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“Ho resistito perché sono stata amata”: Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, nominata senatrice a vita

Liliana Serge
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Paola Belletti - Aleteia Italia - published on 23/01/18
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Per circa quarant’anni non racconta nulla. Sopravvissuta ad indicibili orrori, si è sposata e ha avuto tre figli. Ai ragazzi chiede di scoprirsi forti e di opporsi a odio e indifferenza

“E io non capivo, me ne stavo lì, come se avessi fatto qualcosa di male, a domandarmi se tutto era cambiato per colpa mia”. (Dall’intervista di Caterina Padolini, su Repubblica, 26 giugno 2003)

Era una bambina, Liliana, quando sentì senza capire dalla voce del padre che a ottobre, (l’anno scolastico fino al 1977 iniziava il giorno di S. Remigio) non sarebbe potuta tornare a scuola. Agli ebrei da quel momento fu vietato. Era il 1938, l’anno della promulgazione delle leggi razziali. In Italia gli ebrei erano una ridotta minoranza. I Segre, famiglia ebrea agnostica, piccolo borghese, con un papà ex ufficiale della Grande Guerra in congedo (fino a che non gli ritirarono la tessera. Come ne soffrì, ricorda Liliana), così fiero di essere italiano, non sapevano che essere ebrei solo per nascita sarebbe diventato motivo necessario e sufficiente, anche se folle, per essere odiati e fatti morire.

E quello fu solo l’inizio. Ma fu allora che l’infanzia le fu strappata via come una coperta in pieno inverno e le fece sentire il gelo, destinato a crescere, dell’indifferenza, dell’abbandono e poi della ferocia più inumana.

Nei suoi racconti c’è un continuo oscillare di spirito tra ciò che è ritenuto impensabile e ciò che invece la realtà imporrà come vero. Erano già a Birkenau, nella seconda capanna: alcune deportate, più esperte di sole due settimane, raccontarono a lei, tredicenne e alle altre che l‘odore di bruciato era quello dei prigionieri arsi nei forni. Che il velo grigio sulla neve bianca sarebbero potute diventarlo pure loro, ridotte in cenere. Non ci credeva.

“(…)delle ragazze francesi che erano lì da 15 giorni ci spiegarono dove eravamo arrivate: ci spiegarono cos’era quell’odore di bruciato che permeava sul campo: è l’odore della carne bruciata, perché qui gasano e poi bruciano nei forni. Noi ci guardavamo l’una con l’altra e tra noi pensavamo che quelle erano pazze, ma che cosa stanno dicendo che qui bruciano le persone. Ci  mostrarono la ciminiera in fondo al campo dicendoci che lì bruciavano le persone e dicendoci che si chiamava crematorio. Noi non volevamo credere loro, ma poi ci spiegarono perché la neve era grigia e c’era la cenere, che eravamo diventate schiave e che per un sì o per un no potevamo andare anche noi al gas” (tratto da Testimonianza di Liliana Segre a cura di Silvia Romero, © DEP ).

La signora Liliana ora ha 87 anni e quando il Presidente Mattarella le ha telefonato per annunciarle la nomina a senatrice a vita  non ci voleva credere. Ma come è diversa questa incredulità.

Di andare a Roma ce lo aveva già in programma: il 27 gennaio è il giorno della memoria. Ma quando all’altro capo del telefono ha sentito “Buongiorno, sono Mattarella” ha risposto “aspetti che prima mi siedo”.



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Ora le hanno detto che laggiù a Roma troverà un ufficio, la segretaria… “vedremo”, conclude lei.

Dall’inizio degli anni Novanta si è data la missione di raccontare ai ragazzi la sua esperienza.

Si è fatta carico di offrire ai suoi “nipoti” la memoria di quello che è accaduto, nel cuore dell’Europa progredita, perché la generazione che vi è sopravvissuta si sta esaurendo. E lo fa senza odio e senza spirito di vendetta (anche se dice che non perdona). Ha dovuto camminare, cambiare, compiere una sorta di conversione per smettere di odiare e diventare, così lei si definisce, una donna di pace.

E quello che fa da tempo è raccontare il suo pezzo di storia pesante ma piena di grandezza e fede nella forza dell’uomo, un pezzo di storia che sembra una stoffa. Tessuta intorno ai numeri.

Man mano che le nubi si addensano, proprio come quelle descritte da Anna Frank nel suo diario, lo scorcio di azzurra normalità si restringe. E mentre molti ebrei italiani si preparano a partire, suo padre, vedovo da quando Liliana è piccina, resta a Milano. Non ci crede che in Italia faranno mai cose orribili come sente dire che succede in Germania. Non ci crede.

Si spostano in Brianza. Tenteranno la fuga in Svizzera. Ma dopo avere già festeggiato il successo di questa rocambolesca ed eroica impresa saranno respinti. Una guardia li chiamerà “ebrei impostori”. E poiché non crede che in Italia succedano quelle cose li rispedì indietro a forza, come altri 28.000 italiani.
E così quel gendarme condanna di fatto quei quattro poveretti, lei, suo padre, due cugini, alla deportazione. Circa due anni dopo lei sola tornerà, viva.

Saranno dapprima reclusi nel carcere di Varese, poi di Como e infine a San Vittore, a Milano. Era felice lì, pur piangendo per molte ore, perché stava con suo papà.

Quando le chiedono cosa l’abbia tenuta in vita in mezzo a quello che ha attraversato dice senza esitare che è stato l’amore. Mica quello ideale, ma quello di suo papà, (quanto lo amava anche lei!) e dei suoi nonni, soprattutto.

«Mi domando sempre come ha fatto quella ragazzina a salvarsi. Mi rivedo con la testa rapata, i piedi piagati dalla marcia della morte…».
«S’è data una risposta?»
«L’amore. Sono stata così tanto amata, dai nonni, da mio papà, un santo perdente. Un amore che mi
serve anche adesso, che è come una pelle fantastica che ripara da tutti i mali del mondo. E ho
ritrovato l’amore con mio marito». ( Corriere della Sera, 20 gennaio 2018)

Dopo S. Vittore, con l’ultimo tocco di umanità vera– quella dei detenuti che li salutano, li benedicono, lanciano loro guanti, arance, di tutto, e che vogliono rassicurarli –  salirà su un treno spinta a calci con altri 604 ebrei che erano con lei nella lista. Un lugubre appello al quale avevano dovuto rispondere, senza sapere, ma temendo. Partono da Milano Centrale, binario 21.

Il viaggio, e mi dispiace della familiarità cinematografica che abbiamo forse in molti sviluppato rispetto alle deportazioni, deve essere stato più che un anticipo di inferno. Ma lei ricorderà che da lì in avanti non ci sarà più nessuno a chiamarla “amore”, “tesoro”… Da allora basta. E da quel momento finisce anche lo scambio di sguardi, di silenzio (quanto si erano detti nel silenzio del treno lei e il papà, capendo che sarebbero andati a morire), di amore tra lei e suo padre. Le mani si staccano: le donne da una parte, gli uomini dall’altra. Sarà stata quella l’ultima volta. Il padre viene portato subito alla fucilazione.

75190 è il numero tatuato sul suo braccio sinistro.

Necessaria tappa della riduzione a cose delle persone, ora nemesi potente: “questo numero sono io, mi ci identifico”, spiega con una tale forza!

Lo porta con onore perché è una vergogna incancellabile per chi lo ha fatto. A lei viene in mente la relativamente recente ordinanza del Sindaco di far tatuare i cani, così se li perdiamo… Ecco, loro, bambine, donne, uomini, bambini: come bestie, anzi peggio.



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Chi è sopravvissuto ad Auschwitz non lo dimentica. E così è un bene che quel numero sia inciso sulla pelle: manifesta una verità interiore.

Nella testimonianza che ha rilasciato per la rivista telematica Deportate, esuli, profughe a pag 159 n. 2 / 2005 dice:

«Come si fa a vivere in queste condizioni? Sopportare tutto questo? Perché l’uomo è fortissimo e questo io l’ho sperimentato. Io ero una ragazzina di 13 anni, non avevo nessuna particolarità,  semmai ero una ragazzina viziata, cresciuta in una famiglia che aveva fatto in modo di preservarmi da tutti i problemi della vita; la forza che c’è in ognuno di noi è grandissima, ed è di questa che noi  dobbiamo far tesoro. Tutti i ragazzi devono credere in questa forza, perché se loro crederanno di avere questa grandissima forza psichica più che fisica, allora non diranno male di nessuno, della famiglia, della scuola, della società se non riescono a fare qualcosa. Ognuno di noi è un mondo e se si impegna può assolutamente fare della sua vita o un capolavoro o anche una piccola vita normale che se sarà onesta e per bene sarà comunque un capolavoro. Noi abbiamo scelto la vita (…)»


POPE STEFAN WYSWYNSKI
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Impossibile non sentire l’eco delle parole del Santo Giovanni Paolo II. Alla Signora Liliana faceva venire in mente il caro nonno, quando gli vedeva tremare la mano.

Lei si definisce una nonna dei ragazzi che ogni anno la vanno ad ascoltare in teatro; a loro si impegna a raccontare la sua storia. Anche per quella bambina, lei stessa, si sente nonna. E si guarda, ora, con incredulità (di nuovo!) e struggimento. Come ho fatto?

Si sente una persona normale finalmente; e per lei il profilo di questa normalità ha lo skyline della Terra Promessa perduta e ritrovata.



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Per questo, riferisce all’ANSA il 19 gennaio appena scorso di “non potersi dare altra importanza che quella di essere un araldo, una persona che racconta ciò di cui è stata testimone”

 

 

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