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Tenere in vita Alfie Evans è accanimento terapeutico?

Padre Gabriele Brusco e Alfie Evans
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Gelsomino Del Guercio - Aleteia Italia - pubblicato il 27/04/18
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Chi vuole tenere in vita Alfie è oggi contestato da chi sostiene che sia inutile protrarne l’agonia. Ma la vita non è mai “inutile”. Vi spieghiamo perché 

Chi oggi si batte per non far morire Alfie Evans sostiene un inutile accanimento terapeutico? Hanno ragione coloro che ripetono: “lasciamolo stare quel bambino, tanto non ha senso tenerlo in vita”?

Aleteia ha chiesto di rispondere a questa domanda a Padre Maurizio Faggioni, autorevole bioeticista dell’Accademia Alfonsiana e membro del Comitato Etico dell’ospedale “Bambin Gesù”, la struttura ospedaliera di Roma che si era offerta di ospitare il piccolo Alfie.

“Non esistono terapie…”

Padre Faggioni premette: «Per le notizie che sappiamo, questo bambino ha una grave malattia degenerativa non diagnosticata con precisione e per la quale non esistono terapie. Ha problemi respiratori, cerebrali, i suoi organi vitali sono compromessi. Francamente non esistono, attualmente, terapie per garantirne la sopravvivenza. Alfie va verso la morte».



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Corsa verso la morte

A Liverpool, la città dove è ricoverato, i pediatri dell’ospedale, supportati dalle decisioni dei giudici, «sostengono che la cosa migliore è non proseguire con i sostegni vitali. In questo modo – sottolinea Faggioni – determinano una morte naturale anticipata: accelerano questo processo, senza accompagnare Alfie verso il “trapasso”».

La dignità del “trapasso”

Accompagnare il bambino verso la morte, precisa il bioeticista, non significa «praticare terapie eroiche, ma monitorare i parametri vitali con terapie proporzionate al quadro clinico, utilizzando anche cure palliative che portino Alfie verso la morte naturale. In questo caso, quindi, non si può parlare di accanimento terapeutico!».



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Un abisso culturale

Il problema del caso Alfie è culturale.

«In Inghilterra si sta affrontando la questione con superficialità. Si ragiona così – osserva Faggioni – “questo bambino deve morire, tanto vale muoia subito”. Ma la nostra idea della vita è completamente diversa».

(Guardate con quale facilità la dott.ssa Matilde Leonardi riesce a spiegare in 3 minuti perché non si tratta di accanimento terapeutico)

“Rispettare finchè non si spegne…”

Se oggi l’opinione pubblica nel nostro Paese è così scossa dal caso di Alfie è «perché da noi la volontà dei genitori e la volontà della medicina, si muovono su una linea diversa dalla cultura anglosassone. Da noi vige questo principio: “rispettare l’esistenza finchè non si spegne” e rispettare significa accompagnare e non spingere verso la morte. Questo fa la differenza culturale e anche la natura dello scontro».


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La vita non è mai “inutile”

Il giudice che ha condannato Alfie, non a caso, sostiene il bioeticista, ha utilizzato l’espressione poco felice di “vita inutile”. «Lui agisce, opera, con una visione completamente diversa dalla nostra. Ma la vita non è mai inutile – ammonisce Faggioni – è la terapia che può essere inutile, la vita è sempre degna!»

“Non abbiamo imposizioni”

In quel contesto, ciò che perde completamente rilievo è il ruolo della famiglia del malato. I genitori di Alfie sono «irrilevanti». «In Italia non esiste che un medico decida per il paziente, ignorando la volontà del paziente stesso o della famiglia. Non ci sono imposizioni».


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La tracheotomia

Infine, conclude Faggioni, questa lontananza culturale, fa sì che anche un intervento come la tracheotomia, si metta al centro di infinite e sterili polemiche. «Sarebbe un intervento palliativo, lo farebbe stare meglio in questo processo verso lo “spegnersi”. Fare polemiche anche su questo è la dimostrazione dell’assurda piega che ha ormai preso questa vicenda».

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