Una multinazionale riminese del fast fashion alla conquista del mondo. E siamo già alla seconda generazione!Intervista a Cristiana Tadei, Brand Manager di Calliope e azionista proprietaria del Gruppo Teddy, che comprende i Brand Terranova, Calliope, Rinascimento, Miss Miss.
La Teddy nasce a Rimini con un giovanissimo Vittorio Tadei, nel 1961. Questa la sua attuale fisionomia di business: 4 marchi, presente in oltre 40 paesi, 21 ingrossi, 600 Negozi, 2555 dipendenti, 622 Mln di fatturato consolidato, 4.500 collaboratori, oltre 1 miliardi di incassi del Gruppo a prezzi retail. E le previsioni sono di continua crescita.
Aleteia ha avuto la fortuna e il piacere di intervistare una delle figlie del fondatore e attuale azionista proprietaria insieme con le altre due sorelle, Cristiana Tadei, detta Chicca.
Cristiana ha 44 anni, vive a Rimini, è sposata con Alessandro e insieme hanno 4 figli.
Non è “solo” una delle figlie di Vittorio; e nemmeno la coerede del Gruppo Teddy e basta. E’ Brand Manager di Calliope, marchio glamour del gruppo Teddy. Il fondatore, per tutti il Signor Vittorio, è morto il 13 luglio 2016.
Partiamo dal presente, come si fa nei curriculum. A che punto è, ora, la tua storia di imprenditrice e azionista proprietaria del gruppo, con le tue sorelle? Ed era scontato per voi figlie proseguire con l’azienda?
Io non so se sono, se posso essere definita un’imprenditrice. Faccio il mio mestiere, un mestiere che amo.
Dal punto di vista dell’imprenditorialità siamo rimaste le mie sorelle ed io, a livello azionario, a portare avanti la nostra azienda.
Dal punto di vista del lavoro mio babbo (da Imola in giù si dice babbo! Ndr) è sempre stato molto libero, con tutte noi. Ha sempre avuto questo approccio perché, diceva, nel fare quello che uno ama riesce a farlo molto meglio.
E così, piano piano, in azienda, si è andata delineando la mia figura, proprio seguendo le mie attitudini e i miei talenti. Ora mi sono specializzata su una conduzione di marchio – l’organigramma recita Brand Manager – che tenga conto di estetica, logica commerciale e di un punto di vista che ho maturato io sulla moda.
Per questo direi che la mia non è una figura imprenditoriale in senso stretto, se non come parte del CdA. La mia è una figura più direzionale.
Il ruolo e le responsabilità di imprenditore le abbiamo affidate ad Alessandro (Bracci, marito di Cristiana, genero del fondatore).
È vero che non sono imprenditrice però è ovvio che senta l’azienda mia, come ognuno dei miei collaboratori, del resto, sente l’azienda quasi fosse la sua.
La nostra sfida, in Teddy, è che ognuno dei nostri collaboratori senta l’azienda come propria e che io, che sono una dei proprietari, paradossalmente, possa custodirla come amministratore, quasi non fosse mia.
Fondamentalmente sia io che le mie sorelle siamo andate dietro a quello per cui ci sentivamo più tagliate, guardando con realismo noi stesse e le circostanze. Tant’è che una di noi tre, Luisa, fa la scultrice. Emma ed io, che invece eravamo già da anni impegnate in azienda, abbiamo entrambe tenuto conto con realismo del nostro essere madri. Insieme alle nostre inclinazioni e talenti, questo dato così imponente ha inciso con naturalezza nelle nostre decisioni.
Al passaggio generazionale avevamo i figli piccoli. Io ringrazio, sono contenta di fare il lavoro che faccio. Era troppo sproporzionato rispetto alla mia realtà di madre di bambini piccoli l’incarico di responsabile ultima del gruppo.
Per me, la mia realizzazione personale è anche fare la mamma. Per questo non avrei nemmeno davvero voluto assumermi quel ruolo. Poi i figli crescono, per cui ora il mio impegno in azienda è anche aumentato.
E cosa c’è invece all’origine, della storia di Teddy e della tua?
All’origine della storia c’era una persona, (cioè suo padre, Ndr) ma poi non solo…
C’è un desiderio di creare qualcosa di grande e di utile innanzitutto per una realizzazione personale e poi per il mondo intero; come?
Sia aiutando chi ha difficoltà (la Teddy, lo si legge nel testo de “Il sogno”, si è inventata e imposta ben prima che in merito legiferasse il nostro Parlamento, di inserire una persona svantaggiata ogni 5 – e non 15! – collaboratori) sia come apertura al mondo.
Gli utili dell’azienda non sono solo per noi, ma per il mondo. In Teddy è presente il desiderio di costruire non solo per sé ma per tutti!
Poi l’azienda ha preso una certa fisionomia perché abbiamo un fratello, Gigi (Luigi è scomparso tragicamente nell’ottobre del 2006, Ndr) che ha inciso in modo radicale nella vita di mio padre e dell’azienda; ha approfondito l’approccio di mio babbo all’impresa.
Tutto quello che c’è stato dopo era già in nuce nel suo cuore, nel cuore di mio padre. La morte di suo figlio, nostro fratello, ci ha dato una sensibilità che magari non avremmo avuto, né mio babbo e nemmeno noi figlie.
Per me c’è, all’origine del mio lavoro, rimane sempre il desiderio di costruire, di creare perché penso sia proprio del cuore dell’uomo di fare e costruire.
E ancora più bello, appassionante se quello che fai ti offre la libertà e il rischio di esprimere un tuo punto di vista sul mondo; è una cosa assolutamente esaltante.
È un modo di lavorare, questo, che mi permette di dire come penso alla moda e come tratto le persone; qual è il mio punto di vista sulla carriera professionale, su tanti aspetti…
Mi permette di costruirvi intorno il marchio e il mio modo di lavorare; uni stile di relazione con le persone e il mercato che così sento davvero mio.
Per cui, grazie al cielo, l’azienda che stiamo portando avanti non è più solo quella che ci ha lasciato mio padre, ma è nostra, ha la nostra impronta.
Non è solo un proseguire, ma è dare un co imprinting. L’abbiamo presa in custodia, viva. La realtà cambia e tu puoi dare una tua fisionomia anche dal punto di vista delle relazioni, non solo del business. Con un’identità ben precisa che si ri-attualizza ogni giorno, più moderna, più vivace.
(Che bella, cari lettori, questa libertà, questo coraggio nel prendersi la responsabilità di un’azienda così grande, di tutte le famiglie che campano con questo lavoro. Ecco, forse, qual è il vero segreto di tanti passaggi generazionali falliti – innumerevoli – e riusciti – pochi, ma eccellenti! Il “Signor Vittorio” poteva diventare una presenza paralizzante come delle ganasce alle ruote della macchina – Teddy. E invece no. Segno inequivocabile che è stato un vero maestro e un vero amministratore, non “il padrone”della Teddy. Rendeva conto di tutto, fino in fondo, al “Socio di maggioranza”. Come chi? Dio. Per lui era Dio. La cosa deve avere funzionato perché il mercato, quello feroce dove la globalizzazione significa che i nemici sono dappertutto come i Vietcong in Full Metal Jacket, non lo conquisti con il fervorino. Ndr)
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Qual è il tratto più distintivo della Teddy che si può vedere anche nei suoi brand?
Un tratto distintivo dei nostri marchi è che siamo un’azienda positiva, con mille declinazioni, nel senso che Terranova esprime la positività con il desiderio di portare un attimo di allegria e positività nella vita dei suoi clienti.
Calliope, in un altro modo di vivere e raccontare il marchio. Calliope è glamour light; propone una moda che non vuole essere eccessiva e comunica queste intenzioni a partire dal valore della positività.
Questo valore si esprime nei marchi, nelle relazioni e in un certo modo di guardare la realtà. Mio babbo diceva sempre che uno nasce nudo e muore vestito. Significa che il mercato ce l’hai sempre!
La positività è un tratto proprio della nostra azienda perché non c’è crisi che tenga! Anzi: la maggior parte degli errori sono stati e sono occasioni per migliorare e cambiare. Per noi tutti, in Teddy, vivere ogni sfida con questa positività è proprio una caratteristica altamente distintiva ed è un criterio per prendere decisioni.
(Non si tratta di un diffuso stato di allegria incosciente, di un’effervescenza che aleggia nelle sale riunioni e negli store e non si sa bene da dove venga né a far cosa! Chi guida e chi lavora in Teddy è gente concreta, che fatica senza risparmiarsi. Non immaginiamoci giovani spocchiosetti con la testa farcita di parole come “innovazione”, “digitalizzazione”, cose 3.0 e tanti bla bla. Qui l’internazionalizzazione è realtà da anni. I social media sono maneggiati con coraggio e prudenza. La logistica, non ne parliamo, è all’avanguardia da un pezzo! Ndr)
Prosegue Cristiana, detta la Chicca:
Per Calliope sicuramente non farei mai una cosa dove una donna è quasi nuda. Non farei mai cose troppo trasgressive; non fanno decisamente parte di noi. Questo non vuol dire non essere femminili. Calliope è equilibrato, “stiloso”, moderno contemporaneo, femminile.
L’importante è non eccedere. Quando noi interpretiamo le tendenze cerchiamo di non esasperarle. È proprio un nostro codice stilistico.
Cosa vi rende un’azienda in salute?
La cosa che magari c’è in tutte le aziende (dal mio seppur limitato punto di osservazione ed esperienza direi proprio di no, che non è una cosa che si trova in tutte organizzazioni aziendali) sicuramente il fatto che la maggior parte di chi lavora con noi sente l’azienda come propria.
Nel senso che davvero ci tengono alla salute della Teddy tanto quanto ci tengo io. Per cui ogni giorno si danno da fare perché questo si realizzi. E questo ti permette di affrontare i cambiamenti che il mercato ti impone perché non hai paura di cambiare.
E il fatto di dover cambiare non è una critica a come hai fatto finora, ma uno stimolo per fare sempre meglio. Ognuno sente l’azienda come propria perché ha messo il proprio sogno sulle spalle di quello della Teddy. È gente che nel lavoro ha trovato un modo di realizzarsi ed essere felice. Lavoriamo tanto! Per cui se non ci troviamo gusto…
Ognuno desidera essere decisivo, incisivo in ciò che fa. Ognuno desidera che quello che fa abbia uno scopo e degli effetti. Che non sia un’operazione routinaria e vuota, ma abbia un senso.
Se nel lavoro trovi un modo di collaborare con le persone per cui ci si confronta, si fanno le domande giuste, allora anche sbagliando tanto – io ho imparato molto di più dagli errori che dalle cose buone- impari e cresci professionalmente. Se non sbagli mai non impari e non riparti.
Sul tema della donna e del lavoro, del contributo specifico delle donne nel lavoro e delle difficoltà che ci riguardano, Cristiana risponde così:
(Tanto per cominciare cerca subito di rifuggire tutte le ormai classiche antifone che si sentono ripetere quando si accenna a donne e lavoro. Quote rosa, carriera, discriminazioni, barricate maschi vs femmine. Ndr)
Io amo il mio lavoro perché mi piace quello che faccio, come è per i tantissimi uomini che amano altrettanto il loro lavoro. Un tratto un po’ più femminile, sicuramente, è che noi donne, in linea generale, abbiamo una immedesimazione con il nostro consumatore più immediata, riusciamo a capire in maniera immediata i suoi bisogni. La nostra capacità di immedesimarci nei problemi degli altri fa forse un po’ parte del nostro essere femminile.
Come seconda cosa, noi donne in generale abbiamo un gusto del bello, dell’armonia delle relazioni e dell’accoglienza che raramente gli uomini possiedono! Io sono una grande sponsor del lavoro femminile, soprattutto in un settore come il nostro in cui la bellezza è proprio nel core business, in cui gusto estetico, ricerca dell’armonia e importanza della visione d’insieme sono importanti. Pensa solo a come un uomo apparecchia la tavola…
Io “apparecchio” l’ufficio per la presentazione della nuova collezione, metto l’acqua, un regalo per tutti…per me questo è un tratto molto femminile che con grande facilità condivido con le mie colleghe (le chiama colleghe e non è una posa. In Cristiana emerge un’umiltà intelligente ed un vero farsi carico del lavoro e delle persone, Ndr). Sulle questioni contrattuali legate al tema conciliazione lavoro-famiglia etc io personalmente faccio fatica perché penso non ci sia una regola uguale per tutte.
(Aggiungo io: forse la regola è proprio questa. Grande flessibilità. Grande possibilità di modulare il rientro al lavoro. Senza omettere il fatto che ci sono dei dati rigidi che la contrattualistica dovrebbe sempre continuare a tutelare. Lo sanno anche i muri che un bimbo per stare bene andrebbe allattato almeno fino ai 6 mesi esclusivamente al seno. E questo è il minimo. Nel senso che al centro non c’è solo la donna ma pure il bambino. E questo, di solito, non c’è bisogno di spiegarlo alle mamme…)
Poi magari una diventa Amministratore Delegato ed è più contenta che mai.
Nella mia esperienza, da quel che vedo, posso dire che ci sono donne che tornano al lavoro e sono ancora totalmente assorbite dalla nuova esperienza della maternità e altre che rientrano e subito riescono a tradurre la loro nuova forza anche nell’impegno professionale.
Non sono per imporre stili uguali a tutte. Sicuramente c’è che se una si realizza nel lavoro a casa sta meglio…c’è in ogni caso il gusto del bello e dell’accogliere l’altro, che è squisitamente femminile. Fino alla capacità di immedesimazione che è fondamentale.
Momenti o periodi di crisi. Come affronti la situazione?
Per me errori e crisi sono parte integrante dell’esperienza lavorativa, altrimenti è impossibile crescere. Dall’altra, come si affrontano? Con gli altri, innanzitutto; e dando il nome agli errori, dando un nome a tutti gli elementi in gioco. E avendo tanta umiltà, soprattutto per non farsi determinare dall’errore. Deve essere così: ne facciamo talmente tanti che se non trovi la chiave giusta per viverli sei spacciato. Veramente questo mestiere non lo fai, non lo puoi fare senza fare errori; ma se uno ha la pretesa di farlo senza fare errori…muore. E io sono una “perfettina”, eh (anche questo è un tratto che si riscontra facilmente nelle donne, mi pare)! Ho dovuto imparare a mie spese. Ho dovuto impararlo a caro prezzo, ma serve per crescere.
C’è stata una decisione davvero difficile, dolorosa ma necessaria che hai dovuto prendere?
No! Non ho dovuto, finora. Non so.
Di cosa soprattutto ringrazi il tuo papà?
La prima cosa di cui lo ringrazio è di avermi sempre lasciata libera di essere me stessa. Nel senso che non mi ha mai obbligato in nessuna scelta, è stato sempre molto discreto. E le cose sono andate diversamente da come lui sia aspettava; così io ho trovato identità e strada nel lavoro. Per lui il lavoro era un’occasione per essere felice. Anche per me.
Vissuto così il lavoro diventa un’avventura bellissima e non il peso di una figlia che deve portare avanti per forza l’azienda.
Com’è lavorare col proprio marito? Ci sono ostacoli in più o invece magari una sintonia più profonda?
Secondo me è … Un attimo, premetto che non lavoriamo gomito a gomito; abbiamo ambiti autonomi e indipendenti però tendenzialmente c’è sintonia profonda e grande stima. Siamo radicalmente diversi, ma questo è un vantaggio perché ci permette di vedere le cose da due punti di vista completamente diversi e ci rende complementari. Il lavoro non è occasione di litigio ma anzi, lo è di complementarietà perché siamo diversi eppure sulla stessa lunghezza d’onda, per quanto riguarda le cose fondamentali.
Osserviamo le cose da due punti di vista differenti ma per raggiungere lo stesso scopo. Ognuno approda al pensiero dell’altro, a suo modo. Nella descrizione del marchio, ad esempio, lui era più freddo e manageriale poi è venuto più dalla mia parte e io dalla sua per quanto riguarda organizzazione e razionalizzazione di risorse.
Vero che la parte più difficile inizia quando torni a casa?
Sì. Ho tre figli adolescenti! Anzi ora dovrei proprio andare…(e risponde ad uno dei figli che la incalza da un po’, lo si sentiva in sottofondo).
Mi saluta, ora ha proprio fretta eppure il suo è un ciao caldo e tagliato su misura per me.