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Il papà di Alfie non molla: è figlio mio, ma prima è figlio di Dio

ALFIE EVANS
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Annalisa Teggi - Aleteia - published on 16/04/18
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Attesa per oggi la sentenza sulla possibilità di trasferire Alfie al Bambin Gesù di Roma; stiamo saldi accanto a questa famiglia esemplare

«Sono consapevole che la morte di mio figlio è una possibilità reale e forse non è molto lontana. So che il Paradiso lo sta aspettando poiché non riesco a immaginare quale tipo di peccati possa aver commesso quell’anima innocente, inchiodata al suo letto come a una croce» (da La bussola quotidiana)  lo scrive Thomas, papà del piccolo Alfie Evans, all’Arcivescovo di Liverpool, Malcolm Patrick McMahon. Un padre scrive a un padre spirituale, chiedendo sostegno, benedizione per un figlio malato che è prima di tutto figlio di Dio.


Alfie Evans e o pai Thomas
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Scrive papà Thomas, dorme poco, parla deciso e tranquillo alle telecamere, fa di tutto per trasferire suo figlio in Italia; Thomas Evans è un tipo decisamente pericoloso agli occhi dell’ordine pubblico da quando la paternità lo ha cambiato. Ha solo 21 anni e il giudice, quello che ha dichiarato inutile la vita di Alfie, sostiene sia un ragazzino: «I genitori e in particolare il signor Evans non sanno affrontare la realtà e continuano a sperare in una soluzione del tutto irrealistica».

Quanti guai in meno avrebbero oggi la legge e la sanità dell’Inghilterra, se due diciottenni avessero davvero fatto gli immaturi, scegliendo di abortire anziché tenere il piccolo Alfie! Non è questo che si dice ai giovani di solito: «È troppo presto, dovete ancora trovare la vostra strada!»? Una decina di anni dopo, vedendoli senza arte né parte, puntiamo loro il dito contro etichettandoli come bamboccioni.

In queste ore di attesa – si attende per oggi la sentenza sulla possibilità di trasferire in Italia il piccolo Alfie – stiamo a guardare una famiglia ferita nel corpo e nell’anima che ha molto da insegnarci, la freschezza della gioventù è segnata dalla prostrazione della sofferenza, eppure trapela una forza dura, non violenta, ma quella essenziale delle mani strette strette che non mollano la presa.


Alfie e seu pai Tom Evans
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Kate e Thomas si sono fidanzati a sedici anni, provengono entrambi da famiglie numerose: lei seconda di quattro figli, lui ottavo di nove. Alfie è arrivato all’improvviso, ma non c’è stato dubbio che fosse un dono.
«Eravamo giovani quando è nato, messi di fronte alla più grande responsabilità che la vita ti può chiedere. Quindi ci siamo sentiti benedetti, incoraggiati e curiosi di vedere come saremmo cambiati. Questo cambiamento ci ha fatto maturare» racconta Thomas alla giornalista Benedetta Frigerio.

Nel ripercorrere le tappe che hanno portato Alfie prima in ospedale poi fino alla sentenza di morte che ora gli pesa addosso, è un uomo onesto e riconosce a Kate la testardaggine dell’intuito materno: lei, che ha studiato da parrucchiera, ha capito fin da subito la gravità degli episodi convulsivi del bimbo, ha insistito con l’ospedale per fare accertamenti, non si è lasciata convincere dai vari diversivi.
A quel punto Thomas si è lasciato guidare dallo sguardo deciso di Kate, e ora si lascia guidare anche dal piccolo Alfie.
«Alfie ci sta guidando in questo modo. Chiunque ha il diritto di vivere, e abbiamo la libertà di muoverci. Abbiamo il diritto di lasciare il paese, abbiamo il diritto di vivere. Siamo figli di Dio. È semplice, nessun medico o giudice può giocare a fare Dio» (da Avvenire) lo ha dichiarato sabato scorso dopo aver tentato invano di far uscire suo figlio dall’Alder Hey Hospital per trasferirlo a Roma, dove l’Ospedale Bambin Gesù ha manifestato piena disponibilità ad accoglierlo.


Alfie Evans e o pai Thomas
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È il padre in prima linea, scudo, parafulmine e combattente. Si prende le accuse, cerca interlocutori, escogita soluzioni; in sintesi: cura suo figlio. A soli 21, Thomas era già padre appieno, poi è diventato competente di questioni sanitarie lontane mille miglia dai suoi sogni di genitore felice, ora si destreggia di fronte ai giornalisti senza sfacciataggine e senza timore: dice quel che deve dire. E poi aspetta, pregando.

Tra i mille duecento milioni di motivi per cui la vita di Alfie è preziosa (cioè ha un suo compito intoccabile come quella di ogni essere umano)  c’è pure questo piccolo nota bene per tutti noi: vedere all’opera una famiglia nella sua unità. Non c’è il figlio che soffre, la madre disperata e il padre colonna portante. Non ci sono ruoli isolati; c’è un’unità umana inscindibile, che manifesta la sua presenza secondo la natura che le è propria: custodirsi a vicenda.
«Io rimango calmo e devo rimanere sano di mente per il bene di Alfie. E lo farò fino alla fine. La polizia è lì e deve stare a guardarmi cambiare il pannolino, fargli le coccole».
Restiamo saldi accanto a questa famiglia, preghiamo che il discernimento degli uomini guardi la luce che promana dal bene che un uomo, una donna, un bimbo sono per il mondo intero.

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