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Ora Erin ha una figlia “grazie” alla migliore amica, diventata madre surrogata

erin boelhower
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Annalisa Teggi - published on 15/10/18
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Dopo 6 aborti spontanei e nove fecondazioni in vitro Erin Boelhower è diventata madre perché l’amica Rachel si è offerta come madre surrogata, partorendo e poi allattando la piccola Scottie.

La pratica dell‘utero in affitto è frutto di un delirio moderno che crede di poter ingabbiare il segreto della vita e riprodurlo a piacimento. In molti casi, nella prevalenza, è facile mostrare il lato oscuro di questa pratica perché lo sfruttamento delle cosiddette madri portatrici è palese e riduce in schiavitù donne che abitano in paesi in cui qualsiasi fonte di reddito viene bramata per la sopravvivenza. In altri casi è evidente il cinico lato economico della faccenda: sono disponibili online molte cliniche che offrono servizi all’avanguardia con relativo, abominevole, prezzario e scelta dei pacchetti nascita.

Ci sono esempi famosi che paiono stringere l’occhiolino al lato “pietoso” – se così si può dire – della maternità surrogata: di recente Robbie Williams e sua moglie Aida hanno dichiarato di essere ricorsi alla surrogazione dopo aver tentato invano di avere il terzo figlio. Ed è proprio questa la nota dolente, il punto in cui i margini della ferita si slabbrano e potrebbero lasciare aperto il pertugio a un’accondiscendenza verso chi desidera tanto un bambino e proprio non riesce ad averlo.


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In taluni casi, come quello di Erin Boelhower, l’utero in affitto sembra la via di una generosità commovente. Così titolano i grandi giornali. Perciò è tanto più necessario snebbiare la vista, pur abbracciando il dolore di tante famiglie ferite.

Sei aborti spontanei e nove fecondazioni in vitro

Gira la foto di una donna dell’Illinois che tiene in braccio, tra le lacrime, una neonata. Alle spalle il marito l’abbraccia, anche lui rotto dal pianto. Nei titoli compaiono parole dolcissime “amica, commovente, dono, generosità“. Cosa è accaduto?

UTERO, AFFITTO, FAMIGLIA

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A settembre è nata la piccola Scottie, figlia di Erin e Matt Boelhower ma cresciuta e partorita dal grembo di Rachel Checolinski, migliore amica di Erin. La famiglia Boelhower ha alle spalle un calvario di tre anni che inizia con la triste constatazione di non riuscire ad avere figli: la scelta della fecondazione assistita sembra dar loro la speranza, ma nove tentativi (e 600 punture nella pancia) non portano al risultato sperato. Come se non bastasse, la coppia deve fare i conti con il dolore di 6 aborti spontanei.

Il desiderio di diventare madre e padre, così tenacemente perseguito e così ripetutamente tradito, deve aver provocato in Erin e Matt un dolore lacerante che chiede una risposta. La implora. Ed è qui che la ferita produce un tentativo di rimarginazione che, pur comprensibile, non può essere avvallato. Arriva l’abbraccio senza dubbio sincero e commosso della migliore amica di Erin: Rachel è già madre di tre figli, conosce di persona la difficoltà di concepimento, si offre come madre surrogata.


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«Ho lottato per due anni per concepire il mio secondo figlio, nato 8 anni dopo il primo, e so benissimo che cosa vuol dire la delusione di non riuscire a dare una vita. Ho pianto con Erin ogni volta che ha perso uno dei suoi bambini, era terribile» (da Corriere)

Ho pianto con lei

Sembra che non ci sia niente di male se, oltre a piangere, si può fare qualcosa di più per una persona carissima. È sottile il velo della tentazione in questo caso: perché limitarsi a piangere insieme, se posso offrirti il mio grembo per realizzare il tuo desiderio più grande? Non è un gesto di vera amicizia? Si rischia di passare per cinici rispondendo di no a questa domanda, ma è la risposta da dare; pur non imputando a Rachel nessuna volontaria colpa fraudolenta. Sono certa che il suo gesto sia stato mosso dall’affetto. In un mondo confuso sull’origine della maternità e paternità e, ancor più, subissato di messaggi ideologici sibillini sulla possibilità di esaudire tutti i desideri, è chiaro che i cuori feriti siano preda di illusioni vestite da regali.

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Con chiarezza si è espressa Antonella Boralevi sul caso di Erin Boelhower:

È brutale da dire. Ma io credo che non si debbano usare eufemismi. Per esempio “Abbiamo stabilito una relazione con la madre portatrice”, oppure “Siamo ancora in contatto con lei”. E non credo che l’utero in affitto abbia a che fare con il sentimento della generosità. Neanche nelle storie di uteri prestati da madri, sorelle, amiche. Per una ragione ovvia: un figlio non è un oggetto che si può regalare. E non è un contenitore la donna che lo mette al mondo. E, per favore, nessuno tiri fuori la parola “amore”. (da La Stampa)

Ho pensato e ripensato a quelle parole dell’amica-madre Rachel: “Ho pianto con Erin ogni volta”. È qui, vorrei dire, il vertice dell’amicizia: stare insieme sul limitare doloroso di un mistero. Piangere è un gesto tremendo e purissimo, che facciamo sempre meno insieme perché … non so bene perché. Ma la fragilità si tende a nascondere, la si tiene come un pensiero privato. Cosa accade nel tradurla in una condivisione reciproca e senza cerotti da offrire? Naturalmente, per un amico si vorrebbe fare di tutto. Si può arrivare a dare la vita, in certi casi, cioè morire per lui o per lei … eppure donargli una vita non è nelle nostre facoltà.


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Perché la vita non è nelle nostre facoltà, non è un dono che possiamo produrre; lo si può solo accogliere. Anche se sembra arrendevole, piangere assieme – magari non capendoci nulla dei piani della Provvidenza – è il vero dono che gli amici si possono fare: ricordare che c’è un muro morale, che ci protegge tutti, e parla della dipendenza originaria di ogni vita da qualcosa di più grande persino dell’amore di papà e mamma. Sì, l’anima libera di ciascuno di noi – che è figlio – non può appartenere ai progetti anche buoni di nessun altro uomo o donna. Piangere assieme un’assenza ci ricorda, anche procurando dolore, che “accogliere” è il verbo della maternità e non “volere”, tanto meno “produrre”.

Questa voce rimarrà sempre più sgradevole, rispetto a chi mette sul piatto d’argento il compimento impacchettato di un grande desiderio; non di meno il soggetto resta l’anima libera di un figlio e non il desiderio di una madre e un padre.

Scottie

«È stata dura per me sentire Rachel urlare di dolore durante il travaglio e sapere che stava facendo tutto quello per me. Rachel la sta allattando, e quando Scottie sarà grande le racconteremo quanto è stata importante Rachel: è un legame che mai nessuno potrà rompere» (da Corriere)

La nascita riguarda il bambino e non i genitori. Scottie è nata ed è una gioia che sia qui; nessuno dice il contrario. Non c’è dubbio alcuno sul fatto che sarà amata. Le si racconterà che è stata voluta così tanto e che è nata per un gesto di grande generosità. Forse Scottie capirà. Penserà che Rachel, quella che l’ha partorita ed allattata, è solo la migliore amica della madre? Ci sarà inevitabilmente un grumo di domande nel suo cuore a proposito della parola “madre”.

E quelle domande saranno per forza legate alla domanda più grande di tutte: chi sono io? 

È per tutelare questa domanda che occorre dare risposte nette a quelle di ogni genitore. Un figlio non può sentirsi dire che è nato per volontà dei genitori e neppure per la grande generosità di un amico. Un figlio, vale a dire una persona, non può dipendere da un altro uomo; è questo il primo e unico grande dono della genitorialità. La grande illusione fallimentare di oggi parte da una frase divenuta ormai comune: “Voglio un figlio“- “Facciamo un figlio“. È diventato naturale che i figli siano oggetto di pianificazione familiare, perciò è diventato più facile insinuare l’idea che – se lo vuoi, e ora è il momento in cui lo vuoi – è giusto che arrivi … in qualunque modo. Anche se il frutto è quello bellissimo di vita vivente nuova, al centro della progettualità ci sono i genitori; ed questo l’errore di prospettiva.

La proposta cristiana mette al centro la dignità immensa di ogni anima. Affinché ogni essere umano possa rispondere in pienezza alla domanda più importante di tutte «chi sono io?» deve sapere di essere libero dall’origine; ciascuno di noi appartiene a una storia familiare, ma la sua esistenza non dipende dalla volontà dei genitori. Se così fosse, si ridurrebbe il nostro essere a un “sì” o un “no” di un altro essere umano; invece, ciascuno di noi è una cosa così grande che solo nel vincolo diretto con Dio può trovare la sua origine e sussistenza.



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Potrà sembrare una sottigliezza risibile, ma è la differenza sostanziale da cui dipende una buona fetta del futuro dell’umanità. Ed è la differenza tra il sentirsi un’anima o un prodotto; tra il sentirsi dire “sei qui perché c’è un disegno universale che ci vuole tutti protagonisti della grande avventura dell’essere” o sentirsi dire “sei qui perché ti volevamo”.

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