Venezuela: Guaidó lascia aperte tutte le opzioni
«Gli eventi di oggi mi obbligano a prendere una decisione: proporre in modo formale alla comunità internazionale che dobbiamo mantenere aperte tutte le opzioni per ottenere la liberazione di questa Patria, che lotta e continuerà a lottare. La speranza è nata per non morire, Venezuela!». Queste le parole del presidente dell’Assemblea Nazionale e presidente autoproclamato del Venezuela, Juan Guaidó, lanciate sabato 23 febbraio in un tweet dopo la violenza e il caos che hanno segnato la giornata della consegna degli aiuti umanitari, finita con un nulla di fatto, come osserva ad esempio la Neue Zürcher Zeitung.
I vari tentativi di far entrare i camion con cibo e medicinali sono infatti stati stroncati dai militari fedeli a Nicolás Maduro, che aveva fatto chiudere la frontiera con la Colombia. Alcuni camion con aiuti che erano riusciti a varcare il confine sono stati incendiati dalle forze di sicurezza venezuelane. La repressione ha causato varie vittime. Secondo il quotidiano spagnolo ABC, nella località di Santa Elena de Uairén, al confine con il Brasile, i militari venezuelani hanno ucciso più di 25 persone appartenenti alla comunità indigena pémon. In totale 156 militari e poliziotti venezuelani hanno disertato questo fine settimana, rivela L’Express.
Mentre Guaidó incontrerà lunedì 25 febbraio, nella capitale colombiana Bogotá, il vice-presidente americano Mike Pence e i rappresentanti del cosiddetto «Gruppo di Lima» per discutere «un piano B», come scrive La Vanguardia, vari esponenti della Chiesa cattolica in Venezuela hanno condannato la repressione del regime Maduro. «Quello che è accaduto alla frontiera è un crimine che grida al cielo. L’attacco e l’assassinio di civili disarmati da parte di bande armate e la distruzione di medicine e alimenti implica una grave responsabilità secondo il diritto internazionale, che prevede forti sanzioni», ha dichiarato ad esempio il vice-presidente della Conferenza Episcopale del Venezuela (CEV), mons. Raul Biord, vescovo di La Guaira, citato dal SIR.
Vietnam: in attesa del secondo incontro tra Donald Trump e Kim Jong-un
Nella capitale del Vietnam, Hanoi, il presidente statunitense Donald Trump incontrerà mercoledì 27 e giovedì 28 febbraio il suo omologo nordcoreano Kim Jong-un. Si tratterà del secondo faccia a faccia tra i due leader dopo quello avvenuto il 12 giugno scorso sull’isola di Sentosa nella città-stato di Singapore.
L’inquilino della Casa Bianca si dimostra piuttosto ottimista. «Il presidente Kim realizza, forse meglio di chiunque altro, che senza armi nucleari il suo Paese potrebbe rapidamente diventare una delle grandi potenze economiche mondiali. A causa della sua posizione e persone (e lui), ha più potenziale di crescita rapida di qualsiasi altra nazione!», così ha scritto Trump domenica 24 febbraio in un messaggio su Twitter.
Se il presidente USA riuscirà ad ottenere una «denuclearizzazione completa» della Corea, rimane però ancora da vedere. Infatti, secondo uno studio del «Center for International Security and Cooperation» (CISAC) della prestigiosa Università di Stanford, Pyongyang avrebbe prodotto nel corso degli ultimi mesi il materiale sufficiente per aggiungere sette nuovi ordigni nucleari al suo attuale (possibile) arsenale di 37, ricorda il Daily Mail. Questo significa che la Corea del Nord continua ad essere una minaccia nucleare, nonostante l’ottimismo espresso da Trump nel giugno 2018.
La decisione di scegliere il Vietnam per il secondo summit Trump-Kim è anche significativa. L’apertura del Paese al capitalismo, la sua rapida ascesa economica e la normalizzazione delle relazioni tra Hanoi e Washington nel 1995, potrebbero infatti fungere da «modello» per Kim. Ma molti, come uno dei massimi esperti sulla Corea del Nord, Andrei Lankov, sono scettici sul fatto che questo possa funzionare con Kim. Secondo Lankov, citato dalla CNN, si può negoziare con il regime «una riduzione delle armi nucleari, ma la denuclearizzazione è una chimera». «Per i nordcoreani, la sicurezza viene prima di tutto. E credono che la loro sicurezza sia imperfetta se non hanno alcune armi nucleari».
Algeria: proteste contro la nuova candidatura di Bouteflika
Secondo fonti della polizia, circa 100.000 persone sono scese venerdì 22 febbraio nelle strade di Algeri e hanno sfidato il divieto di manifestare che vige dagli anni ’90 nella capitale algerina, come ricorda Le Figaro, per protestare contro la nuova candidatura del presidente Abdelaziz Bouteflika nelle presidenziali del 18 aprile. Le manifestazioni si sono svolte in varie città, tra cui Annaba e Oran, inoltre nella regione della Cabilia, e anche a Ouargla e Adrar, nel sud del Paese. In totale circa 800.000 persone hanno partecipato alle manifestazioni, così indica il quotidiano francese, che parla di una giornata «storica». Una nuova dimostrazione, convocata domenica 24 febbraio dal movimento Muwatana (fondato nel giugno 2018 da un gruppo di intellettuali proprio per opporsi ad un nuovo mandato di Bouteflika), è stata dispersa rapidamente dalla polizia.
Eletto per la prima volta nel 1999 senza opposizione, Bouteflika è stato «continuamente rieletto dal 2004 con oltre l’80% dei voti al primo turno», ricorda Le Monde. Molti algerini si oppongono ad un eventuale quinto mandato di Bouteflika anche per le precarie condizioni di salute dell’anziano presidente (compirà infatti 82 anni a marzo). Colpito da un ictus nel 2013, Bouteflika ha passato il suo ultimo mandato «a letto», osserva in un’intervista con Libération il direttore dell’Osservatorio dei Paesi Arabi (OPA), Antoine Basbous. «L’Algeria è costituita in maggioranza da giovani che rifiutano di vedere una persona costretta a letto, già presente nel primo governo dopo l’indipendenza, nel 1962, concedersi un quinto mandato dopo venti anni di potere», spiega il politologo
Elezioni in Moldavia: la formazione di un nuovo governo si annuncia molto difficile
Stretti tra una svolta europeista da un lato e da un avvicinamento alla Russia di Vladimir Putin dall’altro lato, i cittadini della Moldavia (il piccolo Paese dell’Europa Orientale conta circa 3,5 milioni di abitanti) hanno eletto domenica 24 febbraio un Parlamento «dominato dai filo-russi ma senza una chiara maggioranza», così scrive L’Express. Nuove elezioni non sono da escludere.
Cinque anni dopo la firma di un accordo di associazione con l’Unione Europa, ad imporsi nelle elezioni è stato infatti il Partito Socialista dell’attuale presidente pro-russo Igor Dodon, che ha ottenuto il 31,3% dei voti e 34 seggi nel parlamento di Chișinău. Al secondo posto è arrivata l’alleanza pro-europea ACUM, che ha ottenuto con il 26,7 delle preferenze 26 seggi. La terza formazione nel parlamento moldavo è il Partito Democratico dell’imprenditore Vlad (o Vladimir) Plahotniuc (una delle persone più ricche di tutta la Moldavia) con il 23,7% dei voti. Il quarto ed ultimo partito a superare la soglia del 6% è stato quello di un altro uomo d’affari, Ilan Shor (o Șor), che ha potuto candidarsi nonostante fosse condannato in un «gigantesco» scandalo di frode bancaria, osserva sempre il sito del settimanale francese.
La vittoria del Partito Socialista di Dodon, che vuole rafforzare le relazioni con la Russia, arriva in un momento in cui i rapporti della Moldavia con Bruxelles attraversano una profonda crisi. Anche se attualmente due terzi delle esportazioni moldave interessano l’UE, a pesare sulle relazioni sono i vari scandali di corruzione che hanno scosso il Paese negli ultimi anni, scrive la Deutschlandfunk. L’emittente tedesca ricorda che Bruxelles ha sospeso la maggior parte della sua cooperazione con Chișinău, compreso l’aiuto finanziario diretto.
Spazio: sonda israeliana in viaggio verso la Luna.
Israele sta per diventare il quarto Paese al mondo ad atterrare sulla Luna. Ciò che rende la missione della sonda spaziale «Beresheet» – un nome che suona familiare, poiché si tratta dell’incipit del Libro della Genesi (il primo libro della Torah o Pentateuco) – un primato è il fatto che si tratta della prima missione lunare privata. Il progetto è nato quasi dieci anni fa quando tre giovani ingegneri – Yonatan Winetraub, Yariv Bash e Kfir Damari – si sono incontrati nell’unico bar di Holon, una cittadina a sud di Tel Aviv.
Un secondo elemento particolare nella prima missione lunare israeliana è la traiettoria che seguirà la sonda. Partita giovedì 21 febbraio dalla base di Cape Canaveral (Florida, USA), a bordo di un vettore SpaceX Falcon 9 di Elon Musk, «Beresheet» viaggerà quasi due mesi attraverso lo spazio prima di atterrare sul satellite naturale della Terra. Come spiega il sito LiveScience, la sonda non segue un percorso più diretto verso la Luna, ma utilizza la gravità terrestre per seguire traiettorie orbitali sempre più ampie. Dovrebbe atterrare sulla Luna l’11 aprile.
Il motivo di questa scelta a prima vista insolita è di natura economica. Il progetto ha un budget limitato e per questa ragione «Beresheet» non è l’unico carico del razzo SpaceX Falcon 9: a bordo c’è ad esempio anche un satellite per telecomunicazioni indonesiano. A ridurre il costo della missione è anche il fatto che si tratta di un Falcon 9 riutilizzato: è già al suo terzo lancio, come ricorda il Daily Mail.