L’altro giorno in edicola mi è caduto l’occhio sulla copertina dell’Espresso, che annunciava il ritorno dei maschi. La cosa ha acceso una scintilla, minuscola, di speranza in me, e andando contro i miei più radicati principi morali – non finanziare il gruppo editoriale – ne ho comprata una copia. Magari, mi sono detta, scriveranno che gli uomini hanno ricominciato a essere virili, a proteggere, sostenere e dare la vita per le donne, a fecondare il mondo, a generare figli, a prendersi responsabilità, a fare da muro che recinta e sostiene, a capire le paure e le ansie delle loro donne che sono rimaste incinte, ascoltarle e poi dire “no, questo figlio non lo ammazzeremo, ma ce ne prenderemo la responsabilità insieme, e lo cresceremo meglio che potremo”, come dovrebbe un vero uomo. Le speranze sembrano non morire neppure quando dalla copertina passo alla prima pagina dell’articolo. C’è un bicipite disegnato, e, in tempi di rammollimento generale, mi pare già qualcosa.
E invece niente, niente di nuovo. Dovevo saperlo: il bicipite era simbolo di cattiveria, perché oggi tutto quello che sa di forza è negativo. Oggi va di moda la mollezza, la sfumatura, la fluidità. Comunque, nessuna notizia. Una di quelle inchieste estive fatte per riempire i giornali quando non c’è altro da dire, o non si vuole dire quello che ci sarebbe. La solita lamentela sui maschi sfruttatori e le donne trattate da contenitori. Si parte dalle militanti del Pd che tengono l’ombrello ai compagni maschi. A nulla vale la dichiarazione di una studentessa che teneva l’ombrello e affermava di non sentirsi affatto offesa: quell’immagine addirittura metterebbe terrore, secondo Valeria Parrella, autrice del primo degli articoli, che per me ha il grave limite di mettere tutto sullo stesso piano: il fertility day e chi fa firmare le dimissioni in bianco alle lavoratrici per cautelarsi in caso di gravidanza. Si tratterebbe di un modo di trattare le donne come un contenitore. Un modo così ideologico di procedere non aiuta nessuno. Il fertility day è stata una campagna, magari discutibile nei toni, ma comunque volta a sollevare un problema oggettivo: le donne italiane sono quelle che fanno meno figli in assoluto in tutto il mondo, meno ancora che in Giappone. Le dimissioni fatte firmare sono prima di tutto un reato, e un’offesa contro le donne e i loro bambini.
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Il problema dunque non è la cultura maschilista: chi fa firmare le dimissioni in bianco non è un maschilista ma il più delle volte un evasore fiscale e uno che non vuole farsi carico della maternità. Il problema non è il maschilismo ma il fatto che della maternità dovrebbe occuparsi la previdenza totalmente, e che tutti i contratti dovrebbero essere regolari (questa sì che sarebbe “dire qualcosa di sinistra”). Le donne non vogliono liberarsi dei figli, solo che di solito se ne rendono conto solo a un certo punto della vita, dopo essersi bevute i falsi miti del femminismo, della liberazione sessuale, dell’autonomia lavorativa. I fatti dicono che quasi tutte le donne italiane vorrebbero fare più figli di quanti in realtà ne fanno, e spesso si accorgono di questo quando è troppo tardi, perché la donna non è un contenitore, ma nemmeno si può totalmente autodeterminare: la natura ha delle regole. I fatti dicono che siamo le mamme più vecchie del mondo. Abbiamo quasi tutte il primo figlio dopo i trenta anni, quando la medicina impone di scrivere sulla cartella clinica “primipara attempata”. Questa è scienza, questo è un fatto. A una certa età la fertilità precipita, aumentano in modo esponenziale i rischi di problemi al bambino, sia genetici che legati a complicazioni della gravidanza. È la natura che ci tratta come contenitori, che non tiene conto delle nostre emozioni e dei sentimenti? È la natura, e basta. È un fatto.
Se, poi, secondo l’inchiesta de l’Espresso, è un atteggiamento maschilista quello dell’obiettore che nega la pillola del giorno dopo a una ragazzetta di sedici anni, vorrei far notare che: 1) sono tantissime le ginecologhe e anche le farmaciste, femmine a tutti gli effetti, che fanno obiezione di coscienza, e non perché maschiliste, ma perché amano le donne e le madri; 2) almeno la metà dei figli uccisi in grembo alla madre sono bambine. Loro chi le difende?
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È profondamente sleale mettere sullo stesso piano chi difende la vita, e le bestie che fanno sesso con le schiave sulle nostre strade. È sleale, e ancora una volta non tiene conto della realtà. Io forse avrò un punto di vista parziale, anzi, sicuramente è così. È il mio punto di vista soggettivo, ma io conosco quasi solo donne che amano gli uomini, che cercano di valorizzarli, che non se ne sentono sfruttate, che sono grate ai loro uomini che le hanno rese madri e che continuano a prendersi cura dei figli. Che fanno fatica, certo, perché è difficile capirsi, accettarsi, volersi bene, ma non è questione di rivendicazioni.
Quanto all’emergenza della violenza sulle donne è roba per telegiornali, non è la verità, e non è confermato dalle statistiche. La violenza c’è, certo. Ma non è in aumento, anzi per fortuna in diminuzione. Sebbene anche un solo caso sia troppo, un solo uomo che uccide merita già tutto il dolore e la condanna, non è vero che i casi siano in aumento, e siamo comunque il fanalino di coda in Europa, e per una volta essere ultimi è una bella cosa. Nei paesi scandinavi, i pionieri della parità di genere, le violenze sessuali e le violenze tout court sono molto, molto più frequenti. Per forza: non è scendendo sul piano della misurazione dei rapporti di forza che se ne esce, perché l’uomo è innegabilmente più forte fisicamente e reagisce con la forza fisica – sbagliando, sottolineo mille volte – alle manifestazioni di dominio femminile, che sono in un’altra sfera, non quella fisica ma quella psicologica (la donna l’uomo se lo rigira come vuole, se vuole essere maliziosa e sleale).
È solo uscendo da questa logica di chi comanda che si può imparare a essere reciprocamente al servizio. “Il vero problema è che non cambia mai nulla” fa eco la Saraceno qualche pagina dopo. A parte che non mi pare. A forza di berciare, di ottenere il diritto di uccidere figli, a forza di cercare di convincere le donne che stare otto ore al giorno chiusa in qualche posto alle dipendenze di un lavoro sia comunque, a prescindere da tutto, necessariamente e sempre, meglio che fare la madre, le italiane sono quasi definitivamente cadute nell’inganno. Quindi non mi pare che non cambi niente. Ma se qualcosa resiste, se qualcosa rimane “ancora da cambiare”, magari è perché la vostra battaglia non è quella di tutte le donne. Se ci sono donne come me e come tutte le mie amiche e conoscenti che non hanno rivendicazioni da fare, che sono contente, magari, se serve, di rammendare calzini tra un aereo e l’altro, senza complessi, è perché prenderci cura è la cosa che ci piace di più fare. È perché amiamo le persone che abbiamo intorno, o cerchiamo di amarle meglio che possiamo.
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Ecco, perché la Aspesi, che scrive il solito articolo contro il potere maschile, che definisce inconcludente e verboso – condivido – perché una volta non scrive anche per difendere le tante tantissime donne (la maggioranza?) che vorrebbero scegliere quanto tempo dedicare alla famiglia? Perché tutte dovremmo desiderare una vita come la sua, che non ha avuto figli, ma una luminosa, stupenda carriera? Io, personalmente, sono contenta per lei, non la giudico, non so niente del suo percorso – quanto sia stato scelto, quanto sia semplicemente avvenuto – ma perché mai quelle del “se non ora quando” non scendono mai in piazza per tutte le mie amiche commesse, impiegate, bariste, parrucchiere e via dicendo, che non vogliono le quote rosa nei consigli d’amministrazione ma più tempo per i loro figli? Che hanno dovuto lavorare non perché fosse gratificante (per alcune lo è, per altre no) ma per necessità? Qualche volta, poi, hanno pensato anche alle donne come me che amano il loro lavoro, ma che vorrebbero poterlo gestire in modo diverso, dedicandosi di più ai figli? Ho letto in un’intervista, bellissima, di Annalena Benini a Valeria Parrella, che peraltro trovo bravissima, che lei quando scrive non sopporta più nessuno, dice proprio così, si allontana da tutto e da tutti e scrive. Sono contenta per lei, ma non tutte possono permetterselo. Io per esempio posso scrivere solo dopo aver fatto tutto il resto – il mio lavoro, la mamma, tante cose perché i figli sono quattro e anche se ho un marito super bravissimo le cose sono sempre tante – quindi finisce che mi posso concentrare sulle mie cose solo dalle 2 alle 5 di notte, quando la mia famiglia dorme. Alle 6.40 mi sveglio (anche se dire che sono sveglia è una parola grossa). So che questo è un problema mio, e sono io che desidero scrivere e ho l’enorme privilegio di poterlo fare. Ma non tutte hanno questo privilegio. Comunque, era solo per dire che tante donne di oggi lavorano non per gratificazione come ci ha fatto credere tutta la nefasta propaganda femminista, ma lavorano portando pesi enormi, e senza la possibilità di scegliere tempi e modi nelle diverse fasi della vita – i figli piccoli, le generazioni precedenti che hanno bisogno di aiuto, o magari anche il desiderio di fare altro per brevi periodi.
Ecco, forse è ora di uscire da questa logica maschi femmine. Noi rifiutiamo fermamente le rivendicazioni femministe. Il sessismo non c’entra niente. Siamo diversi, e abbiamo desideri diversi. La Parrella e la Aspesi e la Saraceno e le altre devono sapere, almeno, che non rappresentano tutte le donne. Non me. Non le donne in carne e ossa che incontro tutti i giorni. Rappresentano una elite intellettuale, che fa bene a rivendicare i suoi desideri, perché anche quelli hanno diritto di cittadinanza. Solo che non sono i nostri.
Noi desideriamo imparare ad amare sempre più, sempre meglio, convinte che la capacità di fare spazio all’altro non sia affatto debolezza, ma al contrario forza. Non vogliamo difenderci dagli uomini, ma difendere loro dal loro egoismo. Vogliamo essere difese da loro nella nostra fragilità. Sappiamo di avere bisogno gli uni delle altre, e sappiamo che il bisogno non è un male, è semplicemente la nostra verità. Noi vogliamo difendere la vita sempre, comunque, quando è piccolissima e fragile, anche quando è inopportuna, perché siamo certe che dalla cavità che ci riempie saremo capaci di tirar fuori la forza per sostenere qualsiasi vita ci sarà chiesto di nutrire, anche quando “non è il momento”. Ecco, che le femministe facciano le loro battaglie. Solo, sappiano che non sono quelle di tutte le donne.
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