Christophe Dickès è uno storico e un giornalista. Specialista in storia delle relazioni internazionali e in storia del cattolicesimo contemporaneo, con riguardo speciale al Vaticano e alla Santa Sede, ha appena pubblicato per le edizioni Tallandier “L’eredità di Benedetto XVI”.
Aleteia: Nella sua introduzione, lei evoca in modo molto toccante il suo incontro con Benedetto XVI. Che cos’è che più l’ha segnata, dei momenti passati con lui?
Christophe Dickès: Dei nostri scambi? Direi la sua semplicità e la sua capacità di ascolto. Fisicamente? Senz’alcuna esitazione, l’acume del suo sguardo e la dolcezza del suo sorriso, pure. Joseph Ratzinger ha sempre saputo valorizzare i propri interlocutori… Ora, da parte mia mi sentirei decisamente piccolo, accanto a questo grande teologo divenuto Papa. Forse lei non lo sa, ma il termine “pontefice” designa l’essere un ponte tra Dio e gli uomini. La sua fragile silhouette era – avrebbe detto Bernanos – trasparente. Non nel senso peggiorativo del termine. No. Attraverso di lui, mi sentivo semplicemente un po’ più prossimo al buon Dio. Tornando ad immergermi nella sua opera, è questa la realtà che balza agli occhi con la forza dell’evidenza: Dio c’è. Avevo vissuto la medesima sensazione alle GMG, al momento dell’adorazione eucaristica, nel 2011 a Madrid. Benedetto XVI scomparve totalmente davanti all’ostensorio nel quale si trovava l’Eucaristia.
A.: Si è tanto chiacchierato della rinuncia di Benedetto XVI. Qual è la sua ragione profonda, secondo lei?
Ch.D.: Nel mio libro spiego che bisogna attenersi alle ragioni date da lui stesso, e quindi alla fatica e all’incapacità di adempiere ai doveri del proprio ufficio. Sono fiorite molte tesi complottiste, a destra e a manca. Esse sono – come tutte le tesi complottiste – inverificabili. Mi attengo quindi a quello che lui ha detto, anche se delle cause esteriori hanno oggettivamente pesato nella sua decisioni. Nei fatti, secondo la tradizione di san Gregorio Magno, il Papa è “servo dei servi di Dio”. Questo servizio Benedetto XVI non si sentiva più capace di compierlo. Egli non si sentiva più all’altezza del proprio ufficio. Inoltre, non desiderava che il governo della Chiesa rivivesse le incertezze legate al vuoto di potere degli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II. Egli comprende la testimonianza di Giovanni Paolo II, in cui la sofferenza fu essa stessa e in sé – come diceva il cardinal Sarah – un vangelo… ma lui, Benedetto XVI, non desiderava vivere questo. Esiste in Benedetto un grande pudore, tanto che non ha desiderato che il suo declino fisico fosse esposto all’occhio delle telecamere di tutto il mondo. È una sua scelta, e soprattutto – bisogna ricordarlo – un suo diritto, nel senso proprio del termine, perché la rinuncia del Papa è prevista dal diritto canonico. Tanto dal codice del 1917 quanto da quello del 1983.
A. Sembra che ci sia un abisso tra la personalità timida e delicata di Benedetto XVI e l’immagine dura e autoritaria che ne hanno dato i media. Come spiega questa incomprensione?
Ch.D.: I media non hanno mai voluto fare lo sforzo di mettersi al suo livello. Non hanno compreso la profondità del personaggio, né la sua capacità di rispondere alla sete di spiritualità dei giovani. Prenda la GMG del 2011 in Spagna, che richiamavo poco fa. Un successo planetario: più di due milioni di persone erano riunite all’aeroporto dei Quattro Venti, nella periferia di Madrid, in pieno agosto! Ora, con appena poche eccezioni, i media francesi hanno silenziato questo immenso successo. Al contrario, al minimo “passo falso” del Papa deformavano il suo pensiero estrapolando frasi dal loro contesto: quella pronunciata nel corso della sua lectio magistralis di Ratisbona o ancora la famosa faccenda del preservativo nell’aereo che lo portava in Africa, eccetera.
Benedetto XVI avrebbe potuto saggiare i codici mediatici e adattarvisi. Ha preferito restare sé stesso. A rischio dello scontro. Così egli si colloca nella tradizione dei grandi confessori della Chiesa che, contro venti e maree, hanno proclamato la fede. Nel mio libro scrivo che Benedetto XVI ci ha consegnato il tempo del silenzio e della meditazione, della riflessione e della parola, del necessario dibattito e del dialogo onesto. Ha preferito tutto questo alla dittatura mediatica dell’emozione e ai «guardiani di un mondo fittizio e moralista che escludeva dalla discussione le realtà ultime», secondo l’espressione del sociologo Jean-Pierre Le Goff.
A.: Può parlarci dell’attuale relazione tra Benedetto XVI e Francesco? Qual è lo statuto di Benedetto XVI in rapporto al nuovo Papa?
Ch.D.: È difficile conoscerne esattamente il tenore. Sappiamo che Papa Francesco ha trasmesso molti dei suoi testi a Benedetto XVI. Francesco lo considera come una sorta di patriarca. Ha l’abitudine di dire che è un nonno dal quale è bene andare per fare chiarezza. Francesco l’ha pure invitato a ogni concistoro [creazione dei cardinali] e nel corso delle grandi cerimonie, come l’apertura della Porta santa.
Quanto al suo statuto, come lei sa Benedetto XVI è chiamato Papa emerito. Egli si è personalmente dato un ruolo che, a oggi, non possiede un quadro giuridico definito. Egli è vescovo emerito di Roma, come ovunque nel mondo esistono vescovi emeriti. Ma si è dato una missione nei giorni precedenti alla sua rinuncia: quella di pregare per il Papa, senza rinunciare al mondo. Inoltre, egli ritiene che il suo apporto sia del tutto specifico. Per quanto esista un’ambiguità su questo ruolo, come si vede da alcuni simboli esteriori: il fatto di indossare la talare bianca e lo zucchetto sono i più flagranti…
Un cardinale spiegava che questo ruolo è comparabile a quello di Mosè che, ritirato sulla montagna, pregava perché Giosuè riportasse la vittoria contro il suo nemico Amalek. Ora, non è Giosuè che riporta la vittoria, ma la preghiera di Mosè: una preghiera continua, dolorosa perché pronunciata nella fatica e nella sofferenza. Non è Teresa di Gesù Bambino che diceva che la preghiera genera continuamente «delle opere, delle opere…»?
A.: A leggere le cose che lei scrive, si ha l’impressione che Benedetto XVI, forse più di Giovanni Paolo II o Francesco, abbia saputo trovare delle risposte alla crisi spirituale e morale che il mondo moderno conosce. Che cosa le fa scrivere questo?
Ch.D.: Giovanni Paolo II ha risposto alla modernità del suo tempo collocando l’uomo al centro del proprio pontificato. Lo ha fatto fin dalla sua prima enciclica, la Redemptor hominis (1979). Mettere l’uomo e la sua libertà al centro era un modo di rispondere al totalitarismo sovietico. Benedetto XVI, invece, è stato posto a confrontarsi con un nuovo totalitarismo, quello del relativismo, dell’individualismo e dell’edonismo. Ma la sua opera parla tanto ai Paesi poveri e in via di sviluppo, tentati dai modelli occidentali, quanto ai Paesi occidentali stessi, dove avanza la desertificazione spirituale (per quanto questa appaia davvero universale). Ma, come spiego nel mio libro, mi sembra difficile separare il cardinal Ratzinger da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI da Papa Wojtyla. L’uno e l’altro formano un unico pontificato lungo 35 anni. Il pontificato di Francesco resta molto marcato dalle origini del pontefice argentino. Esso è assieme sociale e politico. L’uno e l’altro operano una suddivisione differente, mi sembra: la politica annoiava Benedetto XVI… egli ha desiderato di agire là dove si sentiva più a suo agio, dandosi un ruolo di docenza e collocando l’intelligenza della fede al cuore del pensiero cristiano.
A.: Al di là della polemica che ha creato con il mondo musulmano, qual è il senso profondo della lectio di Ratisbona, che lei giudica essere probabilmente uno dei suoi più profondi e brillanti, quasi “profetico”?
Ch.D.: Ratisbona pone la questione essenziale del rapporto tra fede e regione. Non è l’unico discorso su questo argomento. Il dialogo necessario riguarda insieme i Paesi musulmani e pure i Paesi occidentali, che vorrebbero fare della religione un fatto privato. Benedetto XVI stima che la religione debba partecipare al dibattito pubblico apportando una visione insieme morale ed etica dell’uomo e della società, avendo per base comune il rispetto dei comandamenti di Dio. Nel mio libro, consacro un intero capitolo a tale questione dei rapporti tra il fatto religioso e la laicità. Benedetto XVI rinnova profondamente il legame tra i due dominii adattando il discorso pontificio alle necessità dei tempi. Ma cosa non abbiamo sentito, all’indomani di Ratisbona! Eppure… dieci anni dopo e parecchie centinaia di morti più tardi, in Europa, la questione dell’islamismo si pone in modo puntuto, nel Vecchio Continente. Denunciando l’islamismo, il discorso di Benedetto XVI è stato effettivamente precursore.
A.: A fronte della scristianizzazione dell’Europa, Benedetto XVI ha sottolineato l’importanza delle “oasi di fede”. Che cosa intendeva?
Ch.D.: È quanto io chiamo “la possibilità di un’oasi”. Evocavo in quel passaggio i deserti spirituali delle società occidentali. Nondimeno, Benedetto XVI stimava che in questi deserti esistessero delle oasi di cattolicità: a cominciare da alcune famiglie, da alcune scuole, da cristiani che s’impegnavano tanto nel sociale quanto nella politica, difendendo una cultura che andasse anche controcorrente in una società senza punti di riferimento. In questo, egli comparava la situazione presente all’epoca della decadenza romana. Del resto, è per questa ragione che riteneva che i padri della Chiesa, vissuti nel declino dell’antichità classica, fossero lumi importanti per il nostro tempo. Noi pensiamo che tutto sia nuovo, mentre passiamo e ripassiamo per dei cammini sui quali i nostri antenati sono passati. Così, sant’Agostino non sarebbe stupito dalle domande poste dalle nostre società contemporanee.
Ma – per tornare alle oasi – il messaggio di Benedetto XVI mirava anche a responsabilizzare i cristiani. Egli era persuaso che la crisi venisse dal fatto che i cattolici, come lei e come me, non facessero il loro dovere – vale a dire che non rispondessero alla chiamata alla santità. Lo disse senza ambiguità, ai vescovi tedeschi, assillati dalle riforme strutturali della Chiesa. Benedetto XVI rispose loro che non erano tanto le strutture a dover cambiare, ma piuttosto i cuori e gli animi: convertirsi e diventare santi.
A.: Le novità introdotte in àmbito liturgico avevano per obiettivo unicamente la riunione dei cattolici?
Ch.D.: Non soltanto. Questa nozione di pace liturgica è chiaramente molto importante. Benedetto XVI voleva guarire le ferite aperte dalla fine degli anni ’60. Ma il Papa desiderava pure una riforma della riforma, come aveva scritto ai vescovi in seguito alla riproposizione della messa detta “di san Pio V”, che in realtà è la messa di Giovanni XXIII. La riforma della riforma punta a che il vetus ordo illumini il novus. Che gli renda una sacralità perduta nelle innovazioni liturgiche degli anni ’70 e ’80. Benedetto XVI ci ricorda che se Dio è presente nell’ostia, si tratta dell’avvenimento più importante della storia dell’umanità… Questo obbliga a una sacralità, al rispetto, e pure al silenzio della preghiera. Il cardinal Sarah è un degno erede di questo messaggio e Benedetto XVI è felice di saperlo in testa alla Congregazione per il Culto divino.
A.: Spesso si evoca il suo pontificato come “di transizione”. Per lei, invece, esso è caratterizzato da un rinnovato impulso. Non è piuttosto Papa Francesco che incarna questo rinnovamento?
Ch.D.: Alla fine del mio libro spiego che ogni pontificato possiede un’identità propria. Un vaticanista spiegava che Giovanni Paolo II era stato il Papa della visibilità della Chiesa, Benedetto XVI quello dell’identità e che Francesco sarebbe quello della maternità. Benedetto XVI ha avviato una serie di profonde riforme insieme strutturali e spirituali, dando ai cattolici in tutto il mondo un senso di fierezza nelle società secolarizzate che li irridono. Questa tappa riformatrice è essenziale. La ritroviamo nei grandi momenti della storia della Chiesa, come la riforma gregoriana nell’XI secolo. Un movimento di riforma interno che giunga a irraggiare verso l’esterno. Non c’è evangelizzazione senza questa riforma interiore che permette una riforma dell’esterno – vale a dire “dal centro verso le periferie”. La preservazione di un centro è assolutamente essenziale per l’evangelizzazione. Credere che si possa evangelizzare rinnegando ciò che siamo, come è stato fatto negli anni ’79, è un errore che non bisogna ripetere. Tutta l’opera del cardinal Ratzinger, divenuto Papa Benedetto XVI, ce lo insegna.
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]