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Brigitte Nielsen, mamma a 54 anni: ho provato fino all’ultimo embrione

BRIGITTE NIELSEN
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Annalisa Teggi - published on 13/02/19
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‘Voglio andare avanti fino all’ultimo embrione. Qualcuno deve vincere la lotteria” racconta l’attrice lamentando i costi eccessivi della fecondazione in vitro. Che messaggio arriva a chi ha difficoltà ad avere figli? Tutto è lecito ma devi avere i soldi?È costoso ed emotivamente impegnativo diventare mamme a 54 anni, questo il succo dell’intervista che Brigitte Nielsen ha rilasciato negli scorsi giorni a The Guardian. Il filo conduttore del suo discorso è centrato su di sé, sui suoi desideri e le sue battaglie, sulla tenace voglia di avere un altro figlio. Ne aveva già quattro, tanti quanti i suoi mariti; mancava il quinto figlio con il quinto e attuale marito, Mattia Dessi.

Lo scorso giugno è arrivata Frida, definita preziosa e vero amore su Instagram.

Non c’è dubbio che una vita sia preziosa, non c’è dubbio che mamma Brigitte la ami incondizionatamente. Ma c’è uno spazio di oscurità su quello che precede la nascita di questa bambina e la Nielsen lo dichiara al giornale inglese con parole che mi spingo a dire siano agghiaccianti:

Ecco Frida, la figlia che la Nielsen e il marito, Mattia Dessi, hanno avuto lo scorso anno, dopo più di dieci anni di fecondazioni in vitro fallite. Alla coppia, che quest’anno festeggia il 16esimo anniversario, era stato detto che avrebbero avuto il 2,5% di possibilità di successo, ma alla fine la Nielsen ha partorito a 54 anni. “Io dicevo: ‘Voglio andare avanti fino all’ultimo embrione. Qualcuno deve vincere la lotteria”. E lei ce l’ha fatta. (da The Guardian)

Le critiche che piovono su questa storia riguardano l’età piuttosto avanzata dalla mamma, le lodi riguardano il suo coraggio e la tenacia. A me  questa storia della lotteria resta come un nodo in gola.


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La lotteria costosa

C’è un lato oscuro dietro certi ragionamenti del nostro tempo; ed è un lato scuro di mancanza, non per forza di cattiveria. Si ignora buona parte dell’umano come fosse nascosto dietro le quinte. Solo così può stare in piedi un ragionamento che insiste sul bello di avere figli a qualunque costo, senza davvero mettere al centro del discorso la persona che è quel figlio così desiderato. La frase pronunciata dalla giunonica attrice danese può sussistere, senza dare i brividi, solo considerando l’essere del figlio come qualcosa di estraneo alla madre. Se, infatti, come mamma identificassi il suo piccolo essere con il mio essere, potrei mai dire: “qualcuno deve vincere la lotteria” ?

Può ciascuno di noi dire di sé: “io sono qui perché ho vinto una lotteria”? Come ci si sente a dirlo? Che coscienza atterrita deve essere quella che ammette: la mia esistenza è solo un terno al lotto riuscito, a scapito di altri embrioni finiti male? Chesterton sosteneva una cosa ben diversa: ciascuno di noi è stato strappato al nulla. Ne sorge una gratitudine che madre e figlio rivolgono insieme a Chi è il vero Creatore.

Pensiamoci, dunque: ci piace davvero dire che stiamo giocando alla lotteria e c’è un premio?

L’essere di una persona non può essere il premio di qualcun altro; una creatura è, e basta. Sono questi casi estremi a ricordare quanto concreta sia la visione cristiana (in base a cui un figlio è un dono di Dio) e quanto astratto e avulso dal reale sia il pensiero di chi “vuole” un figlio. L’unico modo che c’è per tutelare la dignità infinita di ogni essere umano è dire che non appartiene ad altro essere umano. Metterlo in mano a Dio significa che non esiste lotteria umana, ma solo un pensiero originario di Bene che ti abbraccia. Nessuno di noi dipende dalla volontà o non volontà di un padre e una madre, l’umanità di ciascuno è incontenibile da altre mani umane.


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Quanti embrioni sono stati usati per concedere alla coppia Nielsen-Dessi di abbracciare Frida? E Frida – che sarà senz’altro amata con tutto il cuore – che percezione di sé avrà? Non posso non pensare che, oltre alla certezza di essere stata tanto voluta, ci sarà un frammento della sua coscienza che sentirà di essere la ciliegina sulla torta… e questo non è bello come sembra. E’ pericolosamente vicino alla logica del complemento oggetto: io voglio un figlio. I latini, che la sapevano lunga, esprimevano il medesimo rapporto con la frase: un figlio è dato a me.

Era un altro mondo, ed era un modo migliore di ragionare. Lo sguardo autentico di una madre comincia rendendo soggetto il figlio, fin da subito … dal concepimento osiamo dire. Accade. Accade che l’essere di un’altra persona sia ospitato dentro un grembo. Quando questo accadimento è pilotato con l’aggressiva determinazione di procedure mediche senza limiti, il figlio smette di essere soggetto e diventa oggetto.

E’ l’altra faccia dell’aborto. Diverso nell’esito ma identico nelle mosse. L’oggetto è buttato, l’oggetto è tenuto. Nascere dentro la lotteria dei desideri umani è l’incubo peggiore che possiamo lasciare alle nuove generazioni. La signora Nielsen è molto chiara sulla sua visione delle cose:

“Amo aver fatto nascere mia figlia ora (a 54 anni – NdR), perché non avevo idea di cosa stavo facendo quando ebbi il mio primo figlio a 20 anni. Ero sempre in giro. Prima il lavoro, prima i viaggi, prima l’amore – la gravidanza può aspettare. Anche se non c’è da aspettare fino ai 54”. (Ibid)

Che vuol dire: prima me stessa. Che poi vuol dire: la gravidanza è allo stesso livello del lavoro e dei viaggi, ma può aspettare. Una spunta in più sulle cose fatte.

Io sì, tu no

C’è poi un aspetto molto pragmatico ed elitario nella faccenda, amarissimo a ben vedere. Ho letto molti commenti postati su Instagram sotto la foto della nascita di Frida e quelli che mi hanno commosso di più sono di donne molto adulte che non hanno avuto il dono di diventare madri. Sono loro che scrivono parole di speranza amara su di sé: “se ci sei riuscita tu Brigitte, allora forse anch’io …” . Ed è una speranza che sbatte subito contro un muro fatto di denaro. Brigitte Nielsen ha avuto la disponibilità economica adeguata a provare fino all’ultimo embrione; si è lamentata molto dei costi, ma lei li ha potuti sostenere, evidentemente.

WEB SURROGATE MOTHER PREGNANCY Zhoozha:Shutterstock CC

Zhoozha Shutterstock

Non è atroce arrivare alla conclusione che c’è chi si può permettere la speranza e chi no? Un desiderio di maternità si deve scontrare con la dogana del censo? Ovviamente no, ma il cortocircuito mentale può produrre, a questo punto, l’ultimo tassello di delirio: allora rendiamo accessibili a tutti queste procedure. Sarebbe l’utopia di un regno infernale. Non è speranza quella alimentata dalla storia di Brigitte Nielsen, è l’accesso a pagamento in un cinema di egocentrismo: l’io che guarda se stesso all’infinito.

Ritorno un passo indietro, per guardare il quadro della situazione più da lontano e complessivamente. L’uomo comune con la sua vita ordinaria fatta di gioie e lacrime s’imbatte nelle storie di pochi personaggi famosi che raccontano le loro battaglie e le proprie scelte: il dibattito pubblico si innesca su questi casi. Il caso di Brigitte Nielsen riguarda il tema di diventare madri quando non si è più giovani (in realtà, abbiamo visto, il tema è ben altro) e molte donne, con i loro dolori sopiti o mezzo taciuti, vedono riaprirsi le proprie ferite e, a quel punto, vengono colpite due volte. Perché non sono diventata madre? Perché non posso anche io permettermi di provare fino all’ultimo embrione?


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La seconda domanda porta completamente fuori strada il dramma contenuto nella prima. Quello, il primo interrogativo, va sostenuto senza placebo da migliaia di euro che macinano embrioni come noccioline. Una donna ferita che accetta il mistero del suo corpo sterile è identica a una madre, perché anche in assenza di un figlio si riconosce disponibile ad accettare un’ospitalità … anche nel dolore profondissimo di non ricevere nessun ospite. Perché è madre chi innanzitutto riconosce una creatura nuova come ospite, non come suo prodotto pianificato.

Questo dolore lacerante di ospitalità mancata non è da censurare, addomesticandolo con lotterie a premi. Ci sono cure e ci sono vie per abbracciare senza disperazione l’attesa mancata di un figlio; passano da una via che raramente s’imbocca oggi: mettersi a lato della propria fotografia. Rimanere al centro della dittatura delle proprie voglie è un autodistruzione neanche troppo lenta; lasciare che dalla fotografia emergano proposte e occasioni non messe in conto, lontane dalle attese premeditate anche con buon cuore, è già l’inizio di una vera fecondità.

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