Scrisse storie intrise di incubi e fantastico, da giornalista seguì i casi più violenti di cronaca nera e poi, da ultimo, mise tutto questo “impossibile” umano in mano a Santa Rita, parlando dei suoi miracoli
«Assurdo sì – disse coprendosi la faccia con le mani – però accadono nel mondo questi miracoli dell’amore». (da Suicidio al parco)
Dino Buzzati visse di realtà e d’immaginazione, come è sano che sia. Nessun uomo mentalmente equilibrato può essere un mero realista; un vero innamorato del mondo deve includere la categoria dell’imprevisto, del mistero, dell’imprevedibile per essere onesto con il suo sentire umano. Il poeta Eugenio Montale, che trascorse la vita a interrogare il mondo alla ricerca di un varco eterno, non poteva ritrarre con parole migliori il collega Buzzati, all’indomani della sua morte:
Tutta la realtà, la vita stessa, gli oggetti erano per lui segnali dell’altrove, erano una porta che un giorno avrebbe potuto aprirsi. E Dino poteva tranquillamente ostinarsi a bussare. E così fu per lunghi anni. (Corriere della Sera, 29 gennaio 1972)
Ricordiamo Dino Buzzati, tra molto altro, per i suoi racconti de La boutique del mistero e lo ricordiamo come giornalista di cronaca nera proprio per il Corriere. E non c’è tutta questa distanza tra il fantastico e la vita quotidiana, se per fantastico intendiamo la chiave d’accesso per esplorare una parte di noi che non è classificabile, misurabile, toccabile, eppure c’è: l’incubo, la follia, il desiderio. L’immaginazione è quella facoltà umana che permette di conoscere l’altra metà del reale, cioè l’intimo:
Le storie che si scriveranno, i quadri che dipingeranno, le musiche che si comporranno, le stolte pazze e incomprensibili cose che tu dici, saranno pur sempre la punta massima dell’uomo, la sua autentica bandiera […] quelle idiozie che tu dici saranno ancora la cosa che più ci distingue dalle bestie, non importa se supremamente inutili, forse anzi proprio per questo. Più ancora dell’atomica, dello sputinik, dei razzi intersiderali. E il giorno in cui quelle idiozie non si faranno più, gli uomini saranno diventati dei nudi miserabili vermi come ai tempi delle caverne. (da Il mago)
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Scrivere storie, fare il giornalista sono forme per nulla lontane dalla preghiera, se dietro c’è un uomo che osservando i fatti e sondando i misteri della gente si chiede che senso ha il mondo. Nel caso di Buzzati, il suo confronto col divino è fatto a carte scoperte: è Dio il vertice dell’immaginazione, è Lui quello che certamente esiste se un’anima lo cerca.
–Dio che non esisti ti prego
che almeno su questa grande nave
che mi porta via
le cabine siano … siano ben areate
– Ma se non esiste perché lo preghi?
– Non esiste fintantoché io non ci credo
finché continuo a vivere
come viviamo tutti
desiderando, desiderando
ma se io lo chiamo …
– Troppo tardi …
– Per la forza terribile
dell’anima mia, forse vile, trascurabile in sè,
però anima nella piena portata del termine,
se lo chiamo verrà.
(da Diario di Belluno)
Questa sua vita impegnata a raccontare cronaca e immaginazione è arrivata ad un punto nodale: la malattia (un tumore al pancreas) lo ha ucciso all’età di soli 66 anni eppure la sua predisposizione umana all’incontro, a una storia che non finisce, era aperta. Racconta Lorenzo Viganò:
Alle quattro e venti del pomeriggio, nella stanza 201 della clinica Madonnina, dove era entrato all’inizio di dicembre, Dino Buzzati si spegne. Aveva 66 anni. Alla mattina di quell’ultimo giorno, dopo aver chiesto alla giovane moglie Almerina di fargli la barba perché la morte lo trovasse in ordine, aveva detto: «È strano, non arriverò a sera, eppure se il direttore mi chiedesse un articolo glielo farei» (da Corriere.it) .
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Chissà poi che grande storia ha incontrato, una volta chiusi gli occhi sulla sua finestra terrena. L’ultima opera su cui aveva speso energie e creatività lo aveva portato a guardare l’esistenza da un pertugio strano, quello che dal mistero si apre al miracolo. A Santa Rita è dedicata l’ultima raccolta di disegni e racconti a cui Buzzati lavorò: è un testo in cui, come da sua cifra stilistica, la realtà incontra la fantasia e tutto parte da casa sua.
Ho scoperto l’esistenza di questo suo libro, I miracoli di Val Morel, in modo ironico, su una guida alpina intitolata 101 cose da fare sulle Dolomiti almeno una volta nella vita, in cui si suggerisce di percorrere la via crucis di Buzzati alla ricerca di Santa Rita. Il Sentiero di Buzzati esiste e lo metterò senz’altro tra le esperienze da vivere: originario di Belluno, viveva affacciato sui monti e sui boschi.
Ne I miracoli di Val Morel immaginò di incontrare un personaggio straordinario di nome Toni della Santa, quasi un angelo, che gli consegna un quaderno zeppo di racconti di pellegrini che hanno chiesto e ricevuto una grazia a Santa Rita presso un fantomatico santuario della Valmorel. Sulla scorta di quest’incontro, il narratore si mette alla ricerca del santuario insieme ai nipoti, ma non lo trova e non trova più nessuna traccia di Toni della Santa, nessuno lo conosce. Sembra che sia tutta una fantasia, eppure il quaderno con i disegni degli ex voto è nelle sue mani.
A partire da questa cornice suggestiva, la raccolta propone una serie di storie e di disegni dedicati a Santa Rita: miracoli apocrifi, popolati da balene volanti, serpentoni dei mari, gatti vulcanici, robot, marziani; miracoli «impossibili» e fantastici, che l’immaginazione di Buzzati colloca tra il 1500 e la prima metà del 1900 soprattutto nelle zone del Bellunese.
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Non c’è da stupirsi che questa Santa, invocata appunto per i casi impossibili, abbia suscitato l’interesse di uno scrittore innamorato di misteri stranissimi eppure umanissimi.
Forse, tra questi racconti, quello che resta quasi come un giudizio profetico sul nostro tempo ha per protagonista il signor Angelo Dal Pont afflitto dalle formiche mentali, cioè da paranoie assurde che tormentano il suo cervello con domande inquietanti tipo:
«Lo sai che non esisti? E, se esisti, esisti male?»
Solo Santa Rita guarirà il signor Dal Pont dalla sua afflizione e, guarito, egli ritornerà a fare il suo mestiere di tipografo: «accudendo serenamente al lavoro, alla famiglia e al culto di Dio».
Non c’è miracolo più grande di questo: poter tornare sani e salvi da un incubo, amare con serenità l’opera quotidiana.