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I boschi: alleati fondamentali nella lotta contro il cambiamento climatico

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Paul De Maeyer - pubblicato il 05/11/18
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Il Premio Nobel per l’Economia è andato quest’anno a due studiosi statunitensi, che si sono distinti per i loro studi legati al cambiamento climatico e allo sviluppo sostenibileIl IV Congresso Nazionale di Selvicoltura, che si apre oggi a Torino sotto il titolo «Il bosco: bene indispensabile per un presente vivibile e un futuro possibile», si terrà sullo sfondo dei devastanti danni provocati al patrimonio boschivo italiano dalle recenti tempeste. Secondo le stime di Coldiretti, sono circa 14 milioni gli alberi abbattuti o spezzati.

La furia di pioggia e vento ha divelto ad esempio le famose foreste di abeti rossi in Val di Fiemme (provincia autonoma di Trento) e in Val Saisera (provincia di Udine), dalle quali il noto liutaio cremonese Antonio Stradivari (1644-1737) usò ricavare la materia prima per realizzare i suoi pregiatissimi violini.

Un danno immenso – secondo la Coldiretti «ci vorrà almeno un secolo per tornare alla normalità» – a quello che costituisce una delle armi per raggiungere l’obiettivo fissato nell’Accordo di Parigi (raggiunto il 12 dicembre 2015 e poi firmato nell’aprile 2016) di mantenere l’aumento della temperatura globale al di sotto di due gradi rispetto ai livelli pre-industriali: il patrimonio forestale.

Potenziale di riduzione dei gas serra

Le piante, alberi inclusi, sono infatti capaci di assorbire in modo naturale attraverso il processo di fotosintesi la CO2 (l’anidride carbonica, un gas ad effetto serra) presente nell’atmosfera e di immagazzinarlo nella loro biomassa.

Questo fatto spiega perché nell’Accordo di Parigi è stato dedicato, come unico settore, un articolo intero alla sola silvicoltura, così ha ricordato Jürgen Blaser, della Scuola universitaria professionale di scienze agrarie, forestali e alimentari a Zollikofen, in Svizzera, sulla Neue Zürcher Zeitung (29 settembre).

Nell’articolo, il quotidiano di Zurigo menziona una ricerca pubblicata sulla rivista americana PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences), secondo la quale il potenziale di protezione climatica degli ecosistemi terrestri ammonterebbe a ben 24 miliardi di tonnellate di CO2 all’anno. Secondo gli autori della ricerca, questa massa corrisponde al 37% – ossia più di un terzo – della riduzione di gas ad effetto  serra entro il 2030, come prevista dall’Accordo di Parigi.

«Bonn Challenge»

In molti Paesi del mondo – soprattutto in via di sviluppo, ma non solo – il fenomeno del disboscamento è ritenuto «fuori controllo», il tutto per fare posto a pascoli o alla produzione agricola, spesso monocolture tipo palma da olio o canna da zucchero.

Secondo il sito Rinnovabili.it, in Paraguay e Malaysia il tasso di deforestazione ha raggiunto quota 9,6% e 14,4%.

Per fermare la perdita di superficie boschiva (e quindi anche di preziosa biodiversità), il governo tedesco ha lanciato nel 2011 in cooperazione con l’International Union for Conservation of Nature (IUCN) l’iniziativa Bonn Challenge, così ricorda la NZZ, con l’obiettivo di recuperare entro il 2020 150 milioni di ettari di ecosistemi disboscati e degradati, e 350 milioni di ettari entro il 2030.

Un altro Paese europeo molto impegnato nella lotta contro la deforestazione è la Norvegia. Il Paese produttore di petrolio (ma allo stesso tempo grande promotore delle energie rinnovabili e della protezione dell’ambiente in generale) ha contribuito finora con più di un miliardo di dollari al Fundo Amazônia, cioè il fondo per la protezione della foresta amazzonica lanciato nel 2008 dal Brasile. Oslo ha deciso l’anno scorso di dimezzare i suoi contributi, come protesta per l’accelerazione della deforestazione nel delicato ecosistema, noto anche come «il polmone della Terra».

La Norvegia è del resto anche il primo Paese al mondo a mettere al bando la  deforestazione. La politica della cosiddetta «deforestazione zero», decisa nel 2016, implica che le aziende coinvolte in pratiche di disboscamento siano escluse dai contratti pubblici, spiega Trevor Nace su Forbes. «Questa è una vittoria importante nella lotta per proteggere la foresta pluviale», aveva dichiarato il portavoce della Rainforest Foundation Norway, Nils Hermann Ranum, citato dall’Independent.

Studio pubblicato su «Science»

In un articolo del 5 ottobre, la Neue Zürcher Zeitung ha riportato i risultati di un nuovo studio pubblicato sulla rivista Science, da cui emerge che rispetto a boschi in monocoltura quelli con una ricca diversità arborea assorbono una quantità maggiore di CO2.

Per la sperimentazione, alla quale ha partecipato l’Università di Zurigo, erano stati piantati nel 2009-2010 in una zona di montagna ad ovest di Shanghai, in Cina, oltre 150.000 alberi su una superficie totale di più di 30 ettari. Il territorio era stato diviso in più di 500 parcelle, sia in monocoltura che composte da alberi appartenenti a diverse specie.

La sperimentazione ha evidenziato che le parcelle con una ricca diversità vegetale hanno fissato in media 32 tonnellate di biossido di carbonio o CO2 per ettaro. Nelle parcelle in monocoltura, la massa era invece di solo 12 tonnellate, cioè meno della metà.

Come ricorda la NZZ, la ricerca ha confermato uno studio precedente, sempre effettuato in Cina, sul nesso positivo tra diversità arborea da un lato e stoccaggio di CO2 dall’altro lato, la quale era però basata su osservazioni empiriche. La presenza di foreste miste ha quindi un impatto positivo non solo sul recupero della biodiversità ma inoltre sulla mitigazione del cambiamento climatico, sottolinea Science.

Che per la ricerca sia stata scelta la Cina non sorprende. Da anni il gigante asiatico ha lanciato una politica ambiziosa di riforestazione, che sta dando risultati positivi. Negli ultimi cinque anni, così spiega il sito Focus.it, sono stati piantumati 338.000 km² di foreste in tutto il Paese, ossia una superficie superiore a quella dell’Italia (302.073 km² secondo l’Istat). Pechino intende aggiungerne altri 66.000 km² entro la fine di quest’anno, cioè quasi la superficie dell’Irlanda.

Nobel per l’Economia 2018

Lunedì 8 ottobre è stato assegnato il Premio Nobel per l’Economia a due studiosi statunitensi, William Nordhaus e Paul Romer, che si sono distinti per i loro studi legati al cambiamento climatico e allo sviluppo sostenibile.

«I contributi di Paul Romer e William Nordhaus sono metodologici, fornendoci informazioni fondamentali sulle cause e le conseguenze dell’innovazione tecnologica e dei cambiamenti climatici», si legge nella motivazione. «I vincitori di quest’anno non offrono risposte conclusive, ma le loro scoperte ci hanno portato molto più vicino a rispondere alla domanda su come possiamo ottenere una crescita economica globale sostenuta e sostenibile», continua il testo.

In passato altre personalità hanno ricevuto un Premio Nobel per il loro impegno per la difesa dell’ambiente. Nel 2004 il comitato norvegese ha assegnato il Nobel per la Pace all’ambientalista e attivista keniota Wangari Maathai, fondatrice del Green Belt Movement e nota per la sua campagna contro la deforestazione.

Tre anni dopo, nel 2007, il Nobel per la Pace è andato all’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC o Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico) e all’ex vicepresidente statunitense Al Gore, fondatore dell’Alliance for Climate Protection. Il comitato di Oslo ha voluto premiare «i loro sforzi per costruire e diffondere una conoscenza maggiore sul cambiamento climatico provocato dall’uomo e per porre le basi per le misure necessarie a contrastare tale cambiamento».

Allarme dell’IPCC

E sempre lunedì 8 ottobre, l’IPCC ha lanciato il primo Rapporto speciale sul cambiamento globale, intitolato Global Warming of 1.5°C [1]. Approvato sabato 6 settembre a Incheon, nella Corea del Sud, il documento avverte con parole nette che non c’è più tempo da perdere.

«Uno dei messaggi chiave che emerge con molta forza da questo rapporto è che stiamo già vedendo le conseguenze di un riscaldamento globale di 1°C attraverso condizioni meteo più estreme, l’innalzamento dei livelli del mare e la diminuzione del ghiaccio del Mare Artico, tra altri cambiamenti», ha dichiarato il co-presidente del Working Group I dell’IPCC, Panmao Zhai, in un comunicato stampa.

Da parte sua, Hans-Otto Pörtner, co-presidente del Working Group II, ha aggiunto che «importa ogni extra piccola quantità di riscaldamento, specialmente per il fatto che un riscaldamento di 1,5°C o oltre aumenta il rischio associato a cambiamenti a lungo termine o irreversibili, come ad esempio la perdita di alcuni ecosistemi».

Per limitare l’aumento del riscaldamento a 1,5°C, che secondo il co-presidente del Working Group III, Jim Skea, è «possibile entro le leggi della chimica e della fisica», servono secondo gli autori del rapporto infatti cambiamenti «rapidi e di vasta portata». Senza azioni urgenti, già nel 2030, vale a dire tra appena 12 anni, l’aumento della temperatura media globale potrebbe superare la soglia critica degli 1,5°C, così avverte il rapporto.

*

1] Il titolo completo del documento è: Global Warming of 1.5°C, an IPCC special report on the impacts of global warming of 1.5°C above pre-industrial levels and related global greenhouse gas emission pathways, in the context of strengthening the global response to the threat of climate change, sustainable development, and efforts to eradicate poverty.

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