Il caso limite della donna con figli costretta dal proprio compagno a rapporti sessuali. Vi spieghiamo perché
Un prete che amministra il sacramento della riconciliazione può talvolta assolvere un penitente a cui manchi il proposito di non commettere più un peccato materialmente grave?
A questa domanda replica Rocco Buttiglione, docente di filosofia e membro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, in “Terapia dell’amore ferito in Amoris Laetitia” (edizioni Ares): «La risposta non può che essere negativa, perché per la validità della confessione il proposito è sempre necessario, anche se il penitente, pur in quel momento sinceramente pentito, prevede che difficilmente potrà mantenere il proposito, per sua debolezza o per impedimenti oggettivi».
TRE CONDIZIONI
In quest’ultimo caso il proposito di non commettere più peccati diventa, in prima istanza, impegno a rimuovere, nei modi e nei tempi opportuni, tale impedimento oggettivo. Perché esista un peccato mortale sono necessarie, come è noto, tre condizioni: materia grave, piena avvertenza e deliberato consenso.
È, dunque, possibile che una colpa grave non costituisca un peccato mortale per la mancanza o della piena avvertenza o del deliberato consenso.
LA PRETESA DI AVERE RAPPORTI SESSUALI
Mettiamo il caso, scrive Buttiglione, di una donna interamente dipendente psicologicamente ed economicamente da un uomo che non è suo marito ma è il padre dei suoi figli.
Parliamo di una donna non sposata, che vive ancora insieme all’uomo perché si sente in dovere di accudire i propri figli e perché non ha un’autonomia economica. Ma di fatto non nutre alcun sentimento particolare nei confronti del padre dei suoi figli né ha intenzione di avviare con lui un progetto di vita duraturo.
Eppure questa doppia dipendenza, fa sì che non si neghi quando lui pretende rapporti sessuali.
Una donna del genere, evidentemente non è in grado di mantenere il proposito di non avere altri rapporti sessuali. Essa deve riconoscere lo stato di peccato in cui vive, chiedere perdono al Signore nella misura della sua colpa, ma non può promettere l’osservanza perché non ha la disponibilità sopra se stessa. Poiché è succube e priva di alternative.
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IL PROPOSITO RESTA
Viene a mancare allora il proposito di non commettere quel peccato? No, il proposito assume la forma del lavorare per uscire da quella situazione di peccato (per esempio, cercando una terapia che allenti la dipendenza psicologica o un lavoro che allenti la dipendenza economica…).
LA LETTERA DI WOJTYLA
San Giovanni Paolo II si è posto nella sua Lettera al cardinale Baum un problema non identico ma certamente analogo. Che fare nel caso in cui un penitente sia sinceramente disposto a riconoscere il proprio peccato e anche a promettere di non commetterlo più, ma avverta onestamente che non sarà in grado di mantenere il proposito formulato? In realtà il penitente vorrebbe promettere, ma non può perché non è (o non è pienamente) padrone di se stesso.
AMORIS LAETITIA
Può dire le parole della promessa ma non assumere l’impegno che le parole significano. San Giovanni Paolo II invita a non rifiutare l’assoluzione. Il caso considerato (implicitamente) da Amoris Laetitia è sostanzialmente simile: il penitente vorrebbe promettere ma non lo fa perché sa che non sarebbe in grado di mantenere fede alla parola data.
ATTENUANTI AL PECCATO MORTALE
San Giovanni Paolo II e Papa Francesco valorizzano ambedue il desiderio di promettere ovvero anche una promessa il cui adempimento, però, non può essere immediato. Il medesimo peccato, ripetuto nella medesima situazione e con le medesime attenuanti soggettive non andrà probabilmente considerato peccato mortale.
LA SFERA DELLA MISERICORDIA
È importante sottolineare che commettere quel peccato non è, comunque, la cosa giusta da fare; e negli sforzi per uscire dalla situazione di peccato il primo è la preghiera, perché Dio dia la forza di una decisione eroica e di una visione profetica di cui il soggetto, nella situazione data, non è (ancora) capace. Ci muoviamo nella sfera non del diritto ma della misericordia.
NON E’ UNA “LUCE VERDE”
Il professore Philip Goyret, docente di Ecclesiologia presso la Pontificia Università della Santa Croce, premette ad Aleteia: «Contrariamente a quanto speso si pensa (e si dice, e si scrive), l’Amoris laetitia non significa “luce verde” perché tutti possano accostarsi alla comunione eucaristica, o perché l’assoluzione sacramentali dei peccati possa essere conferita indiscriminatamente a chiunque la chieda. In realtà, per un buon pastore essa rende il suo mestiere molto più impegnativo, perché il documento mette in un assoluto primo piano la singola persona, senza lasciarsi incastrare da una legge generale».
L’AMBITO SOGGETTIVO
Non perché questa legge generale non esista più, o perché sia cambiata (più di una volta il Papa ha detto che niente della dottrina di sempre è cambiato), sottolinea Goyret, ma «perché si privilegia l’ambito soggettivo: ogni singolo caso va affrontato in modo appunto singolare, e ciò comporta che il pastore deve dedicare tempo, iniziativa, affetto, pazienza, ecc., a ciascuna persona, generando un processo di accoglienza, ascolto, discernimento, e d’integrazione nella comunità ecclesiale».
Inoltre, prosegue l’ecclesiologo, «occorre non dimenticare mai che, in ultimo termine, la salvezza eterna non è sempre e necessariamente legata ai sacramenti; è invece legata alla carità, e perciò il punto fondamentale da insistere è l’amore: a Dio e al prossimo».
CONTRIZIONE E ASSOLUZIONE
Dunque, Goyret è molto netto quando gli si chiede se un prete che amministra il sacramento della riconciliazione può talvolta assolvere un penitente a cui manchi il proposito di non più commettere un peccato materialmente grave.
«Perché un prete possa impartire l’assoluzione – evidenzia – deve esistere, nel penitente, la contrizione per i suoi peccati. Senza contrizione, non esiste assoluzione valida, neppure se essa è di fatto impartita. E’ perciò compito del prete assicurarsi – nella misura del possibile – che questa contrizione esiste».
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STATO DI GRAZIA E IPOCRISIA
«Ciò – continua Goyret – che non è coerente, da un punto di vista antropologico, è di essere contrito per un peccato ma non per un altro. La vera contrizione è sempre totale, nel senso che riguarda tutti i peccati di cui si è consapevole.. Può talvolta mancare rispetto ad un peccato materialmente commesso, ma senza consapevolezza (per ignoranza, errore o inavvertenza, come chi giura in falso convinto però di dire la verità)».
La vera contrizione «comporta sempre, come elemento intrinseco, l’intenzione di non peccare più. Ossia, si vuole non ricadere, anche se, forse per esperienze precedenti, non esiste la convinzione assoluta di che non si ricadrà (come l’alcolico). Ciò è diverso del caso ipotetico di chi non ha l’intenzione di abbandonare il peccato, ma desidera tornare per un breve periodo allo stato di grazia, forse per poter accostarsi pubblicamente alla comunione in qualche evento pubblico. In realtà, non si desidera lo stato di grazia, ma una semplice ipocrisia, un apparire esterno. Ma questo non è il senso del sacramento», ammonisce l’ecclesiologo. Insomma, chi non vuole evitare il peccato grave, non è contrito, e quindi non può essere assolto».
LA DONNA SUCCUBE DEL PROPRIO UOMO
Torniamo al caso pratico della donna non sposata, ma che convive con un uomo da cui ha avuto dei figli. Una donna che dipende psicologicamente ed economicamente da un uomo che non ama più, per cui non prova più nulla. Eppure quando lui pretende il sesso, lei non riesce a negarsi a causa di questa “doppia dipendenza”. Vive una condizioni di peccato “giustificabile”?
«Premetto che, per essere io stesso coerente – replica Goyret – dovrei colloquiare di persona con questa donna, perché pur con tutte le sfumature della domanda, la realtà è sempre più articolata, rendendo molto difficile la formulazione di una risposta univoca».
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LA CARITA’
Un approccio genuinamente pastorale, prosegue, «mette al primo posto la carità, e perciò non bisogna ridurre tutto a se posso o non posso assolvere. La donna deve amare i suoi figli, seguirli, formarli, ecc. Deve anche tentare di avvicinare a Dio figli e compagno: se non lo può fare con la parola, li deve trascinare con il suo esempio di vita cristiana. Questo ci porta anche ad accorgerci che non ricevere l’assoluzione e restare escluso dalla comunione eucaristica non vuol dire essere scomunicato o comunque escluso dalla comunità ecclesiale. Oso anche dire che non chiude le porte alla salvezza».
«La persona in una situazione “irregolare” (termine in realtà ingiusto) si colloca in una situazione soggettiva diversa del “binario comune” delle situazioni oggettivamente regolari, e perciò non dovrebbe esigere, o chiedere, i mezzi propri del binario comune».
LA SOLUZIONE “PASTORALE”
Tuttavia – e entriamo adesso più profondamente nella vita di questa buona signora – può succedere, di fatto succede molto spesso, che «il bene dei figli, del convivente, e di lei stessa escludano la separazione».
«Se questo è un bene – osserva il docente della Pusc e sacerdote – non dovrebbe essere formalmente peccato. In quella situazione il buon pastore dovrebbe generare un processo nel quale la donna punti verso una situazione futura in cui la legge di Dio sul rapporto uomo-donna possa essere soggettivamente ed oggettivamente realizzata nel suo caso specifico. Ciò non è teorico: la vita è molto ricca ed è strapiena di sorprese».
«Rimandiamo dunque l’assoluzione sacramentale – conclude Goyret – e dedichiamoci invece a ciò che adesso si può fare, che è molto: amare i figli, amare l’uomo con cui convive, pregare, partecipare alla vita della Chiesa, vivere la carità… Dio paga con buoni interessi a chi è fedele alla sua legge».
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