsi amata. Da sempreIntervista a Sangheeta Bonaiti. Sul suo blog, Figlia di cuore, si presenta così: “Sono una figlia adottiva, amata e fiera di esserlo. Sono moglie e mamma. Amo la mia vita e la scrivo”.
Il suo nome è indiano, significa musica, dolce melodia, e le è stato dato dal personale dell’ospedale dove è nata, a Bangalore, il 25 marzo del 1984; dove sua madre è morta dandola alla luce e dove suo padre l’ha lasciata. è arrivata in Italia il 20 febbraio del 1986. Vive a Ponte San Pietro, in provincia di Bergamo, con suo marito e i loro tre figli.
E’ un paragrafo smilzo di informazioni anagrafiche quello qua sopra, ma è la vetta sotto la quale sta una grande montagna. Sangheeta racconta con forza queste cose. La verità storica su di sé la dice impugnandola, con dolcezza, la sento sorridere al telefono, ma senza tentennamenti, senza quegli “un po’”, senza ammorbidenti aggiunti alle parole più dure, senza “quasi” e “come se”.
Non fa tutti quei giri strani di parole timorose come “diversamente figlia”, “genitori un po’ speciali”, “amori diversi”. Dice la verità. Le parole le sceglie e le paga.
Quando parla di abbandono lo sillaba, quasi. Certo lo chiama anche dono. Con quel gusto meraviglioso per il paradosso, con quell’amore brusco e dirompente per il vero e per l’umano che abbiamo visto in tanti espresso nella vita di don Luigi Giussani.
C’entra anche lui, in questa bella storia, perché è lui che ha detto di no ai suoi genitori quando, pieni di buone intenzioni, ma forse svuotati dal dolore di non poter concepire figli, si erano proposti di adottarne. Da quel no sboccerà un sì. Non uno, tanti.
E un’altra cosa sorprendente: sentire parlare Sangheeta significa non smettere mai di conoscere storie, vicende, volti, particolari, cose che succedono e dettagli importanti. Tutto, dopo la scoperta fondamentale, diventa un fatto, una svolta nel romanzo vero della sua bella e normalissima vita.
La chiamo al telefono dopo che, per causa mia, abbiamo rimandato di una settimana il nostro appuntamento. “Nessun problema”, dice, “dalle 14.30 alle 15.30 sono sempre libera”. Per molti sarebbe una striscia di tempo vaga, forse sprecata nei passaggi da una stanza all’altra o dedicata ad un salubre riposo post prandiale. Per lei è tempo libero e prezioso. E certo! È una giovane mamma di tre bambini piccoli. E lavora.
Ci conosciamo per mezzo dei social, per un solo incontro di persona- mi ricordo i suoi occhi neri puntati nei miei – e per leggerci spesso e volentieri nei luoghi digitali dove ognuna scrive.
“Iniziamo?”, dico io.
“Vai!” Fa lei con un’impennata d’accento bergamasco
Per prima cosa ti chiedo: qual è la domanda più fastidiosa che ti senti rivolgere spesso quando qualcuno si e ti interroga sulla tua storia, così la saltiamo direttamente?
La frase che più detesto è questa: “ma la tua mamma vera e il tuo papà vero ci sono ancora?”.
Nella tua intervista a TV2000, nella trasmissione Siamo noi del 23 giugno scorso, quando la giornalista ti chiede dei tuoi genitori, infatti, tu subito chiedi di specificare. Naturali? Biologici?
Genitori biologici e genitori adottivi. Distinzione necessaria. “Veri” mi disturba davvero perché significa necessariamente che quelli adottivi siano falsi. Invece la verità del rapporto non è –tutta- nella biologia mentre per tanti è –solo- così. Che il genitore vero sarebbe solo quello che ti ha fatto, come se ti avesse creato. Quello adottivo è il ripiego, è il falso. No, non è così.
La ferita primaria, originaria della perdita dei tuoi genitori biologici, a causa della morte per la mamma e a causa dell’abbandono per tuo padre, resta aperta?
Sì. Nell’intervista la giornalista mi ha chiesto come l’avessi risolta. Me ne sono accorta dopo, riascoltandomi, che lei ha detto una cosa come “dopo che l’hai risolta”… ma in realtà è una ferita che non è risolvibile, non può trovare una vera soluzione con risposte umane, che ci appiccichiamo noi. Anche dovessi andare in India e dovessi trovare quel papà, a me quella domanda rimarrebbe addosso. Perché, Signore, quella mamma lì me l’hai tolta? Ecc, questa e altre domande me le tengo come domande da fare all’ultimo giorno. Mi resta addosso questa inquietudine. Però adesso la differenza è che, dentro la maturazione nella fede, di queste domande, di queste ferite non ho più paura. E non ci rinuncerei. Perché è un’inquietudine amabile, che mi sta diventando amabile, perché è rapporto con il Signore. Che resta sotto come un terreno sul quale appoggio e mi fa sempre ricordare che tutta la mia vita dipende da un Altro. È talmente evidente! Con tutto quello che è scaturito dopo… è evidente che questa mia vita aveva preso una conformazione che non dipendeva da me. Questa ferita è la cosa che più mi permette di fare memoria del mio rapporto con il Signore.
Come guardi i tuoi figli? Quello spavento, quella stupefacente meraviglia che proviamo davanti ad un bimbo che c’è e poteva non esserci, nostro figlio, è acuito dalla tua storia di figlia adottiva?
Secondo me sì e ti dico perché. Con i miei genitori adottivi ho fatto esperienza di essere stata scelta, accolta, voluta e che non era scontato. Che proprio loro fossero arrivati a me, proprio quei due lì e non altri e questo riconoscerci tra genitori e figli è stato uno scegliersi reciproco nel tempo. Così è anche con i miei figli, nonostante siano i miei figli di pancia.
Lo stupore del potevano non esserci e ci sono c’è e soprattutto mi rendo conto che è uno scegliersi anche in questa condizione, quella con i figli naturali. Il figlio è sempre diverso da quello che ci immaginiamo. Nella quotidianità, nelle fatiche, nelle giornate in cui va tutto all’aria perchè i bambini fanno capricci o cose del genere, quando la realtà contraddice le aspettative sono queste cose che ti fanno andare tutto all’aria e che ti dice che mamma e figlio è sempre alla fine anche una scelta. Il secondo dei miei figli è il mio pungolo, quello che più di tutti mi provoca, ma è anche il più grato. Un giorno l’ho portato a messa io e lui per stare da soli tranquilli. È stato in braccio a farsi coccolare, è rimasto tranquillo durante tutta la messa. All’uscita gli ho preso un cioccolatino. E lui mi ha chiesto: “Mamma, ma tu mi hai portato a messa perché mi vuoi bene?” (e tra me e me ho pensato. in realtà l’ho fatto perchè se lasciavo a casa anche te col papà lui dava di matto…). Ecco, figlio mio, proprio tu che saii esasperarci fino al limite estremo, sei la sfida più grande. Sì, ti voglio bene. Ti voglio bene proprio lì, proprio ora. Ecco, io devo crescere ancora tantissimo…
Come sono cambiati amore e sguardo nel corso della tua vita per i tuoi genitori adottivi?
Io, nel momento più critico della mia adolescenza, ai miei genitori ho detto di tutto, li ho respinti, ho fatto le mie cavolate. Ed è proprio allora che ho visto il loro amore. Potevo dire tutte quelle cose terribili per cercare di ferirli, ma loro non vacillavano, erano pronti.
In quella situazione ho fatto esperienza dell’essere scelta 100 volte, ancora e ancora, proprio in quel mio non essere amabile… è stato il momento, il periodo più duro. Gli anni più brutti e difficili iniziano con la fine della terza media; quando ero in prima superiore si è stabilita tra me e i miei genitori una distanza siderale. Gli anni delle superiori in fondo sono stati i più difficili del rapporto. Da loro non accettavo nulla. Allora si sono fatti furbi.
Mi hanno avvicinato con discrezione dei loro amici. E loro, questi amici di cui io mi fidavo, vedevo che guardavano i miei genitori, che io detestavo in quel periodo, sempre con stima e pur ascoltandomi non assecondavano mai le mie recriminazioni contro di loro. Alla lunga ho capito che se loro li stimavano così tanto forse allora non erano poi così terribili! C’è un’immagine che racconto perché la vedevo io stessa e che mi serve per spiegare il nostro rapporto durante e dopo la crisi.
Li vedevo di spalle di fronte a me, i miei genitori. Ad un certo momento, dopo una litigata, ci siamo abbracciati per far pace. E li ho visti come se stessero di fronte a me in ginocchio. è stato un momento di rivelazione. Mi sono apparsi in un atteggiamento di contemplazione, come contemplassero in me il mistero, come amassero in me un tesoro, come adorassero un sacramento. L’ho scritto in un post del mio blog, “Ho adottato i miei genitori”.
In quell’istante ho colto il loro amore enorme che accoglie e supera la mia cattiveria o non amabilità, e ho capito: da ora e per sempre saranno i miei genitori. Nessuno potrà togliermi questo rapporto.
È stato un momento di libertà, della mia libertà che si è lasciata abbracciare da un amore così. Amore che non ha solo supplito il carnale ma lo supera, lo supera,però non salta la carne!
Io con la mia mamma, ancora prima di sposarmi (tutto questo è successo in adolescenza, da quando lei si è ammalata (soffre come mio zio e altri parenti della sindrome della gambe senza riposo, una sindrome neurologica) ho un legame forte, fisico, mi faccio carico anche io di lei. Durante gli anni dell’Università quando tornavo il fine settimana mi davo da fare e supplivo in tutti i modi. Questo amore non si stacca dalla carne. Lo devo fare io. Oppure anche nel litigio, vale lo stesso.
E ora io li vedo come un aiuto concreto, mi sollevano, mi tengono i bimbi, la mia mamma mi stira le cose. Nella concretezza. Ringrazio sempre di questi genitori e nei momenti in cui si può ci confrontiamo su qualcosa che si è letto, sul testo degli esercizi spirituali: è bello vedere come loro sono che sono sempre saldi in un giudizio.
Mio papà non si apre moltissimo. Quando però mi capita di sentire i racconti della loro storia così particolare, anche la loro personale, mi rendo conto ancora di più di come il buon Dio ha preparato una strada e ha creato un percorso e li ha guidati, fino a me, fino ad oggi. Se uno guarda la propria vita in questo modo allora tutto acquisti significato e senso. È un passo dopo l’altro, col passato, che abbraccia il presente e anche il futuro fa meno paura. Quando mi capita di sentire raccontare la nostra storia è proprio come fare quel famoso passo indietro e vedere il disegno. Come diceva di fare don Giussani per capire un quadro e così la propria vita. E questo dà pace. Siamo in buone mani niente viene buttato, neanche il dolore. Sono arrivati a me e non ad altri…
E dopo di me, anche grazie a me, è fiorita altra vita. I miei hanno fatto tanti accertamenti quando hanno constatato che i figli non arrivavano, che non riuscivano a concepirne. Sono risultati sterili, impossibilitati ad avere figli naturali.
Nel Febbraio del 1986 sono arrivata io. Ad agosto sono andati a ringraziare la Madonna di Medjugorie e quel giorno era la data, si dice, del compleanno della Madonna: hanno ringraziato della maternità e paternità per avere accolto me e hanno anche chiesto la grazia di una maternità naturale. E proprio quella sera hanno concepito mia sorella. “I medici mi avevano detto persino di abortire”, racconta mia mamma “non pensavano che potessi andare avanti con una gravidanza”. Invece mia sorella è nata sanissima ad aprile del 87; poi è arrivato mio fratello nell’89 e il terzo nel ‘91. Si narra che, in seguito a questa abbondanza di grazia, mio padre sia tornato a spegnere tutte le candele accese! Ma loro non si sono mai fermati nell’accoglienza. Hanno accolto una bimba nigeriana in affido durante la settimana che ora ha scritto a mia mamma: si è sposata, vive a Londra, sta bene e li ringrazia. Poi quando io mi sono sposata hanno accolto una ragazza con problemi familiari che studiava pianoforte; e dopo invece un ragazzo di 15 anni che veniva da Brugherio con altre problematiche ed è stato tre anni da noi. Li ha fatti disperare: scappava da scuola però è rimasto e si è sentito volto bene. Ancora oggi si è sentito voluto bene. Hanno accolto lui e la sua famiglia che li ringrazia ancora.
Perché ti racconti?
Mi racconto sostanzialmente perché ho scoperto che nel raccontarmi scopro cose nuove di me.Come quando ho scritto quell’articolo nel quale racconto la mia nascita e rifletto sull’utero in affitto; inizio a scrivere di getto poi mi rileggo e mi commuovo. Ecco, vedi che cos’era? Mi dico. Quello cui non riuscivo a dare forma! Ecco di cosa facevo esperienza!
Scrivendolo e rileggendolo è come se lo riacquistassi. Quando lo scrivo, ne faccio ancora più esperienza, più tesoro, diventa ancora più mia, la mia vita. Quindi scrivo per me, soprattutto.
E ho visto che faceva bene anche agli altri parlare di esperienze dolorose, ma positive. Allora mi sono detta: sì, posso rendermi disponibile a questa cosa. Ricevo tanto, sempre e cerco di dare il mio contributo. La questione adozione non mi interessa come cosa legale, non principalmente, ma come storia, come esperienza. Non ho interesse a dire “fate come faccio io”; voglio solo dire quello che ho scoperto e offrirlo. Magari succede anche a voi, magari vi apre delle domande. Lo faccio per questo e per testimoniare il bene che ricevo.
A chi ti rivolgi?
Se tu ti avvicini ad una storia così, come la mia, in fondo in fondo puoi renderti conto che succede a tutti lo stesso, per altre vie, seguendo altre circostanze, ma a tutti è offerta la via per scoprirsi amati e non solo dai propri genitori. Amati dall’origine.
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Per questo quando mi dicono che sono speciale, che sono brava provo un sincero disagio. Rendermi eroica o troppo banale dipende dal fatto che chi è raggiunto dalla mia storia non accetta il cambiamento che chiede alla sua vita. Io credo che possiamo incontrare davvero l’altro quando cambiamo noi. Quando ci mettiamo in discussione, quando incontriamo davvero la sua vita e ci lasciamo scombussolare e magari arriviamo a dire: forse quella cosa c’entra con me o mi chiede qualcosa.
Ho letto poco tempo fa un testo agile e denso di Luisa Muraro, L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto, Ed. La Scuola, 2016: l’autrice dice che la vera surrogazione, nel suo senso più nobile e vero, è l’adozione. Un uomo e una donna accettano di subentrare ad una relazione insostituibile ma interrotta bruscamente… che ne pensi? (E anche che nelle pratiche di ordinazione e compravendita di un bambino è comunque sempre il genitore acquirente che surroga, che surrogherà la relazione interrotta, svilita già per contratto, ma reale con la madre gestante.)
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Questo approccio lo condivido assolutamente. Pensando alla mia storia, quando sono diventata mamma ho capito, ho scoperto in me il legame che si crea tra mamma figlio. Con il terzo figlio in particolare si è riaccesa in me questa nostalgia. La nostalgia di questo legame. Ho scoperto che la mia mamma indiana non era ininfluente perché “tanto ora ho la mia mamma Miriam”.
Non è così. Perché invece da mamma del terzo ho scoperto il contrario: no, non era solo una pancia. È il modo, la carne con cui sono venuta al mondo. Senza di loro, quella madre e quel padre, io non sarei io. La mamma conta di più in questo ordine di esperienza certo perché vieni proprio dalla mamma nasci, vieni al mondo con lei, per lei. E quindi lì (parla di un momento come di un luogo. Sembra così anche la gravidanza: un luogo che è anche il tempo del nostro cominciare. Il quando stavo per nascere diventa un dove. E per lei è un altrove!) ho proprio capito che non era solo un utero perché io ne avevo nostalgia, ero triste, ne ho pianto, ne ho sofferto e non era un’idea. Questa esperienza carnale che nasce nella pancia, questo legame concreto che si crea li dentro, che non si riesce a spezzare e rimane per sempre…
Anche io ad un certo punto, come fanno tutti i bambini, ho chiesto alla mia mamma Miriam «ma io sono venuta dalla tua pancia?»
No.
E allora da chi?
Dalla mamma che era in India.
E perché non mi ha tenuto?
Perché è andata in cielo.
E perché il papà allora non mi ha tenuto lui?
Non aveva i soldi per poterti far vivere. Allora ti ha lasciato dalle infermiere.
E qui Sangheeta apre un altro squarcio- che è pochissimo metaforico. È proprio un taglio che fa male. E racconta di suo padre, del padre biologico. E del dolore imputabile a lui.
Poco tempo fa sono stata ad ascoltare un amico sacerdote che sta frequentando un Master sulla famiglia. Ha tenuto un incontro sul tema della famiglia, della coppia di oggi e dei genitori che minano la famiglia. Diceva questo, che io ho trovato in me: il padre, per la famiglia, è Dio. Per loro, per i figli, quello è il riflesso di Dio e infatti i figli lo guardano, lo ascoltano, come noi da grandi- se abbiamo la fede- facciamo con Dio. Io ho pensato a me. Per anni ci sono stata arrabbiata, con questo papà, perché mi aveva abbandonato. Ora il mio papà Tino è per me come San Giuseppe. Quando ho letto L’ombra del padre, di Dobraczynski, ho pensato che il Tino (siamo lombarde, da noi l’articolo davanti al nome proprio va messo!) fosse come lui.
Pensa, vedi quel papà dell’India… ero arrabbiata con Dio perché ero arrabbiata con lui! Nel percorso di fede pian piano si fanno passi avanti grazie a Dio e si capisce che quel che conta è quello che si ha e non quel che manca. Mio padre adottivo si è davvero preso cura di me. C’è stata tutta la mia conversione personale per passare dall’arrabbiatura, al cambiamento, alla conversione. Rispetto a questo papà indiano un po’ di marasma interno ce l’ho ancora: perché? Continuo a chiedermi. Che poi per me il papà Tino è intoccabile, è sacro!
Finite le domande, la copertura salta e l’intervista si trasforma in una chiacchierata tra sorelle, una più grande d’età, io, e una ancora alle prese con bambini piccoli, sonnellini, prime scoperte dell’infanzia, quelle fatiche e quelle gioie lì. Segue un rapido confronto sui mariti e le loro uscite più esilaranti o irritanti. Chiudiamo, perché appunto di figli ne abbiamo 7 in due e ci reclamano e ci salutiamo. Troverò presto un’altra scusa per telefonarle. Quando mi assalirà il dubbio che le cose siano ottuse o che certe prove siano difficili da comprendere o quando mi sembrerà che succedano poche cose. Lei avrà un’ondata di piena da riversarmi addosso. Vita, vita che sbuca da tutte le parti, normale, pesante, a volte greve, spesso sorprendente, altre volte una vera e propria rivelazione. Il segreto sta nella scoperta fondamentale. Ah, ma non ve l’ho detta?
Allora guardate il video. Attenzione a quando risponde alla domanda “Di chi sei tu?”