“Possibile che accada davvero nella realtà che la mia preghiera personale (…) valga ben al di là dei miei calcoli e sia quel semplice grumo di sillabe di cui Dio ha bisogno per innescare un disegno di bene concretissimo oltre il recinto dell’io? Possibile, risponde Manzoni”.Certi percorsi mentali nascono grazie alla casualità ad orologeria della Provvidenza. La mattina avevo ricevuto una telefonata da un’associazione per collaborare a un evento sul tema della violenza sulle donne; la sera sono andata ad assistere allo spettacolo Una notte illuminata con questo ronzio in testa sulla femminilità svilita e abusata.
Il regista e attore Franco Palmieri è in scena solo con se stesso e un leggio, la musica lo accompagna mentre recita i capitoli 20, 21, 22 e 23 dei Promessi Sposi, quelli che hanno per protagonista l’Innominato. Un’ora intensa di parole, parole, parole che piovono addosso come scintille; mentre ascolto mi verrebbe da prendere appunti, poi penso: «Ma io il Manzoni non l’ho già studiato benissimo?». Mi viene in mente uno degli esami che diedi all’ultimo anno di università: la puntigliosa e severissima prof.ssa Altieri Biagi apriva a caso una pagina dei Promessi sposi e lo studente doveva elencare tutte le parole modificate nel passaggio dall’edizione del ’27 a quella del ’40 (dopo la famosa lavata dei panni in Arno). Sì, ci avevo sudato sopra e potevo ben dire di conoscere il testo a menadito. O forse no.
Sono più di vent’anni che conosco Franco Palmieri, gli devo moltissimo e so che è capace di tendere delle trappole formidabili. Al tempo dell’università a Bologna fondammo con alcuni compagni di corso una compagnia teatrale e lui fu il nostro regista e mentore. Facevo Lettere ed ero immersa nel mondo dei libri da mattina a sera, eppure fu lui a svelare il potere e il valore vertiginoso della parola. «La parola è azione che frantuma il pensiero» – c’insegnava e lo ribadisce con forza tuttora, avendo nello zaino della sua esperienza il vincolo con grandi maestri, il primo dei quali fu Giovanni Testori.
Leggere con gli occhi può essere pericoloso perché il nostro pensiero – magari sottilmente – ci fa vedere quel che vogliamo trovare nel testo e soprattutto c’impedisce di vedere molto di quello che c’è. Davvero? Davvero. Basta fare una prova: leggere un brano mentalmente e poi leggerlo ad alta voce. Tra una lettura e l’altra ci passano anni luce di comprensione, immedesimazione, stupore. La parola, quando si fa voce, accade e ha lo stesso potere deflagrante di una bomba.
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Eccomi dunque adulta e madre, dopo vent’anni dall’esperienza universitaria, di fronte a Franco Palmieri che sul palco mette in scena quella trama arcinota: l’arrivo di Lucia nel castellaccio, la notte tremenda dell’Innominato, la sua conversione nell’incontro col Cardinal Borromeo.
Eppure mi trovo di fronte a una novità, parola per parola, riga per riga. Rimango sbalordita quando sento il modo in cui Lucia affronta la notte da prigioniera nel castellaccio; è raggomitolata in un angolo al buio con la mente che rimugina su tutto l’incognito futuro che l’attende: «s’applicava dolorosamente alle circostanze dell’oscura e formidabile realtà in cui si trovava avviluppata». C’è un modo più espressivamente efficace per descrivere una persona che affronta il mistero di eventi tragici che le accadono?
Mi sono detta che trascriverò queste parole su ogni agenda degli anni a venire, perché vorrei imparare a guardare così la realtà, che senz’altro è oscura e formidabile, che chiede a chi ne è parte di non subirla ma di applicarsi dolorosamente, di esserne protagonista ferito persino quando le circostanze avviluppano, sembrano una gabbia.
Franco Palmieri me lo aveva già confessato: Manzoni è una scoperta continua, anche dopo mille letture; se si vuole trattarlo adeguatamente bisogna non smettere di scoprire cosa ha scritto. Quando mi ci sono trovata di fronte è stato bellissimo, ma anche sconcertante.
Lucia non è affatto la poverina che ci consegna il pregiudizio comune. Mentre ascoltavo la lettura è ritornato a galla il pensiero della violenza sulle donne. Mi è scappato un sorriso, pensando a quanto i classici della letteratura sono infinitamente più avanti delle ultime tendenze umanitarie. In effetti, non c’è episodio che ricalchi lo stereotipo della donna indifesa di fronte all’uomo violento più di questo in cui Lucia e l’Innominato s’incontrano, sebbene ascoltando le parole accada proprio l’opposto. Lucia non è affatto timida; ha paura, senz’altro, ma si manifesta in lei una forza tenace non interamente sua.
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Il testo ci dice che lei tiene testa a un grande signorotto violento, si rivolge a lui insistentemente, cocciutamente, quando sono faccia a faccia. Chiede conto con mille «perché» dell’ingiustizia che subisce, insiste sulla certezza che Dio perdona chi compie un atto di misericordia. Lui tentenna, promette di liberarla l’indomani e lei lo incalza, vuole che lo faccia subito; l’Innominato ascolta e risponde sulla difensiva. Sì, proprio lui, sulla difensiva! Soprattutto è lei a tenere in mano le redini della grande tempesta che segue. Non è affatto assurdo sostenere che la conversione dell’Innominato sia generata dalla violenza di due donne su uno che si credeva un grande prepotente. Più prepotente è la forza materna che benedettamente lo investe.
Non appena l’Innominato si allontana dalla stanza dove tiene imprigionata Lucia, lei inizia a pregare la Madonna. Sono parole che escono dal cuore e implorano aiuto, Lucia è molto concreta nel chiedere a Maria una grazia personale. Talmente personale che l’adempimento della preghiera sconvolge la vita di un’altra persona: Lucia chiede di essere salvata, la Madonna adempie la richiesta a modo suo – molto creativo! – cioè salvando anche un altro uomo. Quando la preghiera di Lucia termina, istantaneamente l’Innominato sente l’anima andargli in subbuglio. Lui la libererà, ma prima sarà lui ad essere liberato dalle sue tenebre intime.
Una nascita è sempre dolorosa e io, per la prima volta durante lo spettacolo, ho avuto l’impressione chiarissima che Lucia e la Madonna siano le madri che generano questa creatura nuova che fu l’Innominato. Madre e figlio soffrono durante il travaglio. E Lucia, infatti, è tormentata dalla paura proprio mentre il tormento piomba anche nel cuore dell’Innominato: nella sua stanza buia ricapitola la sua vita di violenze, contempla perfino l’ipotesi del suicidio.
Nascere è venire alla luce: l’Innominato esce dal grembo scuro della notte perché il suono delle campane lo attira ad aprire una finestra e guardare («saltò fuori da quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse ad aprire una finestra, e guardò»). Un uomo nuovo è venuto al mondo; incontra il solito mondo da persona rinata. Intanto Lucia, spossata e sfatta, si addormenta come una madre sfinita dopo le doglie.
Poco oltre, tra le braccia del cardinal Borromeo, l’Innominato piangerà forte («i suoi occhi, che dall’infanzia non conoscevan più le lacrime si gonfiarono; quando le parole furon cessate, si coprì il viso con le mani e diede in un dirotto pianto»); e non è questa la prima cosa che fa un bimbo appena nato e dato in braccio al padre?
La forza irresistibile di due donne ha fatto violenza alla forza bruta di un violento, trasformando il suo cuore. Si può generare non solo biologicamente, ma pure pregando.
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Possibile che accada davvero nella realtà che la mia preghiera personale – sgangherata e a volte parecchio egoista – valga ben al di là dei miei calcoli e sia quel semplice grumo di sillabe di cui Dio ha bisogno per innescare un disegno di bene concretissimo oltre il recinto dell’io? Possibile, risponde Manzoni.
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