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Notizie dal mondo: venerdì 1 marzo 2019

Benjamin Netanyahu.

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Paul De Maeyer - pubblicato il 02/03/19
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USA: il PIL americano è cresciuto del 2,9% nel 2018

Il tasso di crescita dell’economia statunitense ha mancato per un soffio, cioè per un decimo di punto percentuale (lo 0,1%), il «target» del 3% fissato dall’amministrazione Trump. Dalle stime diffuse giovedì 28 febbraio dal Dipartimento del Commercio emerge che nel corso del 2018 il PIL o Prodotto Interno Lordo americano è cresciuto del 2,9%. Si tratta della crescita più forte dal 2015 e superiore al tasso del 2,2% registrato nel 2017, così sottolinea Voice of America.

Comunque, nel quarto trimestre 2018 l’economia americana ha rallentato. Da ottobre a dicembre 2018, il tasso di crescita è stato infatti del 2,6%, un calo netto rispetto al terzo trimestre, durante il quale il PIL era cresciuto del 3,4%, e ancora più forte rispetto al secondo trimestre, che aveva visto crescere l’economia statunitense del 4,2%.

Mentre gli esperti, fra cui il capo economista presso Capital Economics a Toronto, Paul Ashworth, prevedono per il 2019 una crescita del PIL americano del 2,2%, quindi inferiore all’anno scorso, non pochi si preoccupano per il debito pubblico statunitense, che continua a crescere e rischia di compromettere la sicurezza economica della Nazione. Rivolgendosi alla Commissione Bancaria del Senato, il governatore della Federal Reserve, Jerome Powell, ha dichiarato martedì 26 febbraio che il debito è ormai «insostenibile». Se non si interviene, ha avvertito Powell, il debito, che il 12 febbraio scorso ha superato quota 22 trilioni di dollari (o 22.000 miliardi di dollari), potrebbe presto eccedere il 100% del PIL.

Canada: il primo ministro Trudeau sempre più in bilico

In Canada, il primo ministro liberale Justin Trudeau è sempre più in bilico. In carico dal 2015, il carismatico premier, classe 1971, è finito nell’occhio del ciclone per il suo coinvolgimento nella vicenda o «affaire» SNC-Lavalin. Membri del gabinetto di Trudeau avrebbero infatti esercitato pressioni sull’ex ministra della Giustizia, Jody Wilson-Raybould, per evitare guai giudiziari al colosso con sede a Montréal, Québec, coinvolto in uno scandalo di corruzione in Libia. SNC-Lavallin, fondato nel 1911, è «uno dei principali gruppi di ingegneria e costruzioni del mondo», così si legge sul suo sito Internet.

Ad inguaiare direttamente e in modo dettagliato il premier è stata mercoledì 27 febbraio la stessa Wilson-Raybould, che il 7 gennaio era stata spostata senza troppi complimenti dal dicastero di Giustizia a quello meno importante degli Affari dei reduci di guerra, in una deposizione davanti alla Commissione di Giustizia del parlamento di Ottawa. Secondo la Wilson-Raybould – la prima donna di origini native ad occupare l’incarico di ministra della Giustizia (e quindi anche quello di AG o «attorney general», cioè procuratore generale) –, i collaboratori più stretti del primo ministro e lo stesso Trudeau l’hanno «braccata» (nella sua testimonianza usa il verbo «to hound») per lungo tempo, con l’obiettivo di evitare una causa penale contro SNC-Lavalin. Avrebbe anche ricevuto delle «minacce velate».

Trudeau respinge con forza le accuse. «Sono completamente in disaccordo con la caratterizzazione degli eventi data dall’ex procuratore generale», così ha dichiarato il premier. «Io e il mio staff abbiamo sempre agito in modo appropriato e professionale», ha aggiunto Trudeau, citato dal Calgary-Sun. Il Canada eleggerà nell’autunno prossimo, il 21 ottobre, un nuovo parlamento.

Consiglio di Sicurezza ONU: bloccata risoluzione per elezioni libere in Venezuela

Mentre il regime di Nicolás Maduro ha annunciato venerdì 1 marzo attraverso la vice-presidente Delcy Rodríguez lo spostamento da Lisbona a Mosca della sede delle attività europee della compagnia petrolifera di Stato PDVSA, Cina e Russia hanno posto giovedì 28 febbraio nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite il veto ad un progetto di risoluzione statunitense, che chiedeva l’organizzazione di nuove elezioni presidenziali sotto la supervisione internazionale in Venezuela. «Purtroppo, votando contro questa risoluzione, alcuni membri di questo Consiglio continuano a proteggere Maduro e i suoi amici, e a prolungare le sofferenze del popolo venezuelano», ha dichiarato l’inviato speciale statunitense per il Venezuela, Elliott Abrams, citato da El Mundo.

Nel frattempo cresce il numero di militari e membri delle forze di sicurezza del Venezuela che hanno abbandonato il regime di Caracas e cercato rifugio in Colombia. Secondo fonti ufficiali in Colombia, da sabato 23 febbraio, giornata della consegna degli aiuti umanitari, a giovedì 28 febbraio, in totale 567 disertori sono arrivati nel Paese andino, alcuni in divisa e con le loro armi, riferisce una notizia dell’agenzia EFE e ripresa da El Mundo. Le autorità colombiane hanno anche fermato una poliziotta venezuelana, che faceva la spia presso il ponte di Tienditas a Cúcuta. La donna verrà espulsa e non potrà entrare in Colombia per dieci anni.

Quanto sia grave la crisi che sta attraversando il Venezuela e in particolare il suo sistema sanitario, lo dimostrano alcuni dati sulla diffusione di malattie come la malaria, la febbre dengue e la malattia di Chagas (o tripanosomiasi americana). Da una ricerca pubblicata sulla rivista The Lancet Infectious Diseases e citata da El Mundo, nel corso del 2017 sono stati registrati ad esempio in Venezuela 411.586 casi di malaria, uno sviluppo sconcertante per un Paese che nel 1961 era diventato il primo a ricevere il certificato dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) di aver debellato la patologia.

Israele: il premier Netanyahu sarà incriminato

A poco più di un mese dalle elezioni legislative, che si svolgeranno il 9 aprile prossimo in Israele, il procuratore generale dello Stato ebraico, Avichai Mandelblit, ha annunciato giovedì 28 febbraio che vuole incriminare il premier uscente, Benjamin Netanyahu, per frode, abuso d’ufficio e corruzione in tre inchieste, che da vari mesi «elettrizzano» l’ambiente politico. A spianare la strada a Mandelblit, così scrive il Times of Israel, è stata la Corte Suprema, che sempre giovedì ha respinto una richiesta avanzata dal partito di Netanyahu, il Likud, per bloccare l’annuncio.

La reazione di Netanyahu non si è fatta aspettare. «Ci sono regole per tutti, e altre regole per Netanyahu e il Likud. Tutto questo castello di carte crollerà», ha detto il primo ministro uscente, che ha parlato di una «caccia alle streghe». Netanyahu si è anche autodefinito «la persona più diffamata nella storia dei media israeliani», alludendo ad una delle tre inchieste, cioè quella incentrata sui suoi rapporti con due esponenti dei media israeliani, ossia Arnon Moses, editore del quotidiano Yedioth Ahronoth, e Shaul Elovitch, proprietario dell’azienda delle telecomunicazioni Bezeq.

Il leader del Likud non è l’unico politico che rischia guai con la giustizia. Il leader della nuova lista Kakhol Lavan (Blu e bianco), l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz, è stato accusato infatti da una donna, Navarone (o Nava) Jacobs, di molestie sessuali nei suoi confronti. L’ex militare, che ha qualificato le accuse come «completamente false dall’inizio alla fine», ha sporto sempre giovedì 28 febbraio denuncia contro la donna. Secondo Gantz, la donna avrebbe agito per conto o con il sostegno di partiti politici che cercano di screditarlo in vista delle elezioni. Il gabinetto della ministra per la Cultura e lo Sport, Miri Regev, Likud, sarebbe coinvolto nella vicenda.

Bangladesh: «stop» ai rifugiati rohingya

Attraverso il suo ministro degli Esteri, Shahidul Haque, il Bangladesh ha informato giovedì 28 febbraio il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che non accetterà più rifugiati rohingya provenienti dal Myanmar. «Sono spiacente informare il Consiglio che il Bangladesh non è più nella possibilità di accogliere persone provenienti dal Myanmar», ha dichiarato Haque, citato dal Guardian. «Sta pagando il Bangladesh il prezzo per essere stato reattivo e responsabile nel dimostrare empatia verso una minoranza perseguitata di un Paese vicino?», ha chiesto il ministro.

A motivare la decisione del Bangladesh, che dall’estate 2017 ha accolto 740.000 profughi appartenenti alla minoranza apolide e musulmana, scappati alla repressione nel Myanmar (un Paese a maggioranza buddhista), è la questione del rimpatrio. Anche se le autorità del Myanmar hanno raggiunto un accordo con il Bangladesh, non ci sono le condizioni per un rimpatrio sicuro dei rohingya. Un tentativo di inizio di ritorno è fallito clamorosamente nell’autunno scorso, così ricorda il Guardian.

Le autorità del Myanmar contestano le radici birmane dei rohingya e li considerano invece immigrati illegali arrivati dal Bangladesh. La legge sulla cittadinanza o «Myanmar Citizenship Act», la quale risale al 1982, non riconosce i rohingya come etnia nazionale, negando loro in  questo modo la possibilità di accedere alla cittadinanza. Secondo il presidente della commissione d’inchiesta o «fact-finding mission» delle Nazioni Unite in Myanmar, Marzuki Darusman, nel Paese è in atto «un genocidio continuo». Papa Francesco ha visitato dal 26 novembre al 2 dicembre 2017 entrambi i Paesi.

 

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