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Il “figliol prodigo”: alcuni errori comuni nell’esegesi della parabola

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Giovanni Marcotullio - pubblicato il 23/10/18
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Alcuni biblisti l’hanno definita “il Vangelo nel Vangelo”, per quanto efficacemente essa richiama temi fra i principali dell’annuncio di Gesù. Ci sono anche delle motivazioni “inconsce” per le quali tutte le generazioni hanno amato (e segretamente detestato) questa pagina ineffabile. Ci sono però anche alcune tentazioni comuni da cui stare in guardia, perché ci impediscono di cogliere il cuore del testo

Tra le pagine immortali della Bibbia sono molte quelle che, per un motivo o per l’altro, assurgono a livello di particolare dignità letteraria. Ve ne sono pure altre che spiccano per importanza teologica, soverchiandone altre: non c’è da scandalizzarsene, le Scritture sono un po’ come un vasto e differenziato panorama (ci sono le valli e le colline, le cime e le gole, i punti chiari e soleggiati e quelli oscuri…). Con le dovute precauzioni ogni passaggio può essere esplorato con frutto, ma non da ogni passo si esprimerà la Divina Rivelazione (che poi è il contenuto principale di tutta intera la Scrittura) in uguale misura e intensità: è il senso della fede a fungere da presupposto ermeneutico, oppure i passi in cui si esprime una dignità del Figlio subordinata a quella del Padre sarebbero dei problemi insormontabili per la dottrina della trinità che si ricava da altri passi (giusto per fare un esempio).


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Vi sono anche pagine che assommano l’interesse letterario e quello teologico, e questo spaziando in diversi generi letterari: nei Vangeli alcuni di questi momenti capitali sono i racconti dell’ultima cena (e della lavanda dei piedi in Giovanni), oppure quelli di alcuni miracoli particolari e molto significativi, come la guarigione del cieco nato… e ci sono poi alcune parabole “del cuore”. Gesù stesso ha detto che la parabola del seminatore è come la madre di tutte le parabole, essendo quella senza la quale non è possibile capire tutte le altre (e anche la stessa missione di Gesù): tuttavia pagine come quella che contiene la parabola detta “del buon Samaritano” o quella “del figliol prodigo” restano impresse nel lettore, anche se non credente, con una forza particolare.


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Perché certe pagine “parlano di più” di altre

Nessuno vorrà negare che l’aspetto normativo dell’Evangelo di Gesù sia presente almeno con la medesima intensità in pericopi come quelle che riportano la predicazione delle beatitudini, e tuttavia queste esemplificazioni plastiche dell’eccessiva misericordia di Dio lasciano il segno. Perché? Probabilmente in forza del fatto che la bontà di Dio è da un lato ciò che il nostro cuore spera e desidera più di ogni altra cosa… e dall’altro ciò che una sua parte, quella più corrotta e che più ne ha bisogno, paradossalmente teme e detesta.



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Chiaramente tutto ciò risalta mirabilmente in quel gioiello lucano che è la parabola detta “del figlio prodigo” (o “del padre misericordioso” o “dei due figli” o, meno poeticamente ma più correttamente, “del padre e dei due figli”). Nel 1951 Norvald Geldenhuys scrisse che

Questa parabola merita di essere chiamata “il Vangelo dentro al Vangelo”, perché in essa tante e tante verità del Vangelo vengono proclamante in un modo incredibilmente bello e plastico. Tale parabola è strettamente connessa con le due precedenti [la pecora perduta e la dramma perduta, N.d.R.], ma mentre in quelle l’enfasi principale viene posta sull’amore di Dio che cerca, e dunque sul lato divino della redenzione, in questa parabola il Salvatore getta un fascio di luce anche sul versante umano.

Norvald Geldenhuys, Commentary on the Gospel of Luke, 406

Sterminate biblioteche si potrebbero riempire soltanto con i commenti scritti in nemmeno venti secoli a questa pagina: ogni lettera è stata rivoltata come un calzino innumerevoli volte, al punto che ormai nessuno è più in grado di leggere tutto quello che gli altri hanno scritto ed è al contempo difficilissimo non ripetere intuizioni già avute da altre così come ripeterle in quel medesimo ordine e senso in cui altri le hanno espresse. Questo era inevitabile già a partire dal genere: «La parabola – spiega Darrell L. Bock – è vicina all’allegoria poiché ci sono diversi livelli di lettura, sebbene non ogni elemento debba essere stressato» (Backer Exegetical Commentary on the New Testament, 1306).



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E invece veramente ogni virgola è stata ed è stressata, a causa della grande enigmaticità che questo racconto maieuticamente suscita in tutti i suoi lettori. Tuttavia la sintesi di Bock è accettabile, anzi risulta utile per orientarsi:

Fondamentalmente ci sono tre punti di convergenza: il prodigo rappresenta il peccatore, il maggiore è l’uomo che pensa di costruirsi da sé la propria giustizia (o chiunque che protesti di servire Dio) e il padre è immagine di Dio. I peccatori tornano a Dio e i giusti devono accettare la decisione dei peccatori di tornare a lui. È la reazione del padre ai figli che sta al centro della parabola. La sua risposta, a sua volta, istruisce le persone su come dovrebbero rispondere. L’immagine del banchetto in 15, 25-32 è uno “specchio parabolico” della situazione reale, perché lì si sfogava una parte delle rimostranze dei farisei.

Ibid.

A Gesù, che almeno in un certo senso (e in più di qualche senso) era figlio unico piacque inserire in questo geniale racconto – nessun esegeta si sogna di negare che il testo lucano risalga direttamente a Gesù – due fratelli: perché? Esperienza delle incomprensioni con i propri “fratelli e sorelle”? Osservazione delle dinamiche interne al gruppo dei propri discepoli, in particolare tra consanguinei? Probabilmente tutto questo e anche dell’altro. Poi c’è anche la sempreverde valenza del tema del doppio, da tenere in considerazione: Caino e Abele, Romolo e Remo, Antigone e Ismene… sono non solo antagonismi personificati, ma soprattutto rappresentazioni ipostatiche delle diverse voci che coabitano dentro ciascuno di noi. Quello che i due fratelli hanno in comune è che – a dispetto di un padre tanto meraviglioso – nessuno dei due riesce a concepirsi figlio, ma l’uno e l’altro si rapportano col proprio destino come con quello di uno schiavo. L’uno sfuggendolo per dei presunti benefici, l’altro assoggettandovisi nella speranza di lucrarvi qualche vantaggio: la verità è che il minore cerca fuori casa ciò che il maggiore spera di ottenere senza muoversi, e che presso il padre questi ricerca le medesime cose che quegli fruga in compagnia delle prostitute. Inoltre ciascuno dei due invidia l’altro, pensando almeno in qualche momento che tutto sommato l’altro “se la stia spassando”: il maggiore invidia al minore proprio l’esperienza dei lupanari; il minore invidia al maggiore il pane in abbondanza. Tutti e due si rivolgono al genitore chiamandolo “padre”, ma nessuno comprende che cosa sia l’essere figli. Quando il minore torna si prepara un discorsetto col quale riconosce di non avere più diritti di figlio – ma per “il pane dei servi” egli rinuncia a ciò che ancora non conosce. Lo stesso il maggiore, il quale salta sul chi vive forse per il timore di vedere il “figlio di suo padre” (sono i servi a chiamarlo “tuo fratello”, parlando con lui, non è mai lui a farlo) che dopo essere stato reintegrato rosicchia un’altra parte di quanto crede spetti a lui.



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In realtà il problema del fratello maggiore non è la pretesa del minore – che alla fine della parabola è pari a zero – ma la risoluzione del padre, che difatti diventa oggetto principale del suo adirato sdegno.

Qualche intoppo comune nell’interpretazione

Ci sono almeno tre grandi errori che si possono fare, nella lettura e nell’interpretazione di questa ineffabile parabola: il primo riguarda la precomprensione ermeneutica; il secondo la figura del figlio minore e la terza quella del figlio maggiore.

Anzitutto l’orizzonte di comprensione: talvolta Gesù contrappone modelli buoni e cattivi, anche caratterizzandoli come due fratelli (cf. ad esempio Mt 21, 28-32); si sarebbe facilmente portati ad applicare un simile schema anche qui. Il che non regge, perché l’atteggiamento del padre è perfettamente uniforme, nell’uno e nell’altro caso: il Dio delle parabole di Gesù non ha certo problemi a castigare i malvagi, e con la massima durezza, ma qui non si accenna ad alcun castigo, e se una contrarietà si dà, nel caso del fratello maggiore, essa sembra decisamente pedagogica, cioè volta a far fare al maggiore la medesima strada che sta facendo il minore (in tal senso non è sbagliato ravvisare una lontana eco di Gio 4).


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L’orizzonte di comprensione, dunque, è relativo al padre dei due, che è il vero scenario, silente e spazioso, in cui i due «si muovono, vivono e sono» (At 17, 28): perciò non è lecito, in questa parabola, vedere contrapposti un modello buono e un modello cattivo.


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Lo si vede dal figlio minore, che alla fine della parabola è certamente in un punto migliore di quello mediano, e perfino di quello iniziale (perché ha capito che essere figli è una dignità ricevuta sempre per grazia): la sua contrizione, quella che lo muove interiormente e che lo salva, è assolutamente imperfetta, poiché non torna a casa per amore del padre né perché ha scoperto il valore della figliolanza, ma perché il salario che dà suo padre ai dipendenti è molto migliore di quello che sta percependo lontano da casa. È un inizio, è ciò che può avvertire uno stomaco stretto nella morsa dei crampi: nessuno dubita che, come in Mt 21, qualche giorno dopo il ritorno a casa e la festa, il padre sia tornato a dire al figlio “va’ a lavorare alla vigna”. E non perché essere figlio sia uguale a essere schiavo, anzi perché il figlio condivide col padre la responsabilità di tutto il patri-monio, dunque anche il destino dei servi, degli operai e delle loro famiglie. Ma alla fine della parabola non sappiamo ancora quanto tempo impiegherà il figlio minore a capire: la chiusa ci lascia solo nella ragionevole speranza che la strada sia incominciata, e che presto (o tardi) egli capirà.


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Lo stesso si può dire del figlio maggiore, le cui ultime battute però sono animate da rancore e risentimento: anche riguardo a lui il racconto lascia aperta la prospettiva. C’è la sua sfuriata, c’è l’amorosa replica del padre – che sostituisce il “come uno schiavo” del primogenito con il vocativo “figlio” – e poi basta. Avrà capito, il figlio maggiore? Avrà scoperto che il figlio di suo padre è suo fratello? Avrà capito che vivere da cliente dei bordelli significa bruciare sostanze per un fuoco che non scalda? Anche qui non ci è dato altro che la speranza ed è la voce del padre a conferircela.


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Come si vede il personaggio del fratello maggiore è tutt’altro che anodino o sfuggente, e quello del minore è tutt’altro che arrivato o completo: in realtà i due sono veri gemelli, veri risvolti di doppio della religiosità di ogni uomo. C’è un Dio che non esiste – quello che gli atei combattono e che i clericali professano –, il Dio che tratta l’uomo da schiavo: entrambi i fratelli sono immagini delle due declinazioni che la perversione della fede può prendere. Di più, che essa sempre in ogni uomo tende ad esistere, come frutto marcio della nostra libertà ferita: la vera fede – ossia la pagina non scritta di questa parabola, quella che ciascun ascoltatore/lettore è da sempre chiamato a scrivere – è la continua e mai definitiva esclusione dalla propria vita di queste due malattie.

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