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In Cina l’inquinamento uccide

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Paul De Maeyer - pubblicato il 30/10/18
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L’aria tossica provoca più di un milione di decessi prematuri all’anno Per decenni, la Cina ha sacrificato l’ambiente e il clima per la crescita economica, anzi “la crescita era sopra ogni altra cosa”. Lo scrive la Neue Zürcher Zeitung in un articolo pubblicato l’8 ottobre, in cui si sofferma sulle sfide ambientali che il gigante asiatico sta affrontando.

Che Pechino faccia ora sul serio lo dimostra il discorso tenuto nell’autunno 2017 dal presidente della Repubblica popolare e segretario generale del Partito comunista cinese (PCC), Xi Jinping, in occasione del XIX Congresso del partito. Nella sua allocuzione, l’uomo forte di Pechino, rieletto del resto dal congresso per altri cinque anni alla guida del PCC, ha usato infatti 89 volte la parola “ambiente” e invece solo 70 volte il termine “economia”, osserva il quotidiano svizzero.

Aria tossica

La sfida forse più ovvia è quella dell’inquinamento dell’aria. Soprattutto nella Jingjinji Metropolitan Region, cioè la regione capitale destinata a comprendere Pechino, la città portuale di Tianjin e la provincia di Hebei, la fitta cappa di smog rende l’aria spesso irrespirabile.

Secondo la NZZ, nella regione il valore medio annuo di PM2,5, ovvero il particolato fine con un diametro minore di 2,5 micron, che può essere respirato e raggiungere i bronchi, supera con 90 microgrammi (µg) per m3 di aria di gran lunga la soglia di 10 µg stabilita dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). Nel febbraio del 2014, la concentrazione di PM2,5 raggiungeva persino i 505 µg a Pechino…

Per migliorare la qualità dell’aria – si calcola che il particolato PM2,5 provochi più di un milione di decessi prematuri all’anno nel Paese -, le autorità cinesi hanno preso già tutta una serie di misure, tra cui una diminuzione del consumo di carbone – la fonte di energia fossile più inquinante – e la promozione delle energie rinnovabili.


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A differenza degli USA, che si sono ritirati dall’Accordo di Parigi sul clima, la Cina lo fa con tanto impegno che dominerà il settore delle rinnovabili nei prossimi decenni, così sostiene un rapporto dell’IEEFA (Institute for Energy Economics and Financial Analysis), citato dal Guardian (10 gennaio). Mentre la Cina si sta affermando come leader tecnologico globale, “il governo degli Stati Uniti guarda dall’altra parte”, ha dichiarato il direttore dell’organismo e autore del rapporto, Tim Buckley.

La Cina spinge anche l’acceleratore della mobilità elettrica, continua la NZZ. Entro il 2025, una macchina su cinque (cioè il 20%) venduta nel Regno di Mezzo – come la Cina veniva una volta chiamata – dovrà usare tecnologie di propulsione alternative. L’anno scorso la quota era solo del 3%, osserva il quotidiano svizzero. Attualmente, il 40% delle circa 3,1 milioni di auto elettriche vendute in tutto il mondo viaggiano sulle strade cinesi.

Suolo agricolo inquinato

Non solo l’aria ma anche il suolo della Cina risulta spesso fortemente inquinato, conseguenza anche di una mancanza di politiche adeguate per lo smaltimento e/o riciclaggio dei rifiuti. Preoccupante è ad esempio l’inquinamento dei terreni agricoli.

Nel dicembre 2013, una fonte ufficiale parlava di circa 3,3 milioni di ettari di suolo agricolo inquinato, di cui la maggior parte destinata alla coltivazione di cereali, così riportava il Guardian (23 gennaio 2014). Secondo stime del ministero competente, ogni anno circa 12 milioni di tonnellate di cereali finiscono al macero, perché sono inquinate da metalli pesanti e quindi non adatte al consumo.

Secondo le autorità cinesi, una superficie agricola pari quasi a quella del Belgio (quindi circa 30.500 km²) è da bonificare, perché troppo inquinata. L’obiettivo di Pechino è di risanare entro la fine del 2020 la quasi totalità dei terreni agricoli contaminati, ossia il 90%, ha fatto sapere nel febbraio scorso il ministro dell’Ambiente, Li Ganjie.

La questione dell’acqua

Di importanza cruciale è poi la questione dell’acqua in Cina. Prima di tutto perché scarseggia in varie zone dell’enorme Paese. Mentre più di tre quarti delle risorse idriche, l’80%, sono situate nel sud del Paese, un cinese su due abita invece nel nord, che del resto è anche molto arido: la quantità d’acqua a disposizione di città come Pechino e Tianjin è solo di poco superiore all’Arabia Saudita, ricorda la NZZ.

Per questo motivo, la Cina ha avviato da decenni tutta una serie di grandi opere idriche, tra cui dighe, che consentono oltre alla generazione di energia idroelettrica anche l’accumulo di vaste quantità di acqua in bacini artificiali.

Come ricorda Brahma Chellaney sul South China Morning Post, la Cina conta attualmente in totale 86.000 dighe, il ché significa che in media il Paese ne ha costruito almeno una al giorno e questo dal 1949, cioè l’anno della nascita della Repubblica popolare.

Secondo l’autore, la costruzione di tutte queste dighe ha avuto non solo un impatto devastante sull’ambiente — sono scomparsi ad esempio 350 laghi — ma è diventata anche uno strumento nelle mani di Pechino per fare pressione sui Paesi vicini. Molte dighe sono state costruite infatti sui grandi  fiumi transnazionali, fra cui il Mekong e il Brahmaputra, vitali per milioni di abitanti di varie Nazioni asiatiche, come la Birmania e il Vietnam (Mekong), e l’India (Brahmaputra).


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La Cina ha realizzato otto enormi dighe sul Mekong poco prima che il fiume entri nel sud-est asiatico, e ne sta costruendo o progettando altre 20, spiega l’autore, il quale denuncia la politica del “fatto compiuto” da parte di Pechino. Con il suo controllo delle risorse idriche transfrontaliere attraverso il crescente numero di progetti di idro-ingegneria, la Cina “sta trascinando i suoi vicini rivieraschi in giochi ad alto rischio di poker geopolitico”, sostiene Chellaney.

Tibet: il castello d’acqua dell’Asia

Emblematica è la situazione in Tibet, dove Pechino intende creare una enorme rete  di camere a combustibile — si parla di decine di migliaia di bruciatori — con l’obiettivo di far aumentare le piogge nella regione fino a 10 miliardi di m³ all’anno, ovvero il 7% circa del consumo idrico del Paese. A rivelare il megaprogetto è sempre il South China Morning Post.

Anche se il metodo non è nuovo – è stato sperimentato ad esempio anche negli USA -, colpiscono nel caso della Cina le proporzioni colossali. Secondo il quotidiano di Hong Kong, i bruciatori verrebbero installati su una superficie grande quanto tre volte la Spagna. In teoria, la rete di bruciatori potrebbe influenzare il tempo e quindi anche il clima sull’altopiano tibetano – chiamato anche “il castello d’acqua dell’Asia”, visto che fiumi come lo Yangtze e il Brahmaputra nascono proprio lì -, già messo a dura prova dallo sfruttamento minerario, anch’esso in forte aumento.

A preoccupare gli esperti, fra cui Brahma Chellaney, è inoltre il fatto che l’acqua tibetana è finita nella mira dell’industria cinese delle acque minerali. L’acqua dei ghiacciai tibetani piace infatti ai consumatori cinesi, che hanno ben poca fiducia nell’acqua che esce dai rubinetti delle grandi città e quindi preferiscono l’acqua imbottigliata, se possibile proveniente proprio dagli altipiani del Tibet.

Acque inquinate

Infatti, anche l’acqua di superficie – come quella del sottosuolo – in Cina è drammaticamente inquinata. Secondo il sito Facts and Details, circa un terzo delle acque reflue industriali e oltre il 90% di quelle domestiche finiscono nei fiumi e nei laghi senza alcun tipo di trattamento previo. Perciò anche i livelli di inquinamento dei fiumi più iconici del Paese, cioè il Fiume Azzurro (Yangtze), il Fiume Giallo e il Fiume delle Perle, sono drammatici.

Quasi l’80% delle città cinesi non hanno impianti per il trattamento delle acque reflue e nel 90% delle città cinesi le riserve idrologiche sotterranee risultano inquinate, così continua il sito. A Pechino, scrive a sua volta il Guardian (2 giugno 2017), il 39,9% dell’acqua è talmente inquinata da essere completamente inutilizzabile.



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La metà della popolazione cinese non ha accesso ad acqua potabile sicura e quasi due terzi della popolazione rurale del Paese, vale a dire più di 500 milioni di cittadini, consumano acqua contaminata da rifiuti industriali e umani, ricorda il sito Fact and Details.

Non c’è da meravigliarsi quindi, che Xi Jinping abbia usato 89 volte la parola “ambiente” nell’autunno scorso. La protezione dell’ambiente è infatti una questione di vita o morte per milioni di cittadini cinesi, e fino ad un certo punto quindi anche per lo stesso PCC, che teme il malcontento, sia dei suoi funzionari che della popolazione in generale.

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