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Quando un tuareg incontra Gesù

Moussa a livré son témoignage lors de la présentation du rapport de l'AED sur la liberté religieuse dans le monde.

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Sylvain Dorient - pubblicato il 04/12/18
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Musulmano radicale che aveva scelto la via del jihad, Moussa è stato convertito da un incontro con un cristiano che era sul punto di assassinare. Ecco la sua testimonianza.

La luce del giorno permetteva di leggere il Corano, la notte mi obbligava a esercitare la mia memoria e così lo recitavo, in fondo alla mia tenda. Non c’era alcun dubbio che la successione del sole e delle stelle sul deserto, dove i dromedari incedevano coi loro passi felpati, fosse stata organizzata da Dio stesso con questo fine. Dio ci insegnava, Dio provava la nostra fede. A sei anni, conoscevo a memoria i testi sacri.



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Dio dirigeva le nostre mandrie nella mia regione natale, dal nord del Mali, e io ero nella sua mano. Io, Moussa, il primogenito di un dignitario, di un imam molto rispettato, che aveva un ruolo preponderante nella nostra comunità di un qualche centinaio di tuareg. Insieme, percorrevamo la nostra terra secondo un ritmo immemorabile. Sarei succeduto a mio padre con la medesima certezza con cui trovavamo il nostro cammino sulle piste del Sahel.

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In questo incrollabile universo, un rumore terribile corse di tenda in tenda. Uno dei nostri, Alou, aveva tradito Dio. Si era unito ai cristiani! Lo conoscevo un po’, sebbene non fosse del mio accampamento. La notizia del suo tradimento era stata portata dalla sua famiglia, che domandava forte e chiaro a ogni buon musulmano di liberare il mondo da quell’apostata. Una storia che mi pesava. Interveniva talvolta all’improvviso, interrompendo il corso delle mie cinque preghiere di musulmano, che recitavo fedelmente.

Partito per lo jihad

Avevo sedici anni. Erano le quattro del mattino, l’ora della prima preghiera, ed eravamo riuniti coi miei pari per onorare Dio. La sua presenza era tanto evidente quanto quella delle stelle, che sembravano essere lì lì per toccarci. Davanti alla maestà della Creazione, il ricordo del tradimento di Alou era un pugno nello stomaco. Era come una macchia nel bel mezzo dello splendore divino. Presi la risoluzione di eliminarlo. Prendevo la via del jihad: avrei spedito l’apostata all’inferno.



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Era una faccenda tra Allah e me. Sono partito da solo quella mattina stessa, con la pistola che m’ero comprato a quattordici anni. Partivo per la città perché sapevo che vi avrei trovato Alou. C’erano quattrocento chilometri da percorrere, li facevo a piedi. Per i tuareg, i mezzi di trasporto e i cammelli sono riservati ai vecchi e ai bambini. Arrivato in città, dovetti prendere l’autobus per la prima volta, per poi trovare la casa di mio zio, perché nell’ambiente urbano non sapevo orientarmi. Ho vissuto da lui e andavo a scuola, ma al contempo raccoglievo informazioni per trovare l’apostata.

Finii per apprendere che Alou studiava anche lui, in una missione. L’ho aspettato davanti alla porta. Quando ne è uscito mi ha salutato e ha lasciato che lo conducessi in disparte. Mi ha detto:

So cosa vuoi fare: vuoi forzarmi a pronunciare la chahada [professione di fede islamica]. E se non lo faccio mi ucciderai.

Non avevo neppure tirato fuori la pistola. Ha proseguito:

È il meglio che tu possa fare per me: uccidermi. Mi confermerai nella mia fede.

Ero stupefatto, sbalordito. E mi ha detto:

Prima di questo, però, voglio che tu sappia che c’è qualcuno che ti ama: è Issa.

Conoscevo Issa, Gesù in arabo, grande profeta del Corano, ma Alou mi ha parlato di lui in termini molto strani. Il suo Issa dava la vita per noi, come un martire. Il suo discorso mi gettava nella perplessità, e lui lo vedeva. Per concludere, mi ha detto: «Ascolta, ripensa a queste cose e torna a trovarmi».

Di ritorno da mio zio, presi a vivere nel dubbio. Ho cessato di predicare, io che ero molto ascoltato in moschea, in quanto figlio di dignitario. Trascuravo la mia preghiera. Mio zio è venuto a trovarmi e mi ha chiesto che cosa non andasse. Ho risposto che non credevo più in Dio, e lui s’è acceso di una terribile collera:

Poiché porti il medesimo nome di mio padre, non ti ucciderò. Esci da casa mia. Dirò alla tua famiglia che sei diventato cristiano!

Rigettato dai suoi

Ho preso la via del ritorno e ho finito per ritrovare la mia famiglia, dopo essere passato di accampamento in accampamento. La sera, si preparava un grande fuoco. Me ne rallegravo, perché questo significava che si celebrava qualcosa, ma vidi presto che non c’era aria di festa. I miei genitori, zii, nonni, duecento persone in tutto, mi circondavano. Il nonno prese la parola:

– È vero che hai abbracciato la religione dei bianchi?

– No, io non credo più in Dio. Tutto qui.

– Pronuncia la chahada!

– No, non ci credo più!

Gli uomini si sono piombati su di me: mi hanno spogliato e legato a un albero. Porto ancora il segno delle corde sui polsi. Sono rimasto lì nel freddo della notte per cinque giorni. Al quinto, alle sei del mattino, un cugino ha tagliato i lacci e mi ha dato dei pantaloni. Mi ha detto: «Vogliono ucciderti, scappa. Ma non passare per gli accampamenti tuareg». Sono partito, ospitato dai Fulani, e sono tornato alla scuola della città. Dormivo su un banco e mangiavo in cantina.

Misteriosi benefattori

Inspiegabilmente, ricevevo delle lettere a scuola. Contenevano dei documenti di Aiuto alla Chiesa che Soffre che mi rendevano edotto delle sofferenze dei cristiani nel mondo. Sofferenze che assomigliavano alle mie, e questo mi toccava. In questo periodo ho incontrato Gesù sofferente, anche prima di aver accesso ai Vangeli.



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Un giorno, una bella automobile si è fermata davanti a me e una donna bianca che non conoscevo mi ha detto: «Venga con noi: la sua famiglia l’ha trovata e la vogliono uccidere». Sono partito in macchina e mi hanno portato all’Ambasciata svizzera in Mali. L’ambasciatrice in persona mi ha permesso di ottenere un passaporto diplomatico per lasciare il mio Paese. Fui meravigliosamente accolto, in Svizzera, e scoprivo una Chiesa che pregava per i cristiani perseguitati e che si dava da fare per loro. Mi sono unito ad essa e sono tornato in Mali non appena ho potuto, per diventare a mia volta un missionario. Come quelli che mi avevano aiutato clandestinamente, e con discrezione perfetta, quando ero io nel bisogno.

La mia vita non mi apparteneva più. Potevo essere ucciso in ogni momento, e così ho deciso di non sposarmi per non lasciare al mondo vedove e orfani. In Mali, ho lavorato come educatore, ho inviato il mio primo salario ai miei genitori, come da noi è costume che si faccia. Ma il denaro mi è tornato indietro. Mia madre mi ha scritto che per loro ero morto. Fu una terribile sofferenza, che ancora mi brucia. Tutte le sere prego per loro, tutte le sere – da venticinque anni – li perdono.

[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]

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