Œconomicæ et pecuniariæ quæstiones. Ecco un testo importante, inedito nella lunga storia della Dottrina sociale della Chiesa. Le questioni finanziarie sono state già abbordate dal magistero della Chiesa, ma in modo succinto. Questa volta abbiamo a che fare con un testo impegnativo consacrato a quest’unico argomento. Evochiamone i punti più rimarchevoli.
Fondamenti
Il testo poggia sui fondamenti della Dottrina sociale. Nella prospettiva di una civiltà dell’amore, la Chiesa propone un’idea dell’uomo e una prospettiva etico dal valore universale e che il non credente può perfettamente riconoscere e assumere. Due dei suoi temi essenziali sono l’importanza centrale dell’etica e il bisogno di regolazione. Quest’ultimo risulta da un duplice limite dei mercati: debbono organizzarsi autonomamente, donde le crisi, e debbono offrire un risultato eticamente soddisfacente. L’etica in questione, da parte sua, si fonda su un’antropologia opposta alla visione dominante, individualista e strumentale: l’essere umano come essere di relazioni. L’economia è allora reinserita nel tessuto delle relazioni umane, di cui essa non è se non un aspetto, e viene subordinata al pieno sviluppo delle persone nelle loro relazioni e nelle loro comunità. Ignorare ciò è fonte di ineguaglianze e, peggio ancora, di esclusione (la cultura dello scarto che Papa Francesco sottolinea).
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E questo porta il testo a sottolineare l’importanza della responsabilità sociale dell’impresa. Troppo spesso, in effetti, si tende a percepire l’etica come estrinseca, e l’impresa come al servizio dei soli azionisti. Questo conduce – osserva il testo – a incoraggiare per via remunerativa i collaboratori avidi e poco scrupolosi, nonché ad eccessive assunzioni di rischio. Al contrario, il testo ha l’ardire di ricordare la possibilità di un circolo virtuoso tra il profitto e la solidarietà.
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Ma – continua – la crisi è stata un’occasione perduta sul piano etico, perché le dominanti attuali non sono state rimesse in causa. Per questo invita a un profondo rinnovamento dello sguardo.
Questioni concrete
Però non è il mercato in quanto tale a essere messo in discussione. Il testo ricorda che i mercati sono fondati sulla libertà umana, e ne deduce che perciò essi sono sottoposti all’etica. Il mercato va visto come un grande organismo, la cui salute dipende da quella delle singole azioni messe in opera. Ma al contempo, da loro stessi i mercati non possono produrre le qualità umane ed etiche di cui hanno bisogno, né possono correggere i loro effetti nocivi (sul piano ambientale, sociale e via dicendo). Il testo sottolinea l’utilità dei mercati finanziari, ma anche gli effetti nocivi della “speculazione” che allontana dall’economia reale, a detrimento soprattutto del lavoro. Ciò può spingersi fino all’utilizzo di rapporti di forza per produrre dei guadagni ingiustificabili. Viene addotto l’esempio della speculazione che «provoca un abbassamento artificiale del prezzo di titoli pubblici, senza preoccuparsi del fatto che così si influenza negativamente sulla situazione economia dell’intero Paese (o la si aggrava)».
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Donde il bisogno imperativo – oltre che dell’etica di quanti sono coinvolti – di una regolazione dei mercati: non si tratta di andare contro il loro ruolo naturale, ma di assicurare il loro buon funzionamento. Trasparenza, eliminazione degli squilibri ingiusti, equilibrio degli scambi. Gli spazi di vuoto giuridico e istituzionale sono propizi non soltanto alle “incognite morali”, ma alle bolle di speculazione e alle crisi. E si citano il caso della frode sul Libero, così come pure la banca-ombra: sfuggendo alle regolamentazioni, essa permette ogni sorta di speculazione rischiosa e di rapina.
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Trattandosi di prodotti, il testo sottolinea l’ineguaglianza di potenza e di competenza tra il sistema finanziario e i clienti, aggravato dalla complessità di certi prodotti. Esso elenca in particolare i difetti etici che possono affettare i broker e le imprese che gestiscono capitali azionari. E conclude con l’esigenza di introdurre una «omologazione da parte delle autorità pubbliche di tutti i prodotti provenienti dall’innovazione finanziaria, al fine di preservare la salute del sistema e di prevenire gli effetti collaterali negativi». Ciò vale soprattutto per le derive: il testo stigmatizza l’immoralità dei CDS “nudi”, perché permettono di speculare sui fallimenti altrui.
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In tema di debito pubblico, esso sottolinea che questo si deve in parte agli errori del passato, ma che risulta anche (e senza dubbio soprattutto) da cattiva gestione e – dice – «è oggi uno dei più grandi ostacoli al buon funzionamento e alla crescita delle differenti economie nazionali». Bisogna dunque ridurlo mediante politiche adeguate, ma anche per decurtazione diretta, quando i creditori possono supportare la perdita. Occorre però dire che questo punto è in pratica non operativo nel caso di enormi debiti pubblici di Paesi sviluppati.
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Il testo sottolinea poi l’importanza dell’internaziolalizzazione, e che un coordinamento stabile ed efficace, eventualmente coercitivo, tra le autorità di regolazione. Risulta particolarmente fermo sulle transazioni offshore: occasione di sottrazione su grande scala di risorse, e dunque causa di impoverimento reale, esse sfuggono con ipocrisia ad ogni regola etica e permettono il riciclaggio di denaro sporco. Il documento raccomanda un’azione energica: una tassa (senza dubbio utopistica) sulle transazioni offshore «per risolvere il problema della fame»; e sopratutto azioni più ferme per ottenere una vera trasparenza ed esercitare sanzioni.
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Il testo si conclude infine insistendo sul ruolo di ciascuno nell’offerta e nella domanda di beni, come consumatori e come investitori. Si tratta in particolare di orientare la gestione dei risparmi personali «verso imprese che funzionano secondo criterî chiari, ispirati ad un’edita rispettosa di tutto l’uomo e di tutti gli uomini, sull’orizzonte della responsabilità sociale».
Apprezzamento
In complesso, un testo incisivo ma piuttosto equilibrato, radicato nella Dottrina sociale e fondato sull’analisi delle realtà con buona attenzione al dettaglio. Non piacerà agli adepti della teoria del mercato efficiente, né a quelli del relativismo morale. E tuttavia non rimette assolutamente in questione l’economia decentralizzata alla base dei mercati; al contrario, punta proprio a liberarla da una concezione erronea che può nuocere al suo stesso funzionamento, perché la strappa al contesto sociale e umano che – solo – può conferirle il suo senso.
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Su questo piano il testo corrisponde a un bisogno, che anzi soddisfa largamente. Ciò non significa che pretenda di dire l’ultima parola. Alcuni punti si sarebbero potuti sviluppare meglio, specialmente quanto ai gravi rischi che comporta il demenziale indebitamento delle nostre economie, nonché la virtù ben più grande dell’investimento in azioni (capitale).
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Al momento però conviene soprattutto seguirlo e metterlo in pratica. Ciò vale anzitutto nel settore dell’investimento, che il testo evoca alla fine: la questione dello sviluppo di una vera industria della gestione socialmente responsabile – ma più ricchi dell’ISR ufficiale e orientata secondo la Dottrina sociale – è ormai ufficialmente posta. Ma questo vale anche per i mediatori finanziari (e per quanto del loro lavoro si riflette sui prodotti e sulle pratiche); nonché per i responsabili pubblici. Sottolineerei qui in particolare il dilemma posto dal contrasto tra l’internazionalizzazione dei mercati e il livello nazionale di regolazione, che il testo evoca ma senza inoltrarsi quanto avremmo auspicato. Perché – se una regolazione internazionale dotata di potere sembra fuori portata – si può forse continuare indefinitamente con movimenti di capitale totalmente liberi, che nessuno può controllare e che possono aggirare le buone regolamentazioni o degli onorevoli ma poco concorrenziali scrupoli etici?
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[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]