Francis è cresciuto come guerriero del suo villaggio, poi ha incontrato la fede cattolica. Ecco l’avventura del prete che per sposarlo si è inoltrato nella splendida e terribile savana del Kenyadi Gabriele Foti (in missione a Nairobi dal 2010)
Francis è un caro amico. L’ho incontrato quattro anni fa a Eldoret, una cittadina a otto ore di macchina sulla strada che da Nairobi porta in Uganda, dove c’era una piccola comunità di universitari di Cl, che visitavo più volte all’anno. Lui era fra questi ragazzi e a poco a poco era emerso nel gruppo per la sua serietà, tanto da diventare un punto di riferimento. Ci sentivamo molto spesso anche per telefono; parecchie volte è stato ospite della nostra casa di preti.
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Vita da guerriero
Sin da quando ci siamo conosciuti, sono rimasto affascinato dalla fede e dalla profondità di questo ragazzo, nato e cresciuto nei villaggi del territorio samburu. Come molte altre tribù del Kenya, i Samburu sono pastori, vivono in zone aride dove non è possibile coltivare e mantengono ancora le tradizioni ancestrali. Ogni villaggio è circondato da pianure sconfinate, che possono essere grandi anche come Milano. Nonostante tutto il territorio sia di proprietà del villaggio, solo una piccolissima parte è abitata. I centri abitativi, detti Manyatta, sono formati da poche misere capanne dove vivono il capo famiglia e le sue due-tre-quattro mogli (ognuna nella sua capanna personale) con i figli. Non c’è acqua e non c’è elettricità, il bagno è la savana.
Appena i figli maschi compiono dodici anni, vengono allontanati dalle famiglie e vivono nella savana praticamente allo stato selvaggio, per usare un eufemismo, curando le greggi della famiglia. Quando questi ragazzi cresceranno diventeranno Morans, i guerrieri del villaggio, indispensabili per difendere il gregge e nelle diatribe con altri villaggi e tribù. Girano sempre armati di pugnali e lance e il loro massimo onore consiste nell’uccidere un leone con le poche armi a disposizione. Chiaramente, solo pochissimi di loro vanno a scuola (l’educazione scolastica è ferma al 12%, quando va bene). La maggior parte delle donne vive nei villaggi e non riceve alcuna educazione, segno della considerazione molto bassa che la mentalità samburu riserva loro.
Il mio amico Francis ha vissuto nelle capanne fino a sedici anni e porta sul viso i segni tribali: due denti della mandibola inferiore spezzati, segno di raggiunta maturità, le orecchie tagliuzzate, un po’ come si fa con gli animali, vari solchi sul viso, simbolo della sua appartenenza ai Samburu. Per farlo studiare, il padre ha dovuto litigare con suo padre (il nonno di Francis) che voleva diventasse un Moran. Da quando ha sedici anni, quindi, Francis ha lasciato il villaggio ed è andato prima in un collegio e poi all’università, dove ha incontrato un mondo completamente diverso: acqua corrente, luce, scuola. I suoi genitori sono cattolici (i missionari sono arrivati lì negli anni ’60 e sono riusciti a convertire una minoranza della popolazione).
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In cerca di un amico nella savana
L’amicizia con lui è nata a poco a poco, abbiamo avuto modo di condividere tante esperienze e molto tempo per raccontarci di noi. È comunque un miracolo che due persone provenienti da ambienti e tradizioni così diversi possano diventare veri amici. Credo che ciò che ha permesso questa amicizia sia stato soprattutto il desiderio di Francis di vivere e condividere con me la sua fede cristiana. Dopo l’università, ci siamo un po’ persi di vista. Lui è ritornato in Samburu Land, dove è amministratore di un villaggio, cioè rappresentante dello Stato nel villaggio, anche se vive in una cittadina. Ho poi saputo che aveva avuto una bimba dalla fidanzata e che vivevano insieme.
Abbiamo poi ricominciato a sentirci più frequentemente. Ho cercato di convincerlo a considerare la possibilità di celebrare il matrimonio religioso, e non solo quello tradizionale, essendo anche la fidanzata cattolica, educata in scuole cattoliche. Sono stati necessari parecchi mesi per mettere insieme tutte le mucche che il padre della ragazza aveva chiesto per il matrimonio. Finalmente è stata fissata una data, il 16 dicembre. Abbiamo fatto tutti i passi insieme e lui mi ha chiesto di celebrare il matrimonio nella Manyatta della fidanzata, localizzata fra Maralal e Wamba, a circa 400 km da Nairobi: otto ore di viaggio, quattro di strada asfaltata e quattro di strada sterrata e savana. Ho invitato altri amici che conoscevano Francis e ci siamo attrezzati a passare tre giorni in un villaggio senza acqua né elettricità, con standard igienici molto differenti da quelli di Nairobi. Abbiamo portato delle tende, sacchi a pelo, torce, acqua potabile e quanto necessario per la trasferta. Francis ci ha procurato una guida, un amico suo che ci ha condotto al villaggio. Non capita tutti i giorni di passare qualche giornata nella savana, senza nessuna struttura turistica a disposizione.
La natura è realmente impressionante per la sua vastità, per i mille colori e i rumori. Il cielo è letteralmente coperto di stelle, senza alcuno spazio libero. Sembra che cadano sulla terra, per quante sono. Abbiamo conosciuto il capo Manyatta, il padre della fidanzata Monica, e poi tutta la famiglia. Alla sera, alla luce delle stelle, ci sono state le splendide danze dei Morans (per l’occasione giungono dai villaggi vicini, fanno a gara a chi salta più in alto per farsi vedere dalle ragazze), dal ritmo intenso e travolgente.
Un sì per sempre
Ho potuto parlare con gli sposi solo da mezzanotte alle due del mattino, per preparare la messa del giorno dopo. Alla fine, siamo andati a letto a stomaco vuoto, perché la dieta dei Samburu prevede una tazza di tè al mattino e una alla sera, con un pasto più consistente a pranzo. Alla mattina del giorno seguente, alle sei, c’è stato il matrimonio tradizionale che consiste nell’uccisione di un toro da parte dello sposo come dono per il padre della sposa. Solo alle 12, con tre ore di ritardo, siamo riusciti a fare il matrimonio religioso e a battezzare la figlia. Poche persone erano presenti, perché i Morans vanno ai matrimoni solo per le danze notturne e di giorno dormono.
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Dopo la messa in kiswahili, con la predica tradotta in samburu dal catechista locale, abbiamo avuto ancora danze molto belle degli sposi e degli amici, per finire con il taglio della torta. Dopo un pasto nuziale frugale, abbiamo assistito ad altre danze dei Morans. Infine, abbiamo acceso un fuoco intorno alle tende e abbiamo chiacchierato con alcuni giovani della Manyatta. Abbiamo parlato di amicizia, di politica, di poligamia e monogamia. Noi di Nairobi insistevamo sul fatto che la monogamia trova le sue ragioni nel valore unico di ogni donna.
Loro sorridevano e ci dicevano che potevano anche essere d’accordo, ma che, in fondo, è il capo villaggio che decide: se dice che loro devono sposare un’altra donna, non possono tirarsi indietro. Il giorno seguente abbiamo celebrato una messa di ringraziamento e poi siamo tornati a Nairobi, contenti di esserci immersi in questo mondo così lontano da tutto quello che viviamo.
Abbiamo portato con noi, oltre alla fame, i volti e le domande esistenziali di tante persone, che certamente desiderano sapere di più a proposito del significato della loro vita.