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«Perché Dio non distrugge il diavolo?». Risponde (anzi, no) il profeta Giona

Giona e il pesce, affresco del monastero di San Nicholas Anapausas, Meteora (Grecia)

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Giovanni Marcotullio - Aleteia Italia - published on 06/02/18
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Una lettrice ci riporta una domanda di un adolescente, che per ventura si rivela molto simile a quella che regge tutto il libro sul “profeta riluttante”. In realtà certe domande “devote” sembrano venire proprio dal re dell’inferno – ma la buona notizia è che sappiamo come venirne fuori.

Tra le tante belle questioni teologiche che riceviamo in redazione ce n’era una che si legava sorprendentemente a un libro che in quegli stessi giorni ricevevo da leggere. La domanda suonava così: «Vorrei avere una risposta a una domanda fattami da un adolescente, sul perché Dio che è onnipotente non ha distrutto Lucifero fin dall’inizio».

La questione è così ben posta ed esposta che implica più di quanto dichiari: infatti la relativa “che è onnipotente” si riferisce apertamente alla prerogativa divina dell’onnipotenza. La precisazione temporale “fin dall’inizio”, tuttavia, allude all’altra grande prerogativa della divinità come è concepita dalla teologia giudaico-cristiana almeno dall’epoca intertestamentaria – l’onniscienza (di cui la prescienza è chiaramente un addentellato: poiché Dio sa tutto, egli conosce ogni cosa da sempre, e quindi anche prima che accada). Il fatto che un qualsivoglia male resista a queste due condizioni, come sappiamo bene, chiama in ballo altri due attributi divini, ancora più essenziali delle prerogative di onniscienza e onnipotenza: si tratta della giustizia e della bontà.

Se Dio è giusto e buono…

Vale a dire: se Dio è buono, e se Dio è giusto, perché ha permesso che Lucifero esistesse? Il sottotesto – appena richiamato dall’adolescente che ha interpellato la nostra lettrice – è profondamente vincolato all’onniscienza divina. L’Eterno doveva infatti necessariamente sapere che – come disse Paolo VI in una memorabile catechesi del 1972

Il male non è più soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore. Terribile realtà. Misteriosa e paurosa.

Non sarebbe stato “più buono”, Dio, a non lasciar sussistere questa presenza? Non sarebbe stato al contempo “più giusto”, nel non lasciarlo sussistere, nel non lasciare che insistesse nel deturpare il suo bel progetto?

La parola alla Parola

Domanda delle domande, che al contempo ne implica cento altre. E tuttavia possiamo rilevare due cose: la prima è che la maggior parte delle volte che consideriamo la bontà e la giustizia di Dio il tentatore ci invita a considerarle in opposizione, e non in giustapposizione come in questo specifico caso; la seconda è che no, Dio non sarebbe stato né più giusto né più buono, nel non lasciar esistere quell’«essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore», quella “terribile realtà” “misteriosa e paurosa”. Fin dalla riflessione postesilica gli agiografi i cui scritti sarebbero confluiti nella Scrittura giudaico-cristiana si sono posti il problema, e ad esempio nel libro della Sapienza (molto più recente, e accolto appieno solo nei canoni della Chiesa cattolica e di quelle orientali separate da Roma) si legge:

Per i ragionamenti insensati della loro ingiustizia,
da essi ingannati, venerarono
rettili senza ragione e vili bestiole.

Tu inviasti loro in castigo
una massa di animali senza ragione,
perché capissero che con quelle stesse cose
per cui uno pecca, con esse è poi castigato.

Certo, non aveva difficoltà la tua mano onnipotente,
che aveva creato il mondo da una materia senza forma,
a mandare loro una moltitudine di orsi e leoni feroci
o belve ignote, create apposta, piene di furore,
o sbuffanti un alito infuocato
o esalanti vapori pestiferi
o folgoranti con le terribili scintille degli occhi,
bestie di cui non solo l’assalto poteva sterminarli,
ma annientarli anche l’aspetto terrificante.

Anche senza questo potevano soccombere con un soffio,
perseguitati dalla giustizia
e dispersi dallo spirito della tua potenza.

Ma tu hai tutto disposto con misura, calcolo e peso.
Prevalere con la forza ti è sempre possibile;
chi potrà opporsi al potere del tuo braccio?

Tutto il mondo davanti a te, come polvere sulla bilancia,
come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra.

Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi,
non guardi ai peccati degli uomini,
in vista del pentimento.

Poiché tu ami tutte le cose esistenti
e nulla disprezzi di quanto hai creato;
se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata.

Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi?
O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza?
Tu risparmi tutte le cose,
perché tutte son tue, Signore, amante della vita.

Sap 11, 15-26

L’autore (probabilmente un giudeo della diaspora alessandrina, un uomo di fine cultura ellenistica) espone rapidamente diversi temi tutti collegati, e poi stabilisce un teorema:

  1. qualunque cosa o persona Dio abbia creato è oggetto del Suo pensiero amoroso;
  2. e viceversa – ossia – quanto non fosse stato oggetto di tale pensiero amoroso neppure sarebbe stato creato.

Dunque l’agiografo risponde con questa nettezza alla (comprensibile e sensata) domanda dell’adolescente che ha interpellato la nostra lettrice: Lucifero (la Bibbia greca dei Settanta usa prevalentemente il termine “il diavolo”, che traduce l’ebraico “satana” – e che non significa, in senso stretto, “il divisore”, bensì “l’avversario”) è da sempre e per sempre oggetto del pensiero amante di Dio. Proprio questo – e che altro sennò? – costituisce l’inferno.

Molti teologi (spesso solo imbrattacarte, ma talvolta anche autori con tutti i crismi) hanno cercato di ricucire l’indicibile scandalo di una simile verità affermando che la dannazione consisterebbe nell’annientamento delle persone che non giungano “alla consapevolezza”. Dunque mentre già nel linguaggio costoro tradiscono spesso una genealogia intellettuale che deriva dalla peggiore gnosi, nelle implicazioni teoretiche essi trasformano il paradiso in un insopportabile inferno proprio nel tentativo di occultare l’inferno vero, quello eterno come l’amore di Dio.

JESUS PURGATORY

Giovanna60 | Wikipedia ( CC BY-SA 3.0 )

Che voglio dire, e soprattutto – penso alla nostra lettrice – come potremmo spiegarlo a un adolescente? Torno con la mente a grandi autori medievali, quali Giovanni Scoto Eriugena e altri, che risolvevano l’apparente antinomia affermando che Dio è come un immenso ed eterno fiume, nel quale i beati nuotano e giocano e i dannati affogano. Oppure – adattando la metafora al vissuto del giovane interlocutore – direi che Dio sia come il sole di una caldissima e interminabile estate, il “luogo” di una vacanza infinita. Ebbene, c’è un tempo per prepararsi al sole di luglio, e quel tempo si chiama “primavera”: se un tizio uscisse per la prima volta di casa sua in pieno luglio e non potesse più tornare sotto alcun riparo (perché arriva un momento in cui non ci si può più sottrarre all’amore di Dio), costui rimedierebbe una terribile ustione che potrà solo peggiorare di istante in istante, esponendo una pelle sempre più debole e bruciata a un sole implacabile che sarà avvertito sempre più straziante e intollerabile. Frattanto, sotto quel medesimo sole, quanti saranno usciti per tempo ad abbronzarsi da aprile a giugno, godranno del suo gagliardo tepore, tra un bagno e l’altro in compagnia, con un’estasi estetica che non avrà mai fine.

Mi si passi la metafora balneare, ma forse l’adolescente comprenderà meglio (e magari anche qualche adulto). In realtà ciò che emerge dalle “teologie” di quanti vanno in una crisi insolubile al pensiero dell’inferno è che ai loro autori sfuggono insieme sia la giustizia sia la misericordia di Dio (ed è per questo che il più delle volte, anche su problemi “minori”, si trovano a contrapporle fra loro). Diceva Paolo VI in quello stesso giorno del 1972:

Esce dal quadro dell’insegnamento biblico ed ecclesiastico chi si rifiuta di riconoscerla esistente [l’esistenza del diavolo, con annessi e connessi, N.d.R.]; ovvero chi ne fa un principio a sé stante, non avente essa pure, come ogni creatura, origine da Dio; oppure la spiega come una pseudo-realtà, una personificazione concettuale e fantastica delle cause ignote dei nostri malanni. Il problema del male, visto nella sua complessità, e nella sua assurdità rispetto alla nostra unilaterale razionalità, diventa ossessionante.

Un’analogia si trova facilmente nelle disgraziate (e fin troppo diffuse) ideologie che vogliono spacciare per “libertà di scelta” e per “compassione” la possibilità di uccidere un bambino sotto al cuore della madre o quella di spegnere la vita di un malato. Una proposta realmente umana sarebbe in entrambi questi casi la prossimità, la proposta di alternative, l’accoglienza di tutti i soggetti (Love them both!Amali tutti e due! – recita uno slogan di Live Action): ogni volta, invece, che gli uomini cercano di costruire “paradisi facili e a portata di mano” – che sia inventando il pelagianesimo o legalizzando l’aborto… – in realtà spalancano la gola di un inferno che neppure può giustificarsi come un effetto necessario dell’amore di Dio, il quale lascia le proprie creature libere di odiarlo e dichiarargli guerra. Lo penso ogni volta che leggo certe teologie senza inferno: i loro autori saranno pure teologi, forse, ma di sicuro (almeno in certa misura) sono atei.

Il libro di due amici

E con questo abbiamo tentato di rispondere alla bruciante domanda dell’adolescente che la nostra lettrice ci ha riportato. Quanti mi hanno seguito fino a questo punto, però, si ricorderanno ancora che parlai nell’incipit di una certa assonanza con un libro ricevuto e letto proprio in questi giorni. Devo dire che nel parlarne mi sento un po’ come san Girolamo che dedica a Papa Damaso le due inarrivabili omelie di Origene sul Cantico dei Cantici, e capisco benissimo che qualche lettore storca il naso all’annunciarsi dell’iperbole. Del resto è vero: nessuno di voi, con ogni probabilità, è Papa Damaso, neppure io sono san Girolamo e molto meno don Fabio Bartoli e Sabina Nicolini sono reincarnazioni del grande Alessandrino che per la sua tempra indomita meritò di essere chiamato “Adamantios” – l’uomo d’acciaio. Il disertore, però, cioè il loro libretto su Giona, è davvero qualcosa che mi ha smosso le viscere nel profondo.

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Se mi chiedete “perché?” debbo rispondere che ci sono molti motivi che neppure saprei elencare per filo e per segno, ma nel complesso – e tornando all’iperbole del paragrafo superiore – direi che veramente ho sentito risuonare nelle loro pagine non le parole di Origene e di Girolamo, ma quello stesso e medesimo Spirito che vibrò forte nelle vite di entrambi.

Lectio divina sul libro di Giona”, leggete sulla copertina, e già non è detto che tutti sappiate chi fu Giona e cosa narra il libro sulla sua vicenda. Quelli che invece lo sanno potranno dire, in buona parte: «Ah, sì, la storiella su Ninive e Tarsis, il pesce che lo mangia tipo Pinocchio… carino, sì». Ma don Fabio Rosini, in una prefazione che varrebbe da sola l’acquisto del libro, scrive:

I nostri autori prendono per mano il lettore e gli fanno scoprire che la favoletta di Giona è tutt’altro che un raccontino qualsiasi. Sotto le mentite spoglie di una fiaba, si cela una rivelazione inaudita del cuore di Dio. Nientemeno.

[…]

Caso più unico che raro nella Bibbia, il libro termina con una domanda, e la domanda è preparata da tutto il racconto.

Fabio Rosini, Prefazione in Fabio Bartoli e Sabina Nicolini, Il disertore, 8

La domanda finale del libro – che non citerò per non guastare la riscoperta (o la riscoperta) della storia – assomiglia abbastanza a quella dell’adolescente, e si può facilmente dire che quella di Giona sia a modo suo un’adolescenza spirituale protratta nonostante la correttezza delle conoscenze teologiche. Ma «non conta il molto sapere – direbbe sant’Ignazio – bensì il sentire e gustare le cose interiormente». In questo le domande sono assai più importanti delle risposte, e don Rosini lo spiega da par suo:

Infatti per esperienza sappiamo che la Sapienza è nascosta più nelle domande che nelle risposte. Trovare una risposta è un bel lavoro, ma scovare una domanda che valga la pena di essere posta, è atto molto saggio e difficile. Una domanda azzeccata può dar senso a una vita intera. E una domanda sbagliata può storcere disastrosamente la curva dell’esistenza umana.

Una domanda è la prima parola di Cristo ai primi discepoli nel Vangelo di Giovanni (Gv 1, 38), e iniziando con una domanda il serpente attira l’umanità dentro i suoi tragici inganni (Gen 3, 1).

Possiamo pensare infatti che ogni vera “direzione spirituale” aiuta a scoprire a quale domanda si sta consegnando la propria vita.

Ivi, 8-9

Per me personalmente è impossibile dimenticare che gli autori, Don Fabio e Sabina, sono anzitutto due cari amici: sono sicurissimo che con ciò il mio giudizio non risulti viziato – peraltro, è veramente difficile distinguere le pagine scritte dall’uno da quelle scritte dall’altra! –; in questo loro bellissimo lavoro, al contrario, li ho riscoperti e sono tornato a innamorarmi di loro come l’Uomo Vivo di Chesterton s’innamora di tutta la sua vita, ogni giorno, quasi la vedesse per la prima volta. Perché ci ho ritrovato le mie stesse domande, che sono le loro ma anche quelle dell’adolescente riportate dalla nostra lettrice, la quale se n’è implicitamente appropriata. È veramente la domanda, prima di tutto, a stabilire nessi di fraternità tra gli uomini.

Così nella vicenda di Giona – che don Fabio e Sabina suddividono “operisticamente” in un preludio e in due atti divisi da un intermezzo – è ravvisabile la stessa dicotomia che dicevamo noi sopra: quella tra giustizia e misericordia. Che a parole il buon teologo riconosce essere coincidenti ma che sovente egli stesso – all’atto pratico – vive come opposte ed esclusive.

Tra suggestioni molteplici e citazioni eclettiche (Renato Zero splende accanto a Silvano l’Atonita), don Fabio e Sabina ri-pongono il tema della domanda dell’adolescente in una forma che ci trova meno convinti in un abbozzo di risposta: sembrava sensato, anzi “logico”, affermare che un Dio veramente giusto e buono avrebbe fatto meglio a togliere di mezzo tutti i potenziali dissidenti; ma come si fa a concordare col riluttante profeta quando questi litiga con Dio per il suo cuore ricco di misericordia? Non risponde forse, la misericordia, a una domanda radicale del cuore umano? E cosa si perde, dunque, col negarla – o col farne un teorema (che è lo stesso)?

«Ma cos’è la destra? Cos’è la sinistra?»

Diciamo “il Vangelo”, per brevità. Ma anche “il cristianesimo”, nella sua accezione più larga e più piena: svuotata dell’intima unione di giustizia e di misericordia, di compassione, di bontà, di grazia e di libertà, la fede di/in Cristo diventa una qualunque ideologia condita di “valori cristiani”.

Quali siano codesti valori dipende largamente dalle singole sensibilità, come si vede: ci sono quelli “di destra”, che prediligono la vita e la famiglia, e quelli “di sinistra”, che preferiscono gli immigrati e i carcerati. Ma ecco, il libro di Giona polverizza certe artefatte categorie come una lavagna viene pulita passando il cancellino da destra a sinistra e poi ancora a destra. In effetti, a ben pensarci (ed è una delle poche cose che non ho ritrovato nel testo), si può trovare anche suggestivo che nella sua fase di ribellione Giona fugga verso Tarsis (ossia all’estremo Occidente, insomma “a sinistra”), e che nella fase da rigorista castigamatti il profeta attraversi Ninive (l’estremo baluardo dell’Oriente limitrofo all’antico Israele, insomma “a destra”) fermandosi poi “a est della città” – cioè ancora più “a destra”, dove Dio non gli aveva neppure detto di andare.

E se “a sinistra” Giona era stato sopraffatto dal rude sconvolgimento degli elementi (un elemento che simbolicamente piace ai cristiani “di destra”), “a destra” a sopraffarlo è stata la delicatezza di Dio che fa crescere piantine e usa la loro morte per parlare lievemente al cuore duro del profeta (ai cristiani “di sinistra” piace tanto questo Dio giuggioloso…). Ebbene il vero Dio, il solo, non è alcuno di questi due, ovvero è l’uno e l’altro insieme:

Giona non è mandato a fare un’amabile chiacchierata con i Niniviti, la sua non è una missione diplomatica, non deve cercare il dialogo, egli deve proclamare, letteralmente “gridare”, il loro peccato.

Fabio Bartoli e Sabina Nicolini, Il disertore, 30

E ancora:

Nel nostro rapporto con la Grande Città spesso siamo timidi, vorremmo cercare il dialogo, abbiamo paura di suscitare reazioni forti, ma nessun dialogo può essere autentico se non partendo dalla verità, dall’annuncio di quella parola che scruta l’uomo nel profondo e, sola, lo può giudicare. Non spetta a noi la condanna, e infatti Giona non è inviato a condannare, ma a noi spetta il dovere della verità, il compito di chiamare le cose con il loro nome: il male è male e ci separa da Dio.

Ivi, 31

A questo proposito, ma più avanti nel libro, don Fabio e Sabina hanno ricordato che

nelle omelie di Santa Marta, papa Francesco ha parlato […] della “sindrome di Giona”, intendendo stigmatizzare appunto l’atteggiamento di coloro che dicono: «La dottrina è questa, si deve credere questo. Se loro sono peccatori, si arrangino», in altre parole di quei cristiani che difendono lodevolmente la purezza della dottrina ma non hanno a cuore la conversione dei peccatori.

Ninive è qui, è la città dove l’uomo è ridotto a merce, dove viene abortito un bambino ogni sei minuti, dove astuti mercanti di carne umana trattano la vita di donne costrette alla schiavitù della prostituzione, dove i neonati sono comprati e venduti senza ritegno, dove l’anima dei poveri è comprata per denaro e i giovani sono costretti a un precariato degradante e servile, dove ogni tipo di droga avvelena le menti e i cuori, mentre nel frattempo nelle redazioni dei giornali la Chiesa è dileggiata e vilipesa e nelle aule parlamentari si approvano leggi che accelerano il declino…

Ivi, 72

Come emerge in modo lampante dall’elenco dei mali di Ninive, la Grande Città (che è pure il nome di Babilonia, nell’Apocalisse!) è sufficientemente larga da ospitare insieme i fantasmi della “destra” e quelli della “sinistra”, mentre lo spazio di Dio, che si estende ben oltre il pur vasto arco teso tra Tarsis e Ninive.

In realtà – spiegano i due amici verso la fine dell’agile libro – il solo modo per evitare l’assurdo filosofico di un Dio relativista è ammettere che fin dall’inizio la minaccia del castigo è finalizzata al perdono, convincersi che il Dio che minaccia castighi è un tutt’uno con il Dio che perdona, e l’annuncio della giustizia porta già in sé l’annuncio del perdono, poiché Dio ha un gran gusto a perdonare; come scrive sant’Ambrogio nel mirabile finale dell’Hexameron, si riposa perdonando.

Ivi, 91

E come si vede qui torniamo alla metafora balneare dell’escatologia cristiana, che poi (se nessuno vorrà fraintendermi) è grosso modo il motivo per cui Michelangelo rappresentò proprio Giona in corrispondenza di Cristo sull’imponente parete del giudizio universale nella Sistina: Dio non è una banale sintesi idealista di dialettiche contrapposte. Non basta essere “un po’ di sinistra” e “un po’ di destra” per corrispondere a Dio: anzi è proprio la relazione con il Dio di Giona (che è Gesù Cristo, anche se il profeta «lo vede ma come da lontano» – cf. Num 24, 17) a rendere l’uomo irriducibile a certe ideologiche e mortifere categorie. “Strani e normali” è come si diventa quando si ha a che fare con questo Dio che se la ride di un eventuale universo totalitario:

Se fossimo solo diversi e particolari, la nostra diversità verrebbe vista come una forma di pazzia, una particolarità bizzarra forse perfino da ammirare, ma sconsigliabile da imitare. Se viceversa fossimo solo normali, perfettamente a nostro agio nel mondo, non avremmo nulla di interessante da dire, nulla che il mondo non abbia già sentito, e non saremmo punti interrogativi e stimolanti per chi ci incontra. Gesù invece provocava un’infinità di domande nei suoi contemporanei, che, nonostante la sua apparenza normale, percepivano in lui un mistero, e anche i suoi discepoli seppero scuotere, con la loro vita, le intelligenze degli umili e dei sapienti.

Di fronte a una vita capace di donarsi con gioia fino alla morte persino le antiche filosofie ammutolirono.

Ivi, 77

Ecco “il segno di Giona”, ovvero quel segno che – stando a Gesù – è «l’unico che sarà dato a questa generazione» (cf. Mt 12, 39). La domanda dell’adolescente è in realtà molto simile alla domanda di Giona, ed è suggerita in fondo dallo stesso teologo che per primo ha pensato un universo senza inferno, un universo senza dissensi – cioè Satana. Tutt’altra è la via di Gesù, cioè del grande pesce che percorre il mare tempestoso e fa entrare ogni Giona della storia in una dinamica sacrificale, nella quale il male non è (più) un argomento di oziosa conversazione, dal momento che non è (più) possibile ravvisarlo anzitutto fuori di noi.

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Giona nella Cappella Sistina (col pesce accanto), gli occhi rivolti in alto: Cristo lo sovrasta.

Alla nostra lettrice, al suo adolescente e a tutti noi potrebbe mirabilmente cor-rispondere il libro di don Fabio e di Sabina, che di cuore ringrazio per essere stati tanto chiara voce dello Spirito.

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