La cultura Bantu si confronta col tema della morte in un modo che sfiora la rivelazione cristiana: storia di un amore felice, benedetto nell’ultimo respiro di vitadi Padre Umberto Davoli
Nella cultura africana tutta la realtà, nelle sue più svariate forme ed espressioni, è prepotentemente intrisa di energia vitale, eppure la morte sembra essere l’evento più importante nella vita d’ogni gruppo sociale, clan o tribù che sia. Si può anzi dire che una comunità venga giudicata proprio dalla sua capacità di vivere la morte, assorbendola e superandola fino a renderla occasione di crescita in coesione e vitalità.
I miti che spiegano l’ingresso della morte nel mondo, ne sottolineano la contingenza. Che sia stata la donna a scegliere il fagotto più attraente – e mortale! – invece di accontentarsi di quello più dimesso della vita, oppure l’uomo a preferire di divenire mortale pur di ottenere il privilegio di generare figli simili a sé (come già aveva fatto la tartaruga – a differenza della pietra, che aveva preferito restare sterile pur di essere immortale) non fa troppa differenza: la morte è pur sempre il frutto di una letale, libera scelta umana. Essa non era prevista dal progetto originario del Creatore, né dovrebbe avere alcun diritto di cittadinanza nella comunità umana.
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Per questo i Bantu sono convinti che la morte naturale, in realtà, non dovrebbe esistere… anzi, non esiste affatto! La morte è assurda! E’ sempre causata da qualcosa di ignobile che ha infranto l’armonia con la natura, il clan e gli antenati: qualcuno è venuto meno ai patti; qualcuno ha tradito. (Un’intuizione che sfiora i contenuti della rivelazione: il peccato è all’origine della morte nel mondo).
Dal momento che l’odio ha avuto il sopravvento, tutti debbono sentirsi impegnati nel ristabilire l’armonia infranta: è necessario scoprire e punire il colpevole, esorcizzare la morte, rabbonire gli antenati e risarcire la natura offesa, affinché il cosmo intero venga rappacificato e si riaffermi la vita.
Per questo i pianti estenuati delle donne si prolungano fino all’alba, mentre lo stregone offre sacrifici e chiede agli spiriti dei defunti di rivelare il nome del responsabile del fattaccio. Intanto un’agape collettiva, scandita da abbondanti libagioni rituali, si premura di rammendare la solidarietà e la pace del clan… E’ tutto un complesso rituale di riconciliazione sociale e cosmica, per estirpare il peccato che ha causato la tragedia, affinché la vita – unica realtà naturale prevista per il progetto umano – ritorni a regnare.
Il messaggio che ne emerge è chiaro: la morte è solamente un incidente di percorso che mai potrà avere l’ultima parola. Essa è, sì, il nemico sempre in agguato che deve essere costantemente esorcizzato, ma può infliggere soltanto sconfitte apparenti e transitorie… e la vera saggezza non deve mai fermarsi alle apparenze! Proprio come momenti esaltanti di vita possono celare la morte in agguato, così il trionfo apparente della morte non è che un sipario fittizio, che ci nasconde il definitivo riaffermarsi della vita, unico traguardo del nostro cammino esistenziale.
Sono queste intuizioni sorprendenti che danno all’africano il coraggio di smitizzare la morte individuale (inclusa la propria) e di affrontarla serenamente. Forse anche per questo il messaggio cristiano di salvezza è stato accettato con tanta naturalezza dai popoli Bantu, contribuendo a rafforzare il già innato senso di fondamentale e incondizionata speranza che illumina anche i loro momenti più tragici e dolorosi.
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La vecchietta ansiosa mi incitava “Spicciati, o mi muore senza sacramenti; non voglio rischiare di non trovarlo nel Regno della luce!”
Durante il breve tragitto verso la sua capannuccia mi spiegò che da tanto avrebbero voluto regolare il matrimonio, ma una serie di coincidenze sfortunate l’aveva loro impedito. Nonostante le sue gambette malferme, allungava il passo borbottando invocazioni e giaculatorie alla Vergine santa, per assicurarsi di trovarlo ancora in vita. Trovammo il vecchietto raggomitolato sul pagliericcio, rantolante.
Mi misi veloce la stola e, spinto dalle esortazioni della vecchia, ascoltai la confessione del malato, poi procedetti subito al rito: “Tenetevi per mano mentre benedico il vostro amore”. . . Mi sentivo un po’ buffo mentre chiedevo ai due sposini stagionati (cinquant’anni di convivenza), ‘Katongo, vuoi la qui presente Kanfonokera in tua legittima consorte? Giuri di amarla…”
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Terminato il rito mi fermai a parlottare col vecchio, che nonostante parlasse a fatica, si rivelò un arguto interlocutore. “Sono felice di essere arrivato in tempo, ma ti assicuro che anche senza questa benedizione, Dio non ti avrebbe rifiutato l’ingresso nel suo Regno di gioia”.
Il vecchio alzò il volto tirato e sofferente, così illuminato dai suoi occhietti penetranti: “Lo sapevo anch’io, ma lei era troppo angosciata: non volevo lasciarla così, con la sua pena! So bene che Dio non condanna chi vorrebbe pagare i suoi debiti e non ce la fa…” Poi si voltò verso la sua donna in lacrime, con un sorriso rasserenante: “Ma che piangi? Te l’ho sempre detto che la vita è come il ‘cisungu’ (l’iniziazione sessuale): la vera luna di miele viene solo dopo la morte!”
… Benedetta saggezza dei semplici! Come potrebbe un Dio che è infinito Amore essere sconfitto da un rito mancato o bloccarsi di fronte a una mera questione d’anagrafe?