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Roulette russa e sequestri: il capolinea umano dei giovani, quelli accanto a noi

GIOVANI, STRADA, CAMMINARE
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Annalisa Teggi - published on 26/11/18
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Avevano entrambi 15 anni, uno è morto per “gioco” sui binari e l’altro è stato torturato; questo e altro accade qui, nel recinto di vita che noi adulti condividiamo coi nostri figli. Cosa ci sfugge?

È rimasto quattro ore rinchiuso in un garage, sequestrato da suoi coetanei di terza media che volevano estorcergli informazioni su un amico. Partiamo da qui, dal fatto che estorcere dovrebbe essere un verbo usato in contesti polizieschi o della malavita, non nel tranquillo pomeriggio di follia di un quindicenne. In ogni caso, non voglio fare la scandalizzata, ma la ferita. Sono madre di un figlio coscienzioso e buono, ma che ho sentito dire a bassa voce al fratello: “Se non fai come ti ho detto, finisce male e sai in che modo“. Parole dette per spaventare, parole sbagliate che mi hanno portato a fare una lunga chiacchierata con lui. La rivalità tra fratelli ci sta, ma da dove saltano fuori queste pose così violente? Perché ti stai atteggiando a chi davvero non sei? – gli ho chiesto.


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Avevo la testa in fermento quando ho guardato le notizie e mi sono soffermata su quelle che hanno per protagonisti dei minorenni; ho sentito il peso del buio, qui oltre l’uscio di casa mia.

Un assedio invisibile?

Torniamo, allora, a certi recenti fatti di cronaca. Entrambi sono capitati in Lombardia, ma questa è solo una concomitanza casuale per nulla significativa: spostando la ricerca in altre settimane, lievitano episodi orribili in ogni frazione italiana. Segno di una pandemia che è visibilissima negli effetti estremi e apparentemente invisibile nei segnali premonitori.

A Varese è stato un debito di droga a scatenare l’ira di un gruppo di giovanissimi che ne hanno sequestrato per 4 ore un altro, chiudendolo in un garage e legandolo con fili elettrici e poi …

picchiato e colpito sui piedi con una spranga di metallo, minacciato con un bastone chiodato e un un coltello puntato alla gola. Uno dei giovani si sarebbe avvicinato al volto della vittima e gli avrebbe strappato l’orecchino per poi indossarlo in un video postato su Instagram. (da Repubblica)

BULLYING

Lightfield studios – Shutterstock

È evidente che la macabra scena ricalca la trama di scene viste in TV o giocate virtualmente sullo schermo della Playstation, ma la colpa non è solo della grande disponibilità di violenza su ogni piattaforma video. Pure io da piccola vedevo film gialli anche cruenti, trascorrevo serate che ricordo belle insieme a mia nonna che era un’appassionata del genere; forse qualcuno l’avrebbe bacchettata, invece io la ringrazio perché era un’esperienza condivisa con cui si giudicava assieme il male e la coscienza maturava. Non ero di molto più grande quando non mi fu impedito di vedere film durissimi sulla guerra in Vietnam; eppure, anche in quel caso ne ebbi un contraccolpo traumatico sì, ma nell’imparare la pietà e nel rendermi conto di come l’essere umano poteva diventare un mostro.



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C’è da dire che vedere un film non era un’esperienza solitaria quando ero piccola; mia madre di solito accompagnava le scene di guerra più pesanti raccontando di come anche mio nonno in Albania aveva patito l’inferno, ma aveva anche conosciuto l’eroismo semplice di amici soldati pronti a dare la vita. C’è da dire che in molte pellicole di oggi manca una qualsiasi visione generale che distingua il male dal bene, il senso di una storia sembra diventato quello di stordirci di immagini, eventi al limite del credibile, lasciare a bocca aperta con abiezioni senza redenzione. C’è da dire, tanto.

Là fuori, negli ordinari pomeriggi di provincia, i nostri figli – li chiamo così, perché quando li incrocio sfaccendati e arrabbiati li considero parte anche mia – replicano a modo loro a quello sconclusionato putiferio che hanno dentro e a cui non sanno dare un nome, un senso; colpevoli siamo anche noi, abitanti di uno spazio pieno di zeppo di dramma allo stato brado e ben pochi recinti di gioia o lacrime condivise.

MAN SITTING,HEAD DOWN

Tero Vesalainen | Shutterstock

Li lasciamo sempre più soli, anche quando siamo bravi genitori e diciamo che devono responsabilizzarsi e crescere. Restano soli, in un mondo che non vuole altro che monadi da plagiare.

Passatempi che uccidono, proposte che salvano

A Parabiago in provincia di Milano è morto un 15enne che giocava insieme a un amico 13enne a una macabra roulette russa sui binari: restare sdraiati il più possibile mentre un treno si avvicina.

C’è chi dice di averlo visto sdraiarsi sui binari. Una volta, poi un’altra, mentre gli amici ridevano. E poi ancora, l’ultima volta, quando gli altri ragazzi hanno visto arrivare in lontananza i fari del treno. Le luci farsi sempre più vicine, il rumore a coprire le loro grida per dirgli di stare immobile, di non alzarsi dalle rotaie. (da Corriere)

Poi quando la morte arriva, davvero, c’è come un risveglio alla realtà: i compagni di questo amico rimasto schiacciato sotto un treno sono stati ricoverati in stato di shock.


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La realtà vissuta sopra le righe – la musica nelle orecchie, il fumo a portata di mano, la noia anche col cellulare in mano – è piombata loro addosso con tutto il peso che ha. Sarà stato brutale rendersi conto che siamo mortali sul serio, carne fragilissima e irripetibile. Piangeranno, mi auguro. Ma poi, qualcuno li abbraccerà questi sciocchissimi stupidi che ora sanno qualcosa di autentico sul male?


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Ci sono i cori scandalizzati di quelli che considerano questi passatempi orribili roba estrema, da pseudo-criminali. Non c’è un abisso poi così enorme tra quelli che si sdraiano sui binari e quelli che ogni benedetto pomeriggio stanno a ciondolare fuori e dentro i centri commerciali. Randagi e annoiati. Sembrano frotte di deportati, ma con un’allegria innaturale addosso. Urlano, sghignazzano, si spingono. Poi si disperdono. Da dove vengono e dove andranno? Sono assetati di occasioni, se qualcuno proporrà loro un divertimento estremo, cosa li tratterrà dal seguirlo?

L’elenco dei nostra culpa è lungo: e la scuola che non educa, e il lavoro che ci tiene lontano dai figli, e la violenza dei videogiochi, e le cattive compagnie, e le nuove droghe. Finita la lamentazione è ora di andare a dormire; domani è un altro giorno identico al precedente.

STUDENTS

Shutterstock-pixinoo

Torno a mio figlio, il cui cuore conosco e non conosco; torno al fatto che anche lui – così vicino a me – nel suo piccolo è stato irretito dall’ipotesi che la violenza sia un modo di affermare la sua presenza. Non basta un discorso per scardinare la logica, i discorsi li ascolta pochissimo. Quando avevo la sua età forse ero più mansueta, ma dentro avevo lo stesso tormento irrisolto. I ricordi di allora restano vividi e impressi nella memoria come nessun altro: certi episodi risibili di prese in giro o anche di soddisfazioni riemergono con una forza inspiegabile, una nitidezza di dolore o felicità che non ho più rivissuto. L’esperienza è più esperienza, a quell’età … s’incolla meglio, perdura, riverbera. È la semina; e il chicco si pianta per bene nella terra, se di terra ce n’è.


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Non voglio coprire l’orizzonte di mio figlio, voglio portargli la terra e il concime. Domenica l’ho portato a fare la Colletta alimentare: è stato per due ore a sistemare barattoli di pelati e confezioni di pasta, seguiva le indicazioni dei responsabili e non si tirava indietro dalle mansioni. Gli è piaciuto sentirsi utile, essere chiamato in causa e sapere che le sue mani hanno contribuito a fare del bene a persone in difficoltà.


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Non c’è poi da scomodare trattati di psicologia o imprecazioni contro un mondo alla deriva. C’è da essere con loro; l’autonomia non è responsabilità finché il cuore non è educato. E se un cuore ha bisogno di più tempo, più occasioni, più proposte per essere educato, gli staremo accanto di più. Non addosso, ma accanto. Chissà come avrà guardato casa sua Zaccheo il giorno in cui Gesù gli disse che sarebbe andato a trovarlo? Ogni persona è una casa in cui è bello abitare, ogni anima è un luogo accogliente e benvenuto che può essere pieno di uno spazio di ospitalità, creatività, scoperte.

“Voglio venire a casa tua” è la voce che aspettano quelli là, che ciondolano in giro per le strade o nei centri commerciali. Nessuno ha ancora fatto vedere il posto più bello da cui stanno scappando: il loro io. Tocca a noi.

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