Viene pubblicata su La Civiltà Cattolica la trascrizione di un colloquio privato avuto tra Papa Francesco e i gesuiti che gestiscono il santuario di san Pedro Claver a Cartagena. In un passaggio il Santo Padre evoca “quelli che criticano Amoris lætitia”
Roma locuta, causa finita. Chissà…
In un angolo appartato del recente viaggio apostolico di Papa Francesco in Colombia si è consumato un colloquio i cui contenuti sono appena stati pubblicati sull’ultimo numero de La Civiltà Cattolica. Il 10 settembre, infatti, il Santo Padre ha incontrato privatamente i sessantacinque gesuiti che gestiscono il santuario di San Pedro Claver a Cartagena delle Indie. Intrattenendosi con loro – «mi piace incontrare “la setta”!», ha esordito tra una risata dei confratelli – ha voluto rispondere ad alcune domande emerse dal gruppo:
Non voglio farvi un discorso, e quindi, se avete qualche domanda o qualcosa che desiderate sapere, ditemi ora, che è meglio: voi mi stuzzicate e mi ispirate.
Le domande sono state diverse e hanno spaziato dalla percezione della comunità locale alla valutazione circa la portata del viaggio apostolico allora in corso sulla media e lunga durata. C’è stato l’aneddoto riportato dal Papa, che tornava a raccontare (l’aveva già fatto pubblicamente, il giorno prima) del giovane universitario di Cracovia.
[…] mi ha chiesto: «Alcuni miei compagni sono atei, che cosa devo dire per convincerli?». Questo mi ha fatto notare il senso di militanza ecclesiale che aveva quel ragazzo. La risposta che mi è venuta è stata chiara: «L’ultima cosa che devi fare è dire qualcosa, davvero l’ultima. Comincia ad agire, invitalo ad accompagnarti e, quando vedrà quello che fai e il modo in cui lo fai, ti domanderà, e a quel punto puoi cominciare a dire qualcosa».
Si capisce che il Papa abbia raccontato più volte di questo scambio: esso esemplifica bene un’esigenza di trasformazione della missione ecclesiale, che poi è la stessa perpetua riconversione a cui la missione è chiamata in ogni epoca – sbaglierebbe chi vi vedesse la preponderanza dell’agire sul riflettere (a parte che è san Tommaso a dire che la teologia è una scienza pratica…); anche san Francesco raccomandava di conservare la pretesa di “dire qualcosa” come extrema ratio dell’evangelizzazione.
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Il passaggio sulla teologia
C’è però un altro punto che attrae e merita la nostra attenzione, in particolare nell’infuocato dibattito attorno ad Amoris lætitia – dibattito costellato di Dubia e di altri (molto meno degni) tentativi di critica più o meno velata. Quando padre Vicente Durán Casas si è alzato per porre al Papa una domanda sul destino delle scienze teoretiche ha usato queste parole:
Insegno filosofia e mi piacerebbe sapere, anche a nome dei miei colleghi docenti di teologia, che cosa si aspetta dalla riflessione filosofica e teologica in un Paese come il nostro e nella Chiesa in generale.
E il Papa ha dato una risposta così corposa che merita di essere riportata per intero:
Direi, per cominciare, che non sia una riflessione di laboratorio. Infatti, abbiamo visto che danno ha finito col fare la grande e brillante scolastica di Tommaso quando è andata decadendo, decadendo, decadendo…: è diventata una scolastica da manuale, senza vita, mera idea, e si è tradotta in una proposta pastorale casuistica. Almeno, ai nostri tempi siamo stati formati in questa linea… Direi che era piuttosto ridicolo che, per spiegare la continuità metafisica, il filosofo Losada[1] parlasse dei puncta inflata… Per dimostrare questo tipo di cose si cadeva nel ridicolo. Era un grande filosofo dell’epoca, ma decadente, volava rasoterra…
Dunque: la filosofia non in laboratorio, ma nella vita, nel dialogo col reale. Nel dialogo col reale troverai, come filosofo, i tre trascendentali che fanno l’unità, ma con un nome concreto. Ricordiamo le parole del nostro grande scrittore Dostoevskij. Come lui, anche noi dobbiamo riflettere su quale bellezza ci salverà, sulla bontà e sulla verità. Benedetto XVI parlava della verità come incontro, ovvero non più una classificazione, ma una strada. Sempre in dialogo con la realtà, perché non si può fare filosofia con la tavola logaritmica, che peraltro è ormai in disuso. E lo stesso vale anche per la teologia, ma questo non vuol dire «imbastardire» la teologia, al contrario. La teologia di Gesù era la cosa più reale di tutte, partiva dalla realtà e si innalzava fino al Padre. Partiva da un semino, da una parabola, da un fatto… e li spiegava. Gesù voleva fare una teologia profonda, e la realtà grande è il Signore. A me piace ripetere che per essere un buon teologo, oltre a studiare, bisogna avere dedizione, essere svegli e cogliere la realtà; su tutto questo bisogna riflettere in ginocchio. Un uomo che non prega, una donna che non prega, non può essere teologo o teologa. Sarà il volume del Denzinger[2] fatto persona, saprà tutte le dottrine esistenti o possibili, ma non farà teologia. Sarà un compendio, un manuale dove c’è tutto. Ma oggi la questione è come esprimi Dio tu, come esprimi chi è Dio, come si manifestano lo Spirito, le piaghe di Cristo, il mistero di Cristo, a partire dalla Lettera ai Filippesi 2,7 in avanti… Come spieghi questi misteri e li vai spiegando, e come stai insegnando quell’incontro che è la grazia. Come quando leggi Paolo nella Lettera ai Romani, dove c’è tutto il mistero della grazia e vuoi spiegarlo.
Approfitto di questa domanda per dire una cosa che credo vada detta per giustizia, e anche per carità. Infatti, sento molti commenti – rispettabili, perché detti da figli di Dio, ma sbagliati – sull’Esortazione apostolica post-sinodale. Per capire l’Amoris laetitia bisogna leggerla da cima a fondo. A cominciare dal primo capitolo, per continuare col secondo e così via… e riflettere. E leggere che cosa si è detto nel Sinodo.
Una seconda cosa: alcuni sostengono che sotto l’Amoris laetitia non c’è una morale cattolica o, quantomeno, non è una morale sicura. Su questo voglio ribadire con chiarezza che la morale dell’Amoris laetitia è tomista, quella del grande Tommaso. Potete parlarne con un grande teologo, tra i migliori di oggi e tra i più maturi, il cardinal Schönborn. Questo voglio dirlo perché aiutiate le persone che credono che la morale sia pura casistica. Aiutatele a rendersi conto che il grande Tommaso possiede una grandissima ricchezza, capace ancora oggi di ispirarci. Ma in ginocchio, sempre in ginocchio…
Una risposta densa, strutturata e ricca di riferimenti sostanziosi: anzitutto la descrizione della parabola discendente della seconda Scolastica non avviene in astratto, ma con il nome noto di Luis de Losada, uno dei gesuiti che a suo tempo formalizzarono il sistema scolastico tanto parossisticamente che la teologia finì per assomigliare alla Sacra doctrina di san Tommaso come il latte in polvere ricorda la mungitura. Poi la ricerca dell’autorità del predecessore, teologo di chiarezza indiscussa, dal quale si mutua l’epistemologia dell’incontro contro quella del mero giudizio intellettivo. L’Imitazione di Cristo e gli Esercizi spirituali – forse le colonne d’Ercole della pietà cristiana al crocevia della modernità occidentale – confluiscono armoniosamente in questa risposta: la teologia non si fa solo a tavolino, non è pensabile che il “molto sapere” possa ottenere una vera e buona teologia cristiana. Quindi la messa a fuoco di uno degli argomenti maggiori, in ogni epoca, dell’annuncio cristiano tematizzato – la teologia della grazia –: e a proposito sopra aveva anticipato che «la grazia di Dio che si manifesta nella vita del popolo non è una ideologia».
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A quel punto il Santo Padre ha voluto prendere di petto la questione dei Dubia, pur senza nominarla direttamente. E la “risposta” è:
- anzitutto Amoris lætitia va letta nel suo complesso e dall’inizio alla fine, confrontandola con il percorso del Sinodo di cui è l’espressione autorevole;
- la morale dell’Esortazione apostolica è tomista. È sicura quanto quella di Tommaso d’Aquino, perché a quella si richiama costantemente e fin dall’impianto generale;
- la morale che “le persone” credono sicura è in realtà pura casuistica, “sicura” precisamente in quanto artificiale (ovvero irreale).
Colpisce il “questo voglio dirlo” di Papa Francesco: vi sono contesti ecclesiali che persistono nel propalare il tuziorismo casuistico come “una sicurezza”, laddove invece è poco più (o poco meno) di una ideologia. La contrapposizione tra tuzioristi e probabilisti (con diverse altre sfumature in mezzo) è stata una dicotomia accademica e pastorale nella Chiesa latina in alcune polemiche dell’età moderna più o meno direttamente riferite ai temi della grazia, ma in generale torna trasversalmente dai molinisti ai giansenisti, passando per la disputa de auxiliis. Per semplificare, i gesuiti furono storicamente e in genere i campioni del probabilismo, cioè quelli che tra due o più opzioni morali indicavano come preferibile la “più probabile” quanto alla bontà dell’atto in discussione. I domenicani, al contrario, occuparono i posti della squadra dei tuzioristi, cioè di quelli che tra due o più opzioni morali indicavano come preferibile la “più sicura” quanto alla bontà dell’atto in discussione. Questo ha dato vita a numerosi luoghi comuni (e recta via a barzellette) sui gesuiti e sui domenicani (coi francescani in mezzo che giocavano un po’ con questi e un po’ con quelli): proprio per questo – e mi scuso della semplificazione estrema, ma penso che torni utile al lettore – è notevole che Papa Francesco abbia definito “tomista” questa morale. Cioè riferita al campione per eccellenza della “scuderia domenicana”, san Tommaso d’Aquino. Altrettanto notevole è che per la conferma di una simile affermazione il Papa abbia indicato Christoph Schönborn, ovvero il più famoso teologo domenicano tra quelli “in vista” (anche per la dimensione di pubblicità che gli viene dal cardinalato).
Queste non sono “novità assolute”: Francesco le aveva già dette, qua e là, più o meno tutte. Mai però le aveva raccolte insieme indirizzandole apertamente a quanti criticano il profilo morale di Amoris lætitia. Tempo fa lessi – non ricordo più dove precisamente – di critici che obiettavano che le numerose citazioni di san Tommaso (l’Angelico è in effetti il teologo più citato in assoluto nell’esortazione apostolica…) non basterebbero a fare di Amoris lætitia un testo tomista. L’autorità di Schönborn neppure sarebbe sufficiente perché il cardinale austriaco sarebbe un noto modernista (chi non lo sa?). Si comprende che se questo è il punto di partenza, e se “tomismo” diventa sinonimo di “tavola logaritmica”, certi biliosi critici dimostrano non solo la verità delle recenti dichiarazioni del Papa, ma anche la loro opportunità (e forse anche quella, da molti discussa, del suo roccioso silenzio sulla questione).
Ma che cos’è, quindi, una “morale tomista”?
Ci si può ora legittimamente chiedere quale sia in particolare la morale scelta per Amoris lætitia, nonché quali siano a livello teoretico le ragioni delle difficoltà che essa incontra nel calarsi in altre elaborazioni etiche e in una giusta ortoprassi. Seguiamo il consiglio del Papa e torniamo al cardinale Schönborn, che all’indomani della promulgazione dell’Esortazione apostolica aveva concesso a La Civiltà Cattolica un’importante e bella intervista. Ricordo che quando la lessi mi ricordò il Paradiso di Dante, ove si mettono san Tommaso (domenicano) a tessere le lodi di san Francesco (Pd XI), e san Bonaventura (francescano) a cantare la gloria di san Domenico (Pd XII). A dispetto delle beghe che all’epoca di Dante già imbaruffavano quei due ordini mendicanti. L’arcivescovo di Vienna, infatti, rende giustizia all’anima ignaziana dell’Esortazione, che conta non meno di quella tomista:
Sì, l’Esortazione, a mio avviso, è radicata in Ignazio e Tommaso. Abbiamo qui l’esposizione di una morale che si ispira alle grandi tradizioni ignaziana (discernimento della coscienza) e domenicana (la morale delle virtù). Voltiamo le spalle alle morali dell’obbligo, che nel loro estrinsecismo generano al tempo stesso lassismo e rigorismo, per riallacciarci alla grande tradizione morale cattolica e, attraverso di essa, integrare tutto l’apporto del personalismo.
Un vasto programma espresso con la concisione che solo un’accurata meditazione può dare. Ma perché Schönborn non proceda, come il san Tommaso dantesco, “troppo chiuso”, è opportuno che si riporti anche qui la lucida spiegazione da lui offerta nel contesto dell’intervista:
Dietro a una chiara oggettività del bene e della verità, l’Esortazione evidenzia il progresso nella conoscenza e nell’impegno a compiere il bene dell’uomo «in via». L’invito alla sequela Christi, nel quotidiano della famiglia e del matrimonio, permetterà concretamente alla regola di divenire esigenza dell’amore man mano che cresce. È l’intera esperienza della vita cristiana. Ci troviamo all’opposto di una morale della situazione, in cui la norma è sempre percepita come estrinseca all’atto compiuto: essa si colloca al livello dei princìpi generali a profitto esclusivo, nella gerarchia dei valori, dei valori della personalità. In una morale della situazione il soggetto si affranca dalla norma oggettiva, considerata in maniera astratta, a vantaggio di un pragmatismo di circostanza. Ci troviamo in un sistema a doppia verità morale: l’ideale e l’esistenziale. In una morale delle virtù, sottolineata dal Catechismo della Chiesa Cattolica, la morale e i suoi princìpi si ritrovano nell’azione sotto condizionamento della prudenza e non della conoscenza teorica. «La verità sul bene morale, dichiarata nella legge della ragione, è praticamente e concretamente riconosciuta attraverso il giudizio prudente della coscienza» (CCC 1780). La giustezza morale di tale atto concreto include inseparabilmente la ricerca della norma oggettiva che si applica alla complessità del mio caso — che non è mai così semplice come lascerebbe supporre un’analisi astratta dell’atto esteriore — e il radicamento delle virtù che portano a compiere il bene percepito. Si tratta del punto nodale della delucidazione dei rapporti tra oggettivo e soggettivo che le morali dell’obbligo come le morali della situazione non sanno onorare.
Vere boccate d’ossigeno, in una contesa menata a suon di “ma allora se un divorziato convive e viene e chiede…”: né il “tu devi!” né il “dipende dal contesto” sanno onorare – ha spiegato il cardinale domenicano – «i rapporti tra oggettivo e soggettivo». Perché una cosa non è veramente buona se non è buona per me, e naturalmente non può essere buona per me se è cattiva in sé. Non hanno un ubi consistam, quindi, le obiezioni alla morale di Amoris lætitia che inducono il sospetto di un cedimento morale del Magistero, come se Dio davvero comandasse a un peccatore di fare il male. La questione è che Dio, nel salvare l’uomo, gli chiede non “un bene” né “il bene”, entrambi astratti, ma “il bene possibile”. Per questo il salmo dice “Corro la via dei tuoi precetti / perché hai dilatato il mio cuore” [Sal 118 (119), 32] e una santa comunissima donna come Chiara Corbella viene oggi citata da moltissimi cristiani con i suoi “Piccoli Passi Possibili”. Davvero desta stupore che la Chiesa viva quotidianamente queste realtà e poi risulti incapace di comprenderne la formulazione teoretica.
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L’oblio delle virtù
Ma giustamente Schönborn, che è uno studioso serio, non pone la questione nelle mere fila delle contrapposizioni di secoli or sono: anche Max Scheler e il personalismo in genere, nel XX secolo, hanno riproposto con forza e convinzione una etica delle virtù, per salvare Aristotele e Tommaso dal neotomismo come il Cacciatore deve salvare Cappuccetto e la Nonna dal Lupo. Sono infatti Aristotele e Tommaso i più grandi sistematizzatori, in Occidente, di questo assioma: se l’etica ha il compito di renderci felici, essa potrà realizzarlo solo adattandosi a noi e rendendoci progressivamente sempre più facile, piacevole e gioioso l’esercizio di una virtù.
Perché quanti di noi, nel XXI secolo ormai avviato, saprebbero rispondere alla domanda secca “che cos’è una virtù?”. Nove risposte su dieci suonerebbero, invariabilmente: «È un buon modo di comportarsi». No! Questa è una depravazione precettistica e situazionistica della virtù: la virtù non è un bigino di bon ton – essa è anzitutto e soprattutto un abito (come il vizio, del resto), cioè un complesso di acquisizioni psicosomatiche e spirituali che nel tempo divengono sempre più connaturali all’essere umano. Acquisizioni di valore positivo costituiscono un abito virtuoso, acquisizioni di valore negativo costituiscono un abito vizioso: l’effetto primario di questi due abiti è che chi indossa il primo è una persona tendenzialmente gioiosa, chi indossa i secondi trasuda tristezza, rancore e invidia (anche per questo riesce difficile prendere sul serio quanti sproloquiano di “intrinsece malum” con la bava alla bocca – oltre che, spesso, senza conoscere il latino che biascicano).
Anche per questo, però, vale la pena di riportare per intero la risposta di Schönborn alla domanda “abbiamo bisogno delle virtù?”:
Ne abbiamo bisogno, perché il bene colto dallo spirito metta radici in noi e possa essere colto come bene per noi… la prudenza, il retto giudizio, il buonsenso che deriva da tutta una catena di elementi che si sintetizzano nella persona, al cuore della sua libertà… le concezioni inadeguate che condizionano la libertà… le tendenze e le ferite dell’infanzia… l’ Amoris laetitia è il grande testo di morale che aspettavamo dai tempi del Concilio e che sviluppa le scelte già compiute dal Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) e dalla Veritatis splendor. Probabilmente solo un gesuita poteva onorare con tanto acume e lucidità l’alchimia del singolare e dell’universale, del condizionamento e della norma nella dinamica dell’atto morale. Mi colpisce vedere fino a che punto Papa Francesco abbia toccato il nocciolo della morale tomista parlando della morale di amicizia. Si tratta davvero del gioco di due libertà che s’incontrano. Tutto il dinamismo dell’amicizia non può dipendere dall’obbligo esteriore, ma dall’esigenza interiore. È l’esigenza dell’amore a orientare il cammino dell’Amoris laetitia. Nulla è più esigente dell’amore. Si può seguire una legge dall’esterno, senza mettervi il cuore, solo per obbligo. Mentre non si può vivere l’amore di amicizia senza che sia pienamente messa in gioco la libertà.
Ora che abbiamo potuto rileggere questa bella intervista, ma (su diretto invito di Papa Francesco) in riferimento alle polemiche sulla ricezione di Amoris lætitia, abbiamo carburante a sufficienza, forse, per lasciarci nettamente alle spalle certe sterili logomachie da social network, che mentre dànno a chi le alimenta la sensazione di star facendo qualcosa di “oggettivamente giusto” costruiscono invece degli abiti viziosi che rendono infelici e lividi quanti li portano.
Se posso aggiungere un riferimento a una mia personale opinione, che è come leggo le dinamiche ecclesiali in atto in merito ad Amoris lætitia, tornerei a dire che quel testo
Papa Francesco l’ha volutamente e studiatamente lasciato in condizione di essere letto in modo perfettamente ortodosso (e anzi che approfondisce metodologie e finalità dell’agire pastorale) oppure travisato e distorto per fini eversivi e “novatores”. Penso che abbia operato questa scelta per osservare il protrarsi della dialettica ecclesiale (è la lettura che do di AL 3), riservandosi il ruolo di arbitro supremo che compete nativamente al ministero petrino della cattedra romana.
E me ne ricordo proprio leggendo la prima risposta data dal Papa ai confratelli colombiani. Ecco il passaggio, che suona facilmente evocativo:
Ma c’è qualcuno di noi che può dire: «Ti ringrazio, Signore, perché non mi sono mai sbagliato»? No. Il popolo di Dio ha fiuto. E a volte il nostro compito di pastori consiste nel metterci dietro al popolo.
Curioso che quanti restano scandalizzati da questa frase – perché non si addice al Papa seguire il gregge, ma sempre e solo guidarlo alla sua testa! – poi non facciano altro che pretendere che lui li segua…