Un uomo in terapia ormonale femminilizzante dal 2011, dopo avere concepito un figlio con la compagna, ora che è nato lo vuole allattare, perché la madre biologica, invece, non ne ha desiderio. E ci riesce, per sole 6 settimane
“(ANSA) – ROMA, 15 FEB – Con una terapia ormonale specifica un la trans, in terapia femminilizzante da diversi anni, è riuscita ad allattare il figlio avuto dalla compagna. “
Così si legge sul sito dell’Ansa. Mi ha confortato (solo!) il refuso scappato al redattore: “un la trans”.
Perché, signore, signori, abbandonando con coraggio che forse può parere insensibilità, questo folle galateo imposto che prevede l’uso di certi termini e lo slalom per evitarne ossessivamente altri bisogna dare alla realtà il nome che le spetta, pena la deformazione grottesca e violenta non solo della lingua ma della stessa realtà.
(Sapete che, per ora nei soli paesi anglosassoni, stanno prendendo piede protocolli interni per gli staff medici e paramedici perché abbandonino l’espressione discriminante “allattamento al seno” per il più inclusivo “allattamento al petto?”, vedi Dailymail. E a denunciare questo sopruso nei confronti delle donne e delle differenze biologiche in U.K è stata proprio un’attivista femminista, lesbica dichiarata, Julie Bindel. Accusata con ferocia inspiegabile di odio transfobico! (Vedi The Guardian)
Se questa persona è padre del figlio avuto dalla compagna significa che è un uomo, maschio, dotato di apparato riproduttivo maschile.
Se ora può allattare significa invece che è successo qualcosa di possibile per mezzo di una sgraziatissima ingerenza della tecnica che crede ormai assodato il sinonimo possibile-lecito. Oppure ha rimosso del tutto il problema della liceità e dei confini etici della propria azione.
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Ma torniamo alla notizia: questo signore, che viene chiamato al femminile, si è recato presso una clinica newyorkese specializzata in un approccio multidisciplinare e compassionevole (si legge nel sito) nei confronti della comunità transgender: il Center for Transgender Medicine and Surgery del Mount Sinai Hospital di New York. (Vedi Ansa.it) per avanzare una richiesta specifica. Il trentenne, ci riferiscono, aveva già intrapreso dal 2011 una terapia femminilizzante per, cito, “un’incongruenza di genere” che era emersa pare chiaramente” dalla storia medica del paziente”. (Ibidem)
Per quale motivo si rivolge a questa clinica? Perché la compagna non voleva allattare, dichiara lui stesso.
Ecco che lo staff medico, in forza di questa dichiarazione, procede con “il protocollo per la ‘lattazione indotta non puerperale'”. Lo stesso “che si usa anche per le donne per stimolare la produzione di latte.” Dopo tre mesi, grazie alla somministrazione di ormoni e alla stimolazione prodotta dall’uso del tiralatte ecco che il padre del bambino è in grado di produrre una quantità sufficiente di latte per questo piccolo innocente. Per sole sei settimane.
Gli esiti, non neghiamolo, sono mostruosi anche se per tacito accordo e diffusa paura nessuno, sui media più noti, picchi duro sul tema. La notizia gira nelle categorie “scienze”, “medicina”.
E non solo sulla rivista nella quale ce la si possa aspettare, la Transgeder Health che se lo appunta come successo, ma anche sulla pagina di Skytg24.
Mentre i fatti sono che i desideri disturbati di due persone adulte sono stati assunti come criterio insindacabile per dare seguito, con una risposta tecnicale (non me la sento di dire medica senza dover trascinare la percezione della professione verso i suoi connotati più negativi. E non lo merita!) a ciò che avrebbero tanto voluto fare e la natura, ingiusta, stava loro negando.
Nessuna considerazione invece per i bisogni oggettivi del neonato, se non sullo sfondo magari (le donne allattano i loro neonati io che donna lo sto diventando voglio allattare il bambino della mia donna che è già tale ma non intende allattarlo, potrebbe essere stato questo l’argomentare del signore in questione). Che qualità avrà mai avuto questo latte? E il seno di un uomo sottoposto a stimolazione ormonale da sette anni come sarà stato?
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E per il piccolo, cosa avrà significato sentirsi rifiutato dal seno della madre biologica? E vivere inserito in un contesto così alterato cosa significherà per il suo sviluppo? Per la sua vita?
Non hanno i medici ancora e sempre il grave compito di negare ciò che non è per il bene delle persone? Non avrebbero dovuto, anziché assecondare questi desideri e usarli come trampolino per un’altra assurda acrobazia, convincere i pazienti che non era bene per nessuno e soprattutto per il più indifeso rendere possibile la produzione di latte da ghiandole mammarie maschili?
Sono tante e drammatiche le domande; e occorre ora più che mai il coraggio di farsele.