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“Era meglio quando le donne stavano a casa”…si può ancora dire?

DONNA CUCINA POP ART
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Paola Belletti - Aleteia Italia - published on 29/08/17
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Dal blog di Concita de Gregorio un post che ha suscitato numerose reazioni. E molte positive!Abbiamo pranzato in taverna, oggi! È una stanza che fino a poco tempo fa era adibita a plastico in scala 1 a 1 del caos primordiale. Un posto dove si stipavano tutti gli “intanto appoggialo lì”.

Ora invece vanta una bella cucinetta, un grande tavolo, sedie ancora spaiate ma con tutto un progetto dietro, un eccellente divano letto, una zona studio. E un enorme armadio! (già pieno, ma chiuso. Come si addice agli armadi degni di questo nome).

Eravamo le mie tre figlie, tutte e tre con la faccia già sbiadita da imminente ripresa della scuola, il piccolo Ludovico nella sua seduta speciale, e due persone che arrivavano da due viaggi, uno lungo e uno lunghissimo. Un amico sacerdote missionario in Giappone e la sua mamma, una cortesissima, affabile ed elegante signora che veniva da Roma.

Così, in un seminterrato arredato all’80% e pieno di buone intenzioni, ci siamo trovati ad abbracciare una bella porzione di mondo.

È stato molto bello, rigenerante. Come è già capitato con altri sacerdoti nostri amici, le figlie hanno subito aperto i loro cuoricini e lasciato frizzare nell’aria di questo luminoso seminterrato, tutte le loro chiacchere, idee buffe, domande serie sul senso delle cose e sull’ultima funzionalità di Whatsapp.

In Giappone ci sono, anche là, donne e uomini. E, ci raccontava il sacerdote, di fatto ancora è come se non ci fosse mai stato Dio, in quelle terre per molti aspetti inospitali. Noi qua diamo per scontato che certe idee siano a disposizione di tutte le persone e che non occorra sempre invocare la cristianità e il giudaismo per giustificare certi principi; ci saremmo arrivati lo stesso, via.

Invece no. Tra un pollo allo spiedo, le patate, un melone croccante (da noi 1,99 al kg, da loro 50 euro un frutto. Infatti li vendono in confezioni regalo di tutto rispetto) abbiamo saputo che là gli stuzzicadenti si chiamano “lavoretto da moglie”.

Come se lo sgombrare rapidamente gli interstizi dentari dei mariti da residui di cibo (servito dalle mogli) debba per forza di cose, per forza di una metafora che probabilmente non dà fastidio a nessuno, essere una cosa da moglie. Quindi ricordiamoci che viviamo ancora, forse solo in scia, in una civiltà che ha messo al centro la persona, ha inaugurato davvero la liberazione e la valorizzazione della donna e dato dignità ai bambini. Prima, fuori da questa storia non era e non è così.

Mentre aspettavo che salisse il caffè gorgheggiando nella moka, smartphone in mano, ho visto che un post rilanciato già domenica sui social aveva iniziato a spopolare: “Era meglio quando le donne stavano a casa”.

Veniva dal blog di Concita de Gregorio, su Repubblica; a scrivere è Michela, moglie e mamma trentottenne che, con un discreto coraggio, dice cose forse meno tabù anche solo di un lustro fa. (Credo che anche i libri di Costanza Miriano abbiano fatto da testa d’ariete contro questo muro di cinta che pareva inespugnabile)

Dice che ha un bellissimo lavoro, che nel suo ambiente mai le è capitato di subire umiliazioni ma nemmeno di essere lei o vedere sminuita una collega donna, in quanto tale. Ma dice che se potesse scegliere davvero preferirebbe stare a casa. Seguire meglio sua figlia, che ha 5 anni. Occuparsi di bucato, ordine, pranzi, cene. Certo, raccontati così, descritti in un rapido acquerello dai colori un filo troppo festosi, sanno di stucchevole.

E avrei anche altre osservazioni da fare, ma le farò dopo avere riconosciuto a lei e alla padrona di casa il coraggio (la furbizia, anche?) di proporre un contenuto simile. Tra i commenti sono molte le persone che apprezzano, che lasciano il loro “finalmente”, che non si sentono più esposte a stigma sociale perché pensano che la presenza femminile tra le mura di casa sia una grande ricchezza e non un’accozzaglia di connotati tristi, deprimenti, lesivi della dignità femminile.



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Ho già tediato anche voi temo con alcuni scampoli della mia storia: ho 4 figli, dai 13 ai 4 anni, un marito, grazie a Dio una casa (non autopulentesi), un lavoro. E due profonde occhiaie (ma anche ottimi correttori).

Detto questo:

1) fare la madre non è un mestiere

2) le giornate a casa non sono tutte passetti veloci e leggeri tra i fornelli, un salto in giardino, una spuntatina ai gerani e olezzo di bucato fresco al nostro passaggio

3) la fatica della presenza a casa, dell’educazione dei propri figli, della gestione pratica di molte incombenze ha spesso il suo lato greve, stantio, brutto.

Eppure è fondamentale! Oggettivamente. Non abbocchiamo più alla fake del tempo di qualità. Ne serve una quantità industriale, di tempo. E di qualità almeno passabile. E molto spesso, superati magari i momenti di maggior carico e fatica, le soddisfazioni, le vere e proprie gioie, le gratificazioni si raccolgono anche a casa. Per una stanza sistemata, un’idea creativa, un clima disteso a tavola, una macchia debellata, le scale ridipinte, una pianta regalata che non muore subito…

Per la verità, diciamolo, tutto può diventare brutto. E tutto bellissimo. Si può essere infelici su uno yacht e felici, innocenti, in un carcere di massima sicurezza. Il segreto, per ogni condizione, sta nel farlo alla presenza di Dio, chiedendo a Lui intelligenza, idee e calorie per far andare muscoli e mente. Ma torniamo alle nostre vite sistematicamente distratte dall’essenziale.

Ci siamo dimenticate, commentando, rilanciando, associandoci o dissociandoci dal post, noi, loro, i softhaters o i garbati supporters, di ripartire dall’ostinazione della realtà e di dar voce a chi di solito la usa per almeno un 48-52 mesi solo per urlare, piangere, ridere a crepapelle e dire no: i bambini?

Noi esseri umani, nati bambini a tutte le latitudini, abbiamo esigenze che qualcuno lì tra noi grandi e grossi deve sforzarsi di rimettere al centro.



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Anche quando la sensibilità della donna non le colga per bene. Anche quando forse se ne accorge in tempo, vorrebbe tenerne conto, ma non ha la forza di imporsi, non capisce come fare, non si organizza o ha un uomo distratto, assente, o peggio. E nessun altro attorno.

Io credo che davvero sia necessario andare incontro alle necessità così diverse da donna e donna, riguardo all’equilibrio tra lavoro fuori casa e responsabilità di fronte alla famiglia; credo che sia meritorio cercare di offrire spazi di libertà alle donne (anche se per ora pare si tratti solo di bellissimi temi in classe di volonterosi scolari mentre i numeri raccontino tutt’altro. La maggior parte di noi lavora per necessità e vorrebbe più tempo per la famiglia). Ma più di tutto, forse, bisogna rimettere in ordine i sassi del muro. A partire da sotto. Gravidanza, puerperio, allattamento, svezzamento, e tutti quei periodi o stati o cose che raccontano da fuori questa inseparabile endiadi madre-figlio sono oggettivamente, irriducibilmente, primitivamente importanti. Necessitano di tempo. Di tutele, rispetto. Di silenzio intorno.

Non si tratta solo di cose “da fare” che quindi in fondo in fondo si possono pure lasciar “fare” ad altri. Si tratta di essere. Di esserci. Del fatto che io, come Michela, come Silvia, come Anna, Costanza, Elisabetta, Laura, siamo mogli e mamme. Che dotate di utero, ovaie, tube, circuiti ormonali fisiologici possiamo concepire e portare a compimento gravidanze, cioè permettere vite altrui. Che dotate di seno possiamo allattare. Possiamo e direi che dobbiamo. Non siamo in ballo solo noi. La salute di uomini che avranno 40 anni fra 39 anni e 9 mesi dipende molto da questo. Dal nostro latte!

Siamo madri di bambini che poco dopo aver gattonato, rubato biscotti, ingoiato piccole parti di giochi che non dovevano essere lì, diventano preadolescenti. Ve lo giuro, ci vuole pochissimo perché questo accada. E allora tutti i preadolescenti hanno facce un po’scomposte, corrucciate, appuntite o grassocce con occhi assetati di domande. Sì vogliono ora le vostre domande, non le risposte. Vogliono che chiediate loro che ne pensano, cosa preferiscono, su cosa possono decidere loro. Vogliono dirvi che non sono d’accordo. Vogliono dirvi che ora la vita hanno capito che è loro. “Ma non lasciateci, subito, la mano”, vi lasceranno scritto tra qualche parentesi sgarbata.

Tutto questo per dire cosa?

Che effettivamente, in fondo in fondo, ha ragione Michela. Anche con un lavoro perfetto, anche con tutte le flessibilità del caso, essere madre di figli (fosse anche uno solo) e moglie di un marito (uno, uno solo! Almeno su questo, occidentali, teniamo botta!) significa appartenere in un certo senso a loro e con loro sfuggire all’industria. Noi siamo prima, siamo sopra, attorno, fuori dall’insieme di macchine, vie di trasporto, punti vendita. Siamo quella parte selvaggia che sfugge alla produzione. Possiamo al massimo essere re, regine, principi di un regno e pure principali di una fabbrica per dare da mangiare ai nostri figli e un aiuto a migliorare il mondo. Ma non siamo risorse.



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E forse arriveranno addirittura i tempi in cui saremo tanti a pensarla così e non lo dovremo andare a scrivere su nessun giornale o social network.

 

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