“È stato un grande guerriero, c’era un grande buco nella sua spina dorsale ed era gravemente malformato. Eppure si è aggrappato alla vita per un’ora e io non posso smettere di pensare che l’abbia fatto perché era determinato a volere l’abbraccio della sua mamma”
Il tempo, averne poco o averne tanto, non conta davvero. Conta lo sguardo libero che possiamo o non possiamo avere. Quante obiezioni su quel buon ladrone a cui è bastata un’occhiata a Gesù per guadagnarsi il Paradiso, dopo una vita intera di malefatte! Nell’intensità di uno sguardo può starci un destino intero che si capovolge, e dice “Sì!” al Cielo che irrompe sulla terra, come accadde anche a Maria.
La storia terribile e commovente di Sofia Kahn e suo figlio Mohammed potrebbe essere giudicata con molte etichette e da punti di vista pregiudizievoli, forse merita solo di essere guardata: nella confusione emotiva di una famiglia che fa i conti con un handicap grave, irrompe il Mistero di una presenza viva che manda un messaggio travolgente di amore e poi – come un fuoco di artifico che esplode e illumina – torna al Cielo, che lo aveva mandato qui per svegliarci dal nostro torpore mortifero.
C’è un problema, signora
Sofia e suo marito Shakeel vivono a Bolton, in Inghilterra e hanno un figlio di 18 mesi; con gioia alla fine del 2017 accolgono la notizia di una nuova gravidanza. L’ecografia della 20esima settimana li precipita in un incubo: viene diagnosticata al feto una grave forma di spina bifida che lo rende incompatibile con la vita.
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Nonostante questo macigno, la madre confida in qualche possibilità di cura alla nascita e non opta immediatamente per l’aborto terapeutico; ulteriori indagini non lasciano margine di speranza, la diagnosi per Mohammed – questo il nome scelto per il bimbo – è gravissima e i medici non garantiscono che sopravviva neppure durante la gravidanza. Impossibile dunque che possa vivere dopo la nascita. A questo punto, la fragilità emotiva della coppia, affiancata da nient’altro che una spinta irrevocabile alla soppressione, trabocca e la scelta dell’aborto diventa quasi un imperativo:
Racconta Sofia: “Avevamo il cuore a pezzi, ma abbiamo scelto l’interruzione di gravidanza. Anche se sentivamo che era il meglio per il bambino, io avevo momenti di dubbio e sensi di colpa”. (Da The Scottish Sun)
In Inghilterra è possibile ricorrere all’aborto oltre la 24 settimana solo in casi eccezionali, per malformazioni del feto; Sofia e Mohammed sono l’eccezione a cui si può concedere questa forma di pietà apparente. La procedura prevede che s’interrompa il battito cardiaco del feto e poi che la madre partorisca naturalmente il bambino senza vita.
Un piccolo ago viene infilato nella pancia, dentro il liquido amniotico o direttamente nel cuore del feto, la medicina interrompe il battito cardiaco. Se iniettato nel liquido amniotico, possono trascorrere molte ore prima che il battito e i movimenti fetali cessino. (Ibid)
Possiamo solo lontanamente intuire quale sia lo strazio di una madre che attraversa questo calvario, anche se è consapevole della scelta, ma a maggior ragione se permangono in lei dubbi viscerali.
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Impossibile
Dopo l’iniezione mortale, Sofia viene trasferita nel reparto dove procederà al parto; ma nelle ore seguenti qualcosa di inaspettato accade. Lei continua a sentire il figlio calciare nella pancia.
Racconta: “Durante l’attesa, sentivo il bambino che scalciava. L’ho detto all’ostetrica, ma lei mi ha risposto che era impossibile. Le ho chiesto di portare un ecografo per verificare, ma lei ha replicato che non ce n’era bisogno.” (Ibid)
È la seconda volta che la parola «impossibile» ricorre in questa storia e per la seconda volta verrà confutata. Quasi sentendo l’eco del testo sacro verrebbe da dire: “Nulla è impossibile a Dio”. Nello sconcerto generale, Sofia partorisce un bambino vivo che piange e manda in tilt i protocolli. Nessuno più del grande Dickens si commuoverebbe nel sentire questi strilli tra le mura di un ospedale della sua Inghilterra, alla cui cultura di oppressione del debole lui portò in dote il pianto dell’appena nato Oliver Twist (quel primo capitolo del romanzo dovrebbe entrare nella costituzione di ogni paese … civile).
L’intero castello delle prassi ospedaliere frana, di fronte all’impossibile fatto possibile, nessuno sa che pesci pigliare. Che strana cosa è dover ammettere che siamo arrivati a dire: un bambino vivo spaventa i dottori.
L’ostetrica era scioccata. Chiedeva aiuto gridando, si è messa a correre nel corridoio col bambino in braccio. Poi me lo hanno riportato chiedendo: “Cosa vuole che facciamo?” e io non capivo cosa intendessero. L’ho preso in braccio, cullato e gli ho detto quanto lo amavo. (Ibid)
Naturalmente si tratta della procedura chiedere alla madre come affrontare l’evento insolito, si esige una formale assunzione di responsabilità del genitore; eppure quella domanda – cosa vuole che facciamo? – sembra già un rovesciamento mentale dato da quella piccolissima presenza viva. A fronte di tante statistiche, iniezioni, sicurezze ostentate, finalmente una posizione un po’ più umana (che doveva essere tale dall’inizio): la disponibilità all’accoglienza.
La vita, l’incarnazione, ci costringe a questa posizione nuda e sincera; anche nei luoghi più geograficamente e umanamente lontani da Nazareth si ripete – magari inconsapevole e stravolto – l’eco della Vergine che disse all’Angelo: “Accada di me secondo la tua parola“. Ascoltare, accogliere sono i verbi della Creazione.
Ritornando alla cronaca di questa vicenda, il piccolo Mohammed è riuscito a vivere appena un’ora, nel posto migliore possibile cioè tra le braccia di sua madre. Quando è venuto il momento asettico di dichiarare la causa di morte, l’ospedale ha dovuto mettere nero su bianco che il decesso non è stato causato dalle malformazioni, ma dalla procedura dell’aborto.
Il signor Nelson (medico legale ndr), mettendo a verbale il decesso per cause naturali, ha dichiarato che la morte di Mohammed è stata procurata dalla nascita estremamente prematura dovuta all’aborto compassionevole, e solo in seconda istanza dalle sue malformazioni congenite. (Ibid)
Se la morte è avvenuta per cause naturali, non va però tolta dall’orizzonte l’evidenza che la nascita prematura non è stata affatto naturale, e doveva in realtà essere una morte inflitta prematuramente.
Madre e figlio
Ci ricordiamo quel quadro di Giotto sulla Natività? Gli occhi di Maria che si piantano in quelli di Gesù e quelli di Gesù che ricambiano l’intensità dello sguardo.
Una vita intera può reggersi sulla vertigine di uno sguardo simile, quando tutto di sé cede di fronte a una presenza che in modo assolutamente eccedente scompagina l’anima nel profondo. Per un’ora Sofia e Mohammed sono stati abbracciati ed è stato il tempo necessario per compiere un miracolo di pietà: quel bambino ha dissipato ogni ombra che ottenebrava il cuore e la testa dei suoi cari. Fin dall’inizio, il percorso doloroso di Sofia e suo marito è stato scandito da una sofferenza paralizzante che sembrava portare a gesti meccanici più che a una volontà piena.
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Non era chiaro il senso di una ferita così grande. Un’ora piena di vita è bastata a dare un nome compiuto a questa storia e a non lasciare che suadenti teorie compassionevoli ma mortifiche oscurassero l’orizzonte. L’ultima parola è lo strillo di un bimbo vivo:
Racconta Sofia: “Lui è stato un grande guerriero, c’era un grande buco nella sua spina dorsale ed era gravemente malformato. Eppure si è aggrappato alla vita per un’ora e io non posso smettere di pensare che l’abbia fatto perché era determinato a volere l’abbraccio della sua mamma”. (Ibid)