Daniele Mencarelli è poeta e padre, da ragazzo ha conosciuto l’autodistruzione delle dipendenze; ma ha trovato giganti falò di luce tra le corsie dell’ospedale dei bambini di Roma. Lì, lo sguardo è tornato a Dio: proteggili tutti, proteggici tutti.Ho conosciuto Daniele ai tempi dell’università, quando nel tumulto di un’età ancora incerta ci faceva compagnia l’esperienza della poesia. Lui era già un poeta di talento, io più che altro ascoltavo quello che si condivideva al Centro di Poesia Contemporanea di cui era istrione Davide Rondoni. A molti anni di distanza ho ritrovato Daniele a Roma, divenuto marito e padre nel frattempo, e con un romanzo pubblicato per Mondadori, dove mette a nudo tutto se stesso. Parlare di sé può essere la via meno egocentrica possibile, perché donare le proprie ferite agli altri, amici e sconosciuti, è affermare una compagnia originaria: siamo fratelli di dolore, assetati di un abbraccio di speranza.
Caro Daniele, siamo felici che tu condivida la tua storia con Aleteia For Her. Sei un poeta e il pensiero dell’uomo comune è che i poeti siano tipi con la testa fra le nuvole, fuori dal mondo concreto, operativo. Tu, invece, dici che l’unica droga dell’artista è la realtà…
Hai ragione, si immagina il poeta e la poesia come qualcosa di decontestualizzato dalla realtà, dalla vita comune, preso da astrazioni sentimentali, tutt’al più intellettualoidi. Niente di tutto questo. Il poeta si radica nella sua realtà come una quercia, scava in profondità e allo stesso tempo punta al cielo.
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Le radici che il poeta mette sono linguistiche, di appartenenza, memoria, il rapporto che sancisce con la propria terra è unico, ne diviene voce prima, sempre corale.Tornando al discorso: la realtà viene prima di tutto, perché solo la realtà ha la forza della rivelazione, del segno, perché in essa agiamo e ci conosciamo nel profondo, il resto sono divagazioni, sogni o incubi, messe in scena che ci fanno affogare nella nostra mente. Sin da bambino mi sono visto come una specie di sentinella, sempre all’erta di fronte a quello che sbocciava di fronte ai miei occhi. Guardare, stare a guardia, per proteggere ciò che si ama, e per tendere domande, per cercare indizi. Per me la poesia è la lingua d’elezione per raccontare tutto questo. Adamitica, tremante.
Chesterton con un aforisma fulminante disse: “i poeti non impazziscono, ma i giocatori di scacchi sì”. Ad un mondo ossessionato dal controllo, dal calcolo esasperato delle mosse vincenti, cosa porta di liberante il poeta? i poeti che hai amato che occhi ti hanno donato?
I poeti che amo mi hanno donato corto circuiti, ossimori, momenti di liberazione assoluti, di fratellanza oltre il tempo e lo spazio. Hanno dato al mio dolore altre vie e vite, mi hanno detto che non ero il solo a soffrire, o ad amare smisuratamente. La poesia spezza il calcolo, la smania di controllo, con il coraggio dell’abbandono, del salto senza rete di sicurezza. Ci si lancia nelle parole con una volontà fanciulla: restituire su un foglio la grandezza che ci esplode negli occhi.
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Ecco, i poeti portano di liberante questa tensione assoluta verso la vita, le restituiscono la misura reale, la profondità celeste. Lo fanno con il mezzo più povero e misterioso, meravigliosamente delicato. La parola. Come un nuovo venire al mondo.
Una cosa che “il giocatore di scacchi” non può permettersi è la fragilità. È una di quelle ferite di cui il mondo non ha pietà. Tu racconti la tua ferita, lo scoprire che è impossibile proteggere chi si ama, e poi quel tentativo sghembo, scomposto di metterla a tacere facendosi del male: hai conosciuto l’incubo delle dipendenze sulla tua pelle, cosa dici a chi ti è compagno in questa fragilità?
Attorno ai vent’anni ho scoperto che il mio stare a guardia era inutile, si può vegliare, ma non salvare. Questa constatazione, ancora oggi, mi scuote profondamente, in questo momento accanto a me ho mia figlia, la guardo e so che non posso proteggerla dal tempo, dalla morte. A vent’anni presi, allora, la via contraria, quella dell’autodistruzione, delle droghe, l’alcol. Ci si distrugge un tanto al giorno per mancanza di forza, esseri fragili come lastre di cristallo.
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Oggi ho 44 anni, la fragilità è rimasta la stessa, ora però riesco a intuirne la reale fisionomia, oggi ho il coraggio di guardare in faccia le cose, e una consapevolezza: quando si ama veramente i limiti della nostra vita contrastano vertiginosamente con la reale portata di quello che sentiamo nel profondo. I miei amori non rispondono al tempo, alla morte. La vera pazzia, la vera fragilità insanabile, è vivere senza mai porsi in modo autentico di fronte a questi temi. Ai miei compagni di fragilità dico: uscite di casa, il male si realizza nel progressivo autoesilio, e non sentitevi soli nel dolore, raccontatelo, condividetelo, sputatelo fuori.
Poi la Provvidenza ti ha portato, proprio mentre eri nel buio pesto della tua a vita, a lavorare come addetto alle pulizie all’ospedale Bambino Gesù. Una via di cura personale che arriva, paradossalmente, scendendo nel buio altrui, dei piccoli. Ma non hai visto solo buio, lì dentro …
Il Bambino Gesù è entrato nella mia vita come una trincea, una battaglia fatta di malattia e cura, di speranza. Nel luogo più buio, di guerra, ho visto balenare falò giganteschi, fasci di luce più potenti del sole. Dove il dolore sembra vincere, ho rinvenuto l’amore nella sua espressione più lancinante.
L’ospedale Bambino Gesù mi ha salvato, mi ha restituito alla realtà, per tornare alla tua prima domanda…mi ha fatto dono di mille alfabeti, di gesti indimenticabili, mi ha sussurrato che in guerra tutto è permesso, tranne negarsi al corpo a corpo con Dio. In mezzo a un campo di battaglia è raro incrociare atei…
L’io non si salva da solo. C’è una benedetta umiltà salvifica nell’accettare la trama di incontri che la realtà ci porta, è come uno dei tanti pazienti che hai visto in ospedale e chiami Toc Toc: qualcuno bussa alla nostra finestra e chiede di essere guardato. Come è fiorito il tuo io a tu per tu coi tuoi colleghi e coi pazienti dell’ospedale?
La poesia è l’arte dell’incontro. La mia vita è stata educata, alimentata, da persone incrociate per strada, capace di gesti inattesi, rivelatori. Persone con storie gigantesche. Vorrei avere venti vite per raccontarle tutte. Una spugna marina. Al Bambino Gesù mi sono imbevuto di vite, i miei colleghi sono diventati fratelli, ragazzi alle prese con la vita, con problemi che io, cresciuto in una famiglia piccolo borghese, neanche immaginavo.
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La visione dei bambini malati ha rappresentato l’abisso, il vertice più profondo del dolore che abbia avuto modo di scorgere nella mia vita. Ritorno al Bambino Gesù come luogo di guerra: sotto un bombardamento capita di salvare ed essere salvati, ci si affratella di fronte al comune pericolo. Toc Toc, il bambino malato con cui avvio un dialogo senza parole, ma di sorrisi e giochi, rappresenta esattamente questo, come un fratello minore mi è corso in aiuto, lui che ne aveva bisogno molto più di me, ha bussato alla finestra per salvarmi, mi ha svegliato dal torpore, dagli incubi che mi ero scelto di vivere. Salvezza. Accarezzo questa parola tutti i giorni, tutti i minuti.
E Dio? tu scrivi questo: “Non ho Dio tra i miei amici, l’ho cercato spesso, forse nei momenti, nei luoghi sbagliati, ma ne sento la mano, nella bellezza delle cose, negli interrogativi che l’amore mi fa piangere”. Si può dire che la mano di Dio sia tutt’uno con la speranza che non si può non avere nei luoghi di guerra, come un ospedale?
Faccio fatico a pronunciare alcune parole, mi sale una specie di pudore, ho paura di sporcarle. Dio è una di queste parole. Ma anche Poesia. In alcuni luoghi, però, questo pudore svanisce, è come se la mia voce uscisse con un altro suono, un’altra forza.
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Dentro il Bambino Gesù, ci sono tornato proprio questa mattina per un appuntamento legato al romanzo, pronunciare la parola Dio mi torna naturale come il respiro, come la commozione di fronte al dolore, come la reazione che diventa preghiera sottesa. Proteggili tutti, proteggici tutti. In una delle poesie che ho dedicato all’ospedale dico: se valgono questi versi una preghiera. La speranza, la più grande, temeraria, è che queste parole siano gradite al Padrone della speranza, il Padre di tutti.