I figli vengono spesso invischiati nel conflitto dei genitori che si separano con il rischio di diventare vittime di abusi emotivi e di conseguenze più o meno gravi sullo sviluppo della personalitàCrescono purtroppo nella nostra società, e ne sentiamo parlare anche dai giornali e dalla televisione, i casi in cui i figli si trovano ad essere vittime di situazioni di conflitto tra i genitori.
È frequente nelle coppie che si separano lo sviluppo di una tensione altissima che si riversa sui minori, tirati per la giacchetta e costretti a schierarsi a favore della madre o del padre. Sul numero di maggio/giugno della rivista Psicologia Contemporanea è apparso un interessante articolo sul fenomeno della Parental Alienation Syndrome a firma di Santo Di Nuovo, docente di Psicologia giuridica presso l’Università di Catania, e presidente dell’Associazione Italiana di Psicologia.
Che cos’è la Parental Alienation Syndrome?
Si tratta, spiega l’autore, della pressione indebita che viene fatta su soggetti minori che può arrivare a configurare quella che lo psicologo americano Richard Gardner ha descritto oltre trenta anni fa come Sindrome da alienazione parentale (PAS).
Quali elementi la caratterizzano?
Gli elementi che la contraddistinguerebbero sono rappresentati dall’indottrinamento, spesso non consapevole, del figlio da parte di uno dei genitori (più spesso la madre) che stimola nel minore sentimenti e atteggiamenti negativi ai danni dell’altro, e l’adesione assoluta, intimamente creduta e fatta propria, del bambino o dell’adolescente nei confronti di questa percezione che penalizza fortemente il suo rapporto con il genitore “alienato”, fino a distruggerlo nei casi più gravi, lasciando così sul terreno dello scontro un soggetto vulnerabile a motivo dell’età affettivamente orfano di una delle sue due radici.
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La PSA esiste o no?
Affidando agli studiosi del settore l’interrogativo non ancora risolto circa l’opportunità di questa etichetta diagnostica, dobbiamo prendere atto, afferma il professor Di Nuovo, di come la PAS rappresenti l’estremo grado – fortunatamente meno osservato di quanto avvocati e psicologi tendono a riscontrare – di una condizione frequente nelle battaglie all’ultimo sangue che intercorrono nelle coppie in separazione conflittuale in cui i figli, oltre a diventare terreno di contesa ai fini dell’affidamento, vengono condizionati a porsi a favore dell’uno o dell’altro genitore.
Non volendo entrare negli aspetti del doloroso e complesso contenzioso giuridico che spesso si attiva in questi casi, ci dobbiamo chiedere quale risposta positiva, riequilibratrice di un sistema familiare in così grave sofferenza, sia concretamente attivabile.
La mediazione
In questa ottica l’intervento più diffuso è quello della mediazione, da intendersi come un tentativo di “ricucitura” del tessuto familiare stimolato dalla figura terza e neutrale di uno psicologo. Questo non semplice sforzo ha possibilità di successo, afferma l’autore, a patto che l’iniziativa sia volontariamente accettata dalle parti, e non solo decretata dal giudice della eventuale controversia in atto, al fine di migliorare il funzionamento della famiglia coinvolta a beneficio di tutti i suoi componenti. Vari e specifici programmi implementati e che si sono affermati nel mondo anglosassone sono stati importati nel nostro Paese, tutti finalizzati a far raggiungere alla coppia un nuovo equilibrio in vista di un futuro di cogenitorialità nell’interesse primario ed esclusivo dei minori, che – nonostante la fine anche burrascosa del sodalizio coniugale – restano geneticamente, affettivamente e socialmente per sempre figli di entrambi.
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Un aiuto spirituale
Oltre al supporto di uno psicologo, l’aiuto spirituale di un sacerdote per le coppie credenti, rappresenta sicuramente un valido sostegno per affrontare nel modo migliore il conflitto genitoriale il cui inasprirsi danneggia l’identità, anche religiosa, dei figli e il loro sano sviluppo emotivo.