Brexit: «breve pausa di respiro» per Theresa May
Dopo aver superato mercoledì 16 gennaio con una stretta maggioranza (solo 19 voti di scarto) la mozione di fiducia presentata nei suoi confronti dal leader del partito laburista, Jeremy Corbyn, la premier britannica Theresa May ha una «breve pausa di respiro» per preparare le sue prossime mosse, così scrive il quotidiano austriaco Die Presse. La prima ministra conservatrice deve infatti presentare entro lunedì prossimo il suo «piano B» per la Brexit. Il suo compito si annuncia sempre molto arduo.
Il capo del maggior partito dell’opposizione, cioè Corbyn, ha posto infatti delle condizioni. Vuole che la May scarti ogni ipotesi di una Brexit «no deal», ossia senza un accordo con Bruxelles. Da parte loro, i leader dei LibDem (Liberal Democratici), del Green Party, dello Scottish National Party (SNP) e del Partito del Galles (Plaid Cymru) a Westminster hanno annunciato che nell’attuale situazione di stallo «l’unica via da seguire» è il «voto popolare», cioè un nuovo referendum, così riporta il sito PoliticsHome. Hanno perciò chiesto a Corbyn di appoggiare l’idea di una consultazione popolare.
L’eventualità di un’uscita del Regno Unito dall’UE senza accordo preoccupa anche molti Paesi europei. Il premier francese Edouard Philippe ha attivato giovedì 17 gennaio un piano per far fronte ad una possibile Brexit «brutale» o «no deal», diventata ormai «sempre meno improbabile». Forte preoccupazione ha espresso anche il presidente della Federazione dell’Industria Tedesca (BDI), Dieter Kempf. Un’uscita «no deal» «semplicemente non è un’opzione», così ha detto.
Zimbabwe: mano dura del governo contro le proteste di piazza
Le autorità dello Zimbabwe usano la mano pesante per arginare le proteste di piazza scoppiate lunedì 14 gennaio nel Paese in seguito al rialzo repentino dei prezzi del carburante deciso dal governo del presidente Emmerson Mnangagwa. Il prezzo della benzina è salito da 1,24 dollari statunitensi (il Paese dell’Africa australe ha abbandonato infatti nel 2015 la propria valuta) a 3,31 dollari e quello del gasolio da 1,36 dollari al litro a 3,1 dollari, così riporta Brian Hungwe sul sito della BBC. La repressione della protesta ha provocato già varie vittime (almeno otto, secondo Amnesty International) e centinaia di persone sono state arrestate dalle forze dell’ordine.
Tra gli arrestati spicca uno degli esponenti delle proteste del 2016 contro l’allora dittatore Robert Mugabe, il pastore battista Evan Mawarire. Il noto oppositore, che è stato prelevato mercoledì 16 gennaio dalla polizia dalla sua casa nella capitale Harare, viene accusato di aver organizzato le manifestazioni contro il caro carburante e di incitamento alla violenza pubblica. Mentre il governo ha costretto il più grande operatore di telefonia mobile del Paese, Econet Wireless Zimbabwe Ltd., a bloccare l’accesso a Internet e ai social media, è proprio attraverso Twitter e Facebook che il presidente Mnangagwa si è pronunciato sulle proteste. «La violenza non riformerà la nostra economia. La violenza non ricostruirà la nostra Nazione.», così ha scritto in una dichiarazione.
Human Rights Watch: pubblicato il «World Report 2019»
«Per certi versi questo è un periodo buio per i diritti umani». Con queste parole inizia il nuovo rapporto pubblicato giovedì 17 gennaio da Human Rights Watch (HRW). «Tuttavia, mentre gli autocrati e gli abusatori dei diritti possono conquistare le prime pagine, anche i difensori dei diritti umani, della democrazia e dello Stato di diritto stanno acquistando forza», continua il «World Report 2019». Giunto alla 29esima edizione, il rapporto 2019 di HRW è incentrato «su autocrati e populisti con tendenze autoritarie e sulla crescente resistenza contro questi politici», ha dichiarato il direttore di HRW Germania, Wenzel Michalski, alla Deutsche Welle. Lo dimostrano ad esempio le manifestazioni di protesta in Paesi come la Polonia e l’Ungheria.
Tra i Paesi di particolare interesse o preoccupazione spiccano il Venezuela, dove l’attuale crisi economica e umanitaria illustra il «costo umano» dei regimi autocratici, ma anche la Cina, dove si registra sotto il presidente Xi Jinping una «crescente repressione», ad esempio contro i cristiani ma anche contro la popolazione musulmana della regione autonoma uigura dello Xinjiang. «Il livello di repressione è aumentato drammaticamente da quando il segretario del Partito Comunista Chen Quanguo è stato trasferito dalla regione autonoma del Tibet per assumere la guida dello Xinjiang alla fine del 2016», sottolineano gli autori del rapporto, che lamentano anche un peggioramento della situazione negli USA sotto l’amministrazione Trump.
Francia: nuovo calo delle nascite
Per il quarto anno consecutivo sono calate le nascite in Francia. Lo rivelano i dati diffusi martedì 15 gennaio dall’Istituto Nazionale della Statistica e degli Studi Economici (INSEE). Nel 2018, 758.000 bambini hanno visto la luce, vale a dire 12.000 in meno rispetto al 2017 e 60.000 in meno rispetto al 2014, come sintetizza il quotidiano Le Monde. Secondo l’INSEE, il tasso di fertilità, che nel 2018 si è attestato a 1,87 figli per donna in età riproduttiva (nel 2017 era di 1,90 figli per donna), è in calo da quattro anni, ma il ritmo sta rallentando. A spiegare in parte il calo delle nascite è la diminuzione del numero di donne in età riproduttiva: nel 2018, la Francia contava 8,4 milioni di donne nella fascia d’età 20-40 anni, rispetto a 8,8 milioni nel 2008 e 9,1 milioni nel 1998.
Nonostante il calo delle nascite, la popolazione francese è aumentata nell’arco del 2018. Al 1° gennaio 2019, il Paese aveva infatti 66.993.000 abitanti, di cui 64.812.000 nella Francia detta «metropolitana» e 2.181.000 nei DROM, ossia i dipartimenti e le regioni d’oltremare. Si tratta di un aumento dello 0,30% rispetto al 2017. A spingere l’aumento della popolazione è stato oltre alla migrazione (+58.000 persone) soprattutto il saldo naturale (differenza tra nascite e decessi): +144.000 persone (la cifra più bassa sin dalla fine della Seconda Guerra Mondiale).
Giappone: hotel licenzia metà dello staff… robot
Inaugurato «in magna pompa» nel 2015, l’albergo «Henn-na», nella città di Sasebo, nella prefettura giapponese di Nagasaki, era il primo al mondo ad avere uno staff composto quasi integralmente da robot multilingue, sia umanoidi che dinosauri (c’era ad esempio un addetto alla ricezione velociraptor). La catena che gestisce otto alberghi ha annunciato ora di aver licenziato più della metà dei suoi 243 dipendenti «robotici», così rivelano l’Independent e il Daily Mail, che rilanciano una notizia del Wall Street Journal.
La catena ha deciso di mandare via una parte dei suoi collaboratori «robotici» in seguito ai numerosi reclami ricevuti: infatti, piuttosto che ridurre il lavoro, come era nell’intenzione dei gestori, i robot creavano problemi. Mentre alcuni clienti reagivano positivamente alla novità, altri tendevano ad innervosirsi, forse anche per l’onnipresenza dei robot. Il primo ad essere licenziato è stato proprio l’assistente robotico presente in ogni stanza: Churi, così si chiama, spesso non era in grado di rispondere alle domande più basilari dei clienti. Tendevano anche a guastarsi facilmente e un robot svegliava i clienti mentre dormivano: interpretava male il rumore del russamento, pensando che fosse un comando vocale.