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La malattia può essere un dono ma non un regalo

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Piovono Miracoli 2.0 - published on 28/09/18
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La malattia di mio figlio mi ha ricondotto alla croce di Gesù e per chi crede quella croce non è la fine ma la salvezzadi Stefano Bataloni

Di recente, non ricordo dove e da chi (sono un paio di giorni che mi interrogo in proposito senza esito), ho ascoltato una bella catechesi (o omelia, non ricordo nemmeno questo!), probabilmente sulla Parabola dei Talenti (Mt 25, 14-30), in cui si illustrava molto bene quale differenza passa tra un regalo e un dono.

Un regalo, diceva la persona, è qualcosa che ci viene dato, in una circostanza particolare, come premio, come riconoscenza per qualcosa che si è fatto. Molto spesso è qualcosa di tangibile.

Si regalano libri, abiti, gioielli, viaggi, denaro… a volte si regala del tempo agli altri.

Un regalo è gratuito, non chiede niente in cambio. Un regalo è qualcosa che, una volta ricevuto, ci appartiene, ne possiamo fare ciò che vogliamo, possiamo cederlo.

Un dono, invece, è qualcosa che si riceve e non è legato ad una circostanza particolare, non è legato a qualcosa che abbiamo fatto ma più che altro ci viene dato perché siamo “qualcuno”. Un dono, molto spesso, è intangibile.

Un dono ci viene dato gratuitamente, è vero, ma in fondo chiede qualcosa in cambio. Un dono non ci appartiene del tutto e non possiamo cederlo. Un dono è anche qualcosa che non possiamo sprecare, un dono è qualcosa che dobbiamo mettere a frutto.

La vita è un dono, un figlio è un dono, tua moglie o tuo marito è un dono. La tua intelligenza è un dono, la tua bellezza è un dono. La fede è un dono.

E la malattia, può essere un dono? Di certo non può essere considerato un regalo.


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Non è raro sentire storie di persone che colpite da una malattia o da una disabilità sono felici di vivere così come sono. Alcuni, addirittura, pur potendo essere sanati, scelgono di rimanere nella condizione in cui si trovano perché… hanno ricevuto qualcosa di importante, assieme alla malattia, qualcosa di cui ora non possono più fare a meno.

Vorrei chiarire subito: non considero il cercare di proposito la sofferenza un’azione propria della natura umana. La paura e la repulsione per la morte e per il dolore, credo invece, siano alla base della nostra sopravvivenza, anzi, di più, del progresso umano. Il corpo e la mente sono un dono a loro volta e li abbiamo ricevuti affinché portino frutto: è quindi più che dovuto preservarli o curarli da malattie e disabilità.

Eppure, come sappiamo bene, nella straordinaria realtà della natura umana vi sono infinite possibilità di portare frutto pur avendo un corpo menomato. Illustrissimi scienziati hanno dato un contributo fondamentale al progresso umano stando su una carrozzella, magari non potendo parlare che attraverso un computer; avrebbero avuto lo stesso successo senza la loro malattia? Chi può dirlo?



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Per me, la malattia di Filippo, mio figlio, è stata un’occasione, forse la più importante della mia vita, per spogliarmi delle false convinzioni di cui mi ero vestito.

Se la nascita di Filippo mi ha fatto scoprire un amore di cui non credevo fossi capace, un amore che superava ogni mia forza, la sua malattia mi ha dato l’opportunità di comprendere che esiste un Amore ancora più grande di quello che provavo per lui, un Amore che supera i limiti di questo mondo.

Ho ricevuto quella malattia, non era un premio per qualcosa che avevo fatto ne tantomeno una punizione divina. Mi ha chiesto molto in cambio. Non la possedevo e non potevo cederla ad altri, ma ho potuto metterla a frutto. In questo senso, per me, quella malattia è stata un dono.

La augurerei ad altri? Certamente no. Potessi tornare indietro e avessi il potere di prenderla sulle mie spalle lo farei? Certamente si, come qualunque genitore farebbe.

Ma quella malattia c’è stata e io ora non sono più quello che ero prima. Quella malattia ha portato frutto in me.

Come è stato possibile ciò? Non ho risposte valide per tutti a questa domanda. La mia personale risposta è che quella malattia mi ha ricondotto in maniera del tutto evidente alla Croce di Gesù Cristo. Chi crede, come me, sa che quella croce non è la fine della storia ma è il passaggio cruciale della salvezza, è il passaggio alla Vita Nuova, che dura in eterno. Un passaggio che è stato promesso a tutti noi. E allora, il dolore innocente, inconcepibile e insopportabile che ho conosciuto, ha lasciato spazio ad una consolazione profonda e alla consapevolezza che il fine ultimo della vita di ogni esistenza umana è proprio dopo quella croce.
Cosa si può volere di più per un figlio che saperlo finalmente giunto dove ogni padre e ogni madre vorrebbero condurre i propri figli! A quel punto, la malattia e la sofferenza patiti non avevano più molta importanza.

Di rimando, tutto ciò mi ha insegnato che ogni difficoltà della vita è una piccola croce, la quale però non deve distrarmi dal guardare al Bene che c’è sempre dietro di essa. Anzi deve essere proprio quella piccola croce a ricordarmi in ogni momento a quale mèta sono destinato.



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Qualcuno, giustamente, potrà contestare che questo è il punto di vista di un credente, e che, diversamente, è pura follia accostare le parole “malattia” e “dono”. Non posso che essere d’accordo. Sono convinto infatti che solo chi ha conosciuto Cristo morto e risorto può mettere insieme queste due parole in modo razionale.

Ma mi domando, soprattutto in questi tempi in cui la forza della Fede nelle persone va sempre più affievolendosi, se non scomparendo del tutto, mentre l’incidenza delle malattie (in senso generale) non può che rimanere invariata, dove potrà condurci il rifiutare a priori questo accostamento?

La mia esperienza mi insegna che molto spesso, soprattutto quando non si ha alcun appiglio per dare un senso a quanto ci accade, non si combatte contro la malattia, dal punto di vista medico o psicologico, ma si combatte la realtà stessa. E quando la realtà non ci piace, si cerca di nasconderla, si fugge da essa, si rischia di essere perfino peggiori del servo infingardo della Parabola, per cui non solo non si fa fruttare il talento che si è ricevuto ma si finge di non averlo mai ricevuto.

Resta quindi questa domanda: è più folle accostare le parole “malattia” e “dono” o combattere la realtà?

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