Torniamo su un tema sollevato da una pagina inedita di Gilbert Keith Chesterton che ieri abbiamo voluto pubblicare nella festa del papà. La difficoltà di tenere insieme la reciprocità e la specificità, nella teologia del matrimonio, è antica quanto il cristianesimo: la moglie deve essere sottomessa al marito, ma entrambi si devono mutua sottomissione nel Signore. Per uscire dall'(apparente) gioco di scatole cinesi vi proponiamo alcuni passaggi di una lettera del santo vescovo di Ippona a una sua figlia spirituale, la quale stava mandando all’aria il matrimonio e la famiglia… da quanto era devota!
Un ottimo articolo di Annalisa Teggi ha rilanciato ieri, a mezzo di un inedito chestertoniano, il tema della “gerarchia matrimoniale/famigliare/domestica”. L’apologeta inglese scrive, nel passaggio a mio avviso centrale in questa faccenda:
[…] Il fondamento originario di una famiglia è il consenso, cioè la condivisione di certi spontanei attaccamenti che accadono anche nel regno animale e vegetale. Per questo motivo il padre di famiglia non è mai stato definito «il re della casa» o «il sacerdote della casa» o persino «il papa della casa». Il suo potere non è dogmatico e non è così ristretto da poterlo definire tale. Viene invece chiamato «il capo di casa», cioè la testa della casa. L’uomo è il capo della casa, mentre la donna è il cuore della casa. Il capo (o testa) è la parte del corpo che parla.
Il capo (o punta) di una freccia non è più necessario dell’asta. La punta di un’ascia non è più necessaria dell’impugnatura; al mero scopo di combattere preferirei rimanere con la sola impugnatura dell’ascia in mano, piuttosto che con la sola lama. Ma il capo (o la punta) di un’ascia e di una freccia sono la parte che entra per prima; è ciò che parla. Se voglio uccidere un uomo con una freccia, la punta è il mio portavoce. Se spacco il teschio di un uomo con un’ascia, è la lama dell’ascia che apre la disputa – e la testa.
Risulta chiaro che il metodo dello scrittore procede – come spesso avviene nella sua opera – per osservazioni linguistiche sulle parole: il metodo è arricchire l’etimologia a partire dal semantema e viceversa. Così i modi di dire sulla “testa” di un’ascia (il greco direbbe invece “la bocca”, l’italiano “il filo”) gli permettono di trarre queste considerazioni pratiche:
[…] se un militante politico bussa alla porta per perorare la causa dei Radicali Conservatori o dei Conservatori Radicali, sono io quello che deve andargli incontro. Se un ubriaco entra nel mio giardino e si mette a dormire sulle nostre aiuole, sono io quello che deve andare a controllare la faccenda. Se un ladro gira per casa di notte, sono io che devo parlargli. Perché io sono il capo, sono quella fastidiosa escrescenza sulle spalle che apre la discussione col mondo.
A leggere questa pagina – per la quale intendo ringraziare pubblicamente Annalisa – mi sono ricordato di quante volte mia moglie mi ha pungentemente costretto ad “aprire la discussione col mondo”: con il ragazzo delle pizze, con l’agente immobiliare, con l’avvocato, col commercialista (anzi no, lì è proprio meglio che io tolga il disturbo…) – «Parla tu che sei il capofamiglia – mi dice –, è meglio». A questo punto mi tocca dire che mia moglie non veste il burka e non teme di parlare: ha conseguito titoli e vinto concorsi pubblici, ha già insegnato a centinaia di adolescenti la tecnica e l’arte delle parole (in italiano, latino e greco)… e ovviamente molti dei suoi alunni sono dei ragazzi (maschi) – dunque non ne fa certo una questione di sesso. “Sei tu il capofamiglia”, dice invece mia moglie, e con questo arriviamo al paradosso per cui io devo prendere posizioni di controllo ad extra perché me lo impone mia moglie ad intra. Del resto Chesterton aveva scritto proprio un soffio sopra:
Se autorità significa potere (e non lo significa), penso che la moglie ne abbia molto più del marito. Nella stanza in cui sono seduto, mi guardo attorno e considerando tutti gli oggetti che ci sono – il loro colore, chi li ha scelti, chi ha pensato alla collocazione – mi sento come se fossi l’unico uomo abbandonato su un pianeta di donne.
Ora, non ci crederete ma tutto questo – soprattutto le immagini di mia moglie, del ragazzo della pizza e dell’avvocato – mi hanno ricordato un’importante lettera di sant’Agostino, ma prima che ve ne parli vi debbo un antefatto: tenetevi forte perché è roba tosta.
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La famiglia del “Monastero Bianco”
Immaginatevi una famigliola composta da marito, moglie e figlio preadolescente. La moglie vuole tanto santificarsi, così a un certo punto prende e decide di formulare voti di perfetta continenza (sic!) all’interno del matrimonio. Il marito resta un po’ sorpreso ma capisce le buone aspirazioni della moglie, che peraltro ama teneramente: quindi, anche se non era stato coinvolto a monte nella decisione, acconsente al desiderio della moglie e sottoscrive i voti. Le cose gli vanno meno a genio quando, sempre di punto in bianco, la moglie prende e decide di rifarsi il guardaroba – tutto da vedova (sic!). Il marito borbotta – comprensibile che non gli faccia piacere vedersi dichiarare morto dall’abbigliamento della moglie – ma cerca di mandar giù anche quest’altro boccone, finché un giorno tornando a casa trova, come si direbbe, “la goccia che fa traboccare il vaso” se non fosse troppo poco chiamarla “goccia”: sempre volendosi santificare tanto, quel giorno la moglie aveva preso e deciso di dar via buona parte dell’intero patrimonio di famiglia a due sedicenti monaci, mai visti prima e non meglio identificati, che dicevano di averne bisogno per fare del bene. «Adesso basta!», sbotta il marito: «Questa cosa ti è sfuggita di mano al punto che neppure pensi più al futuro di nostro figlio». Detto, fatto, il marito prende il ragazzo e se lo porta via: trova una nuova casa lontano di lì e si porta a convivere un’altra donna, con la quale – è dato saperlo – fa fuochi d’artificio a letto. Quasi a dimostrare a sé stesso, alla moglie e al mondo, di essere tutt’altro che morto.
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La storia può sembrarvi assurda ma vi assicuro che è precisamente quanto avvenne a una figlia spirituale del Vescovo di Ippona, il dottore della grazia. Il quale venne informato di tutto l’accaduto a cose fatte, giacché Ecdicia – questo il nome della donna – chiedeva lumi su come comportarsi. A quel punto! Agostino dovette trovare lacunoso il quadro che emergeva dalla lettera della donna (che purtroppo non ci è giunta), perché nella sua risposta accenna alle domande fatte al postino per integrare le informazioni: ad esempio pare che la zelante signora avesse omesso di dire al vescovo che aveva iniziato la continenza nel matrimonio senza discuterne prima col marito, bensì mettendolo di fronte al fatto compiuto della sua volontà ormai stabilita.
Una necessaria premessa
Ora, perché questa storia non vi sembri troppo assurda per essere vera – e prima di passare alla risposta di Agostino – occorre fare qualche chiarimento. Nel nostro contesto ecclesiale-culturale, dico quello contemporaneo, intendiamo la castità come virtù propria della vita cristiana in genere, a prescindere dallo stato di vita e dunque necessario in qualunque condizione si viva: in tal senso evidentemente distinguiamo fra castità e continenza, dunque affermiamo che tutti i cristiani debbano vivere una sessualità serena e riconciliata, priva di qualunque accesso predatorio; ciò comporta il bando di qualsiasi forma di tradimento coniugale (ma anche degli “usi reificanti” della relazione coniugale), e per chiunque non sia sposato implica la totale e perfetta continenza.
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«La castità, infatti, è necessaria sempre e a tutti»: a questo assunto sembrava essere arrivato già Alcuino di York (De virtutibus et vitiis 18), monaco inglese vissuto alla corte di Carlo Magno tra l’VIII e il IX secolo; ma ben prima di lui (e ancora parecchio dopo) non tutti avrebbero avuto la medesima lucidità. Da un lato lo si capisce perché la verginità era stata fin dai primordi dell’era cristiana una delle novità dei discepoli di Gesù nel mondo, se non altro nel senso che “le vestali” assumevano una dimensione domestica («la famiglia è più antica dello stato», ricordava sapidamente Chesterton). Così nella Supplica per i cristiani Atenagora (II secolo!) scriveva che «ci sono tra noi molti uomini e donne invecchiati senza sposarsi nella speranza di appartenere di più a Dio» (Suppl. 33). Cristiani invecchiati nella verginità nel II secolo significa che fin dalla fine del primo secolo prendeva piede il trend. Né si fatica a crederlo se – e questa è l’altra faccia della medaglia – movimenti encratiti come quello guidato da Marcione giungevano a non ammettere al battesimo chiunque vivesse nel matrimonio!
Questo può sembrare strano, in considerazione del fatto che l’unica cosa nota (a qualcuno) sull’eresiarca del “marcionismo” è il ripudio dell’Antico Testamento a vantaggio del Nuovo: il problema è che tendiamo a comprendere le antitesi marcionite “alla sessantottina”, cioè fantasticando della crudele legge del decalogo cui sarebbe contrapposta “la comunità del libero amore” (cf. Un sacco bello).
https://www.youtube.com/watch?v=0EEhWevVc0M
Ecco, no: Marcione contrappose l’Antico al Nuovo perché la legge di Mosè, per come la vedeva lui, era scandalosamente più lassa di quella di Cristo, più imperfetta, più segnata dall’errore, dall’eccesso, e spiegò la pretesa inconciliabilità dei due patti col fatto che il primo sarebbe dipeso dalla rivelazione del cattivo “dio della creazione”, il demiurgo, al quale si deve la costruzione di “questa valle di lacrime”. Cristo è venuto a liberarci da tutto ciò – spiegava Marcione – ma se gli uomini continuano a sposarsi e a fare figli il mondo non finirà mai. Né si trattava di questioni accademiche, bensì del modo d’intendere proprio il cristianesimo nella sua dimensione più quotidiana. Lo fa capire bene il fatto che Clemente (a modo suo un accademico) raccogliesse nelle proprie esegesi proprio quei sensi “popolari”. Nel terzo libro degli Stromati, infatti, l’Alessandrino interpreta il versetto “dove due o tre…” annotando:
C’è chi intende che il Signore abbia voluto dire: con i più sta il Dio generatore e creatore, con l’unico eletto il Salvatore, che naturalmente è figlio di un altro Dio, il Dio Buono. Ma non è così: c’è Dio tramite il Figlio con gli sposi onesti che hanno generato prole, e c’è ancora il medesimo Dio con colui che ha scelto una vita di continenza secondo criteri razionali.
Clemente, Stromati III, 10. 68,3-4
Dio è uno solo, insomma, e lo stesso e il medesimo benedice la casta fecondità degli sposi come la ragionevole continenza di monaci, asceti, presbiteri, vescovi.
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Per capire la situazione di Ecdicia, però, nonché la risposta di Agostino, occorre sapere pure un’altra cosa: la verginità era sempre stata prediletta fra cristiani, a partire dai tempi di Antonio il Grande il fenomeno monastico getta spore in tutta l’ecumene… ma proprio al tempo di Agostino s’era dato in proposito un accesissimo dibattito culturale. Non era mancato chi, come un monaco di nome Gioviniano, dovette trovare eccessiva l’enfasi sulla verginità, nonché sproporzionata rispetto alla “normalità” della vita cristiana vista dal di fuori (cf. anche A Diogneto): quel puntiglioso sant’uomo di Girolamo, pungolato dal caro amico il senatore Pammachio, il quale si era consacrato in continenza dopo che la moglie morì di parto (387), rovesciò su Gioviniano due libri polemici così virulenti che lo stesso Stridonense tornò ad aggiustare il tiro in alcune epistole.
Anche Ambrogio e Agostino presero parte alla discussione, e insomma – per farla breve – nei loro circoli (comunque moderati!) era invalsa la dottrina per cui la santità delle nozze non doveva essere negata, fermo restando che due coniugi che si fossero consacrati in continenza domestica avrebbero puntato a una vocazione più sublime ancora. Agostino era fermissimo – e lo si vede anche in questa lettera – nel sottolineare come proprio l’esercizio dell’intimità coniugale preservi gli sposi dall’impudicizia, quindi dobbiamo intendere che tale pratica fosse concretamente favorita in uomini e donne non più giovanissimi e di certo che avessero dato prova di saper vivere castamente anche in perfetta continenza (cosa non scontata). Ma proprio per questo la reazione di Agostino alla lettera che illustrava la situazione di Ecdicia potè provocare nella stessa corrispondente una certa sorpresa: il vescovo di Ippona le faceva infatti una memorabile lavata di capo, della quale ripropongo qui qualche stralcio (fermo restando che chiunque può leggerla per intero – perfino in latino, se volesse).
«Cara Ecdicia, i peccati di tuo marito sono colpa tua»
Non che Agostino deresponsabilizzasse l’uomo, per la cui parabola anzi prescrive un esito infausto. Ma in forza della dignità coniugale e sponsale è alla moglie – per i suoi atteggiamenti gravemente disordinati – che addossa la responsabilità iniziale:
[…] sono rimasto assai costernato per il fatto che tu hai voluto comportarti con tuo marito in modo che l’edificio della continenza, che già s’era cominciato a costruire in lui, cadesse miseramente nella catastrofe dell’adulterio per avere egli perduto la perseveranza. Sarebbe stato già deplorevole se, una volta fatto a Dio un voto di continenza e averlo cominciato a osservare con la pratica stessa e con la condotta, fosse tornato ad avere rapporti matrimoniali con la moglie. Quanto più è deplorevole ora che, caduto in una rovina più profonda, pratica la fornicazione con una dissolutezza tanto scatenata, adirato contro di te e funesto a se stesso, credendo d’incrudelire più aspramente contro di te se perirà lui stesso? Ma tutto questo gran male è venuto per non aver tu usato, verso di lui, la guida prudente che avresti dovuto. Poiché, sebbene vi foste già astenuti di comune accordo dal compiere l’atto matrimoniale, come donna avresti tuttavia dovuto mostrarti accondiscendente in tutto con ossequio di moglie a tuo marito, tanto più che ambedue eravate membri del corpo di Cristo (Ef 5, 30; 1 Cor 6, 15).
Fine psicologo, Agostino riconosce nello scatenarsi della dissolutezza del marito l’autolesionistica e infelice vendetta contro la moglie. Subito dopo il vescovo ribadisce a Ecdicia che il diritto matrimoniale implica che ciascuno dei coniugi perda la signoria sul proprio corpo e la guadagni su quello altrui: ovviamente non si può spadroneggiare su un corpo altrui se non si dispone di un corpo con cui farlo; il paradosso giuridico espresso dalla formula indica il mutuo obbligo all’oblatività.
Ecdicia dovette essersi resa conto di averla combinata grossa, poiché dalla risposta di Agostino sembra di poter capire che la donna avesse richiesto se per riconquistare il marito le fosse allora lecito tornare alla “versione ordinaria” del matrimonio:
Per quanto dunque ti riguarda non si discute più se devi tornare a compiere l’atto coniugale con tuo marito, dato che avreste dovuto mantenere, con perseveranza fino alla fine, quanto avevate promesso tutti e due a Dio con uguale consenso; anche se tuo marito ha violato una tale promessa, tu almeno devi perseverare a mantenerla con la massima fermezza. Non ti rivolgerei questo ammonimento, s’egli non t’avesse dato il suo consenso riguardo a questo voto, poiché, se tu non avessi ottenuto mai il suo consenso, nessun numero d’anni ti avrebbe potuta giustificare e dopo qualsiasi tempo tu avessi chiesto il mio parere, non t’avrei risposto se non quanto dice l’Apostolo: Il dominio del proprio corpo non lo ha più la moglie ma il marito (1Cor 7, 4). Disponendo di tale dominio egli t’aveva permesso la continenza a segno di abbracciarla con te anche lui.
È maestro di discernimento, Agostino, proprio perché invita la figlia spirituale (ormai con durezza, tanto la piaga è aperta e s’impone una misura urgente) a considerare che anche le migliori intenzioni possono essere segno di superbia e non di umiltà:
Alla fine è successo ch’egli, essendosi visto da te trascurato, ha rotto il vincolo della continenza con cui s’era legato quando si sentiva amato e, irritato contro di te, non ha risparmiato se stesso. A quanto infatti m’ha riferito il latore della tua lettera, tuo marito era venuto a sapere che tu avevi dato tutte o quasi tutte le ricchezze che possedevi a due non so che razza di monaci di passaggio, pensando che fossero distribuite ai poveri; egli allora maledicendoli con te e considerandoli non servi di Dio ma invasori della casa altrui e tuoi abbindolatori e depredatori nel suo sdegno si scrollò di dosso il sacro peso che s’era sobbarcato a portare con te. Egli in verità era debole e perciò non avresti dovuto turbarlo con la tua presunzione, ma sostenerlo con l’amore proprio tu che sembravi più forte nel proposito abbracciato insieme, poiché, sebbene forse egli fosse un po’ restìo a largheggiare in fatto di elemosine, avrebbe potuto abituarvisi anche lui, se non fosse stato turbato dalle tue inattese elargizioni, ma vi fosse stato sollecitato dalle tue condiscendenze, ch’egli si aspettava. In tal modo anche ciò che hai compiuto da sola e senza riflessione, lo avreste con amore concorde compiuto ambedue molto più ponderatamente, più regolarmente e più onestamente e non sarebbero stati maledetti dei servi di Dio, se pure si potevano chiamare così delle persone le quali, in assenza e all’insaputa del marito, presero una sì gran somma di danaro da una donna a essi sconosciuta, e per di più sposata; sarebbe anzi stato lodato Dio per le vostre opere, se la vostra unione fosse stata così fedele da farvi praticare d’accordo non solo la perfetta castità, ma anche la gloriosa povertà.
[…] Avreste dunque dovuto prendere una decisione concorde su ogni faccenda e regolarvi di comune accordo riguardo ai beni di cui far tesoro per il cielo, quali lasciare quanto basta per la vita vostra, dei vostri familiari e di vostro figlio in modo che l’alleviare gli altri non fosse per voi causa di strettezze. Se però, nel fissare e mettere in pratica tali criteri, tu avessi avuto un’idea migliore, l’avresti dovuta suggerire con la dovuta deferenza a tuo marito e avresti dovuto lasciarti guidare con l’ubbidienza dalla sua autorità di capo. In tal modo tutte le persone assennate, alle quali la fama avesse potuto far giungere la notizia di questa vostra opera buona, si sarebbero rallegrate del guadagno e della pace della vostra famiglia e gli avversari, non avendo nulla di male da dire sul conto vostro, vi avrebbero manifestato il loro rispetto.
Il vescovo sottolinea che è stato il marito, pur nel regresso spirituale-morale del momento, ad avere per il figlio pensieri di vera e previdente carità, e torna alla carica su Ecdicia riguardo al guardaroba:
Sta scritto bensì che le donne devono abbigliarsi decorosamente e a ragione sono biasimate le collane d’oro, le arricciature dei capelli e tutte le altre vanità di tal genere, che si è soliti usare o per ostentare un falso prestigio o per sedurre con l’aspetto esteriore (1Tim 2, 9; 1Pt 3, 3). Ma c’è pure, a seconda dei mezzi di cui una persona dispone, una moda di vestirsi da maritata, diversa da quella propria delle vedove, la quale, salva l’osservanza della legge di Dio, può star bene alle fedeli maritate. Se a tuo marito non garbava che smettessi l’abbigliamento da maritata perché non ti comportassi da vedova mentre egli era ancora vivo, io credo che, a proposito di questa faccenda, non avrebbe dovuto esser condotto fino allo scandalo della discordia più per una colpa di disubbidienza che per la virtù d’alcuna specie di continenza. Che c’è infatti di più sconveniente del fatto che una donna si vesta dimessamente per mostrarsi arrogante verso il marito, al quale sarebbe stato meglio che tu avessi ubbidito col candore della Condotta che contrastare la sua volontà indossando vesti di colore nero? Se infatti ti andava a genio un vestito da monaca, avresti potuto indossarlo con maggior piacere dopo aver ascoltato tuo marito e avergli chiesto il permesso anziché senza averlo consultato e senza far nessun conto di lui. E se lui non avesse proprio voluto, che cosa sarebbe venuto a mancare al tuo proposito?
Agostino addita ad Ecdicia i beni interiori di quella virtù che Ignazio di Loyola avrebbe chiamato “santa indifferenza”: la biblica Ester ne fu modello, perché nella preghiera rivela di considerare il proprio fastoso regale diadema “un assorbente usato”, e dunque Dio sapeva che quanto per il pubblico appariva un onore era per lei una mortificazione – Colui che scruta i cuori, dunque, si compiaceva nella docilità di Ester e insieme nella sua umiltà. Non lo stesso si poteva dire di Ecdicia, che aveva mandato all’aria matrimonio e famiglia per delle disordinate velleità spiritualeggianti. Così l’Ipponate si avvia alla conclusione:
Se vuoi appartenere davvero a Cristo, devi ora pensare a riparare con tutte le tue energie al male fatto. Rivèstiti dell’umiltà dello spirito affinché Dio ti conservi nella perseveranza; non disprezzare tuo marito che si avvia alla perdizione. Innalza per lui pie e continue preghiere e offri per lui in sacrificio le lacrime che sono come tante gocce di sangue sgorganti dal cuore ferito. Scrivigli inoltre in segno di riparazione [per l’offesa] e chiedigli perdono d’aver mancato contro di lui, poiché quanto hai creduto di dover fare dei tuoi beni lo hai fatto indipendentemente dal suo parere e dalla sua volontà e non per pentirti d’averli distribuiti ai poveri, ma di non averlo voluto partecipe e regolatore della tua buona azione. Promettigli che se non solo si pentirà della sua condotta disonesta, ma tornerà anche alla pratica della continenza da lui abbandonata, con l’aiuto di Dio gli sarai per l’avvenire sottomessa in tutto com’è giusto, se mai Dio, come dice l’Apostolo, gli conceda la grazia di pentirsi e tornare alla ragione libero dai lacci del diavolo, che lo tiene asservito alla sua volontà (2Tim 2, 25-26).
Il verbo del potere coniugale
Chiunque ora legga questa pagina avendo la testa imbevuta delle catechesi femministe delle varie Natalia Aspesi sarà facilmente portato a sintetizzare: «Insomma è sempre colpa delle donne: se ci stanno o se non ci stanno, il cattolicesimo è sempre stato misogino per definizione». E chiunque facesse una simile lettura si sbaglierebbe di grosso – una volta di più. Per quattro volte Agostino usa un’espressione che adeguatamente traduciamo con “di comune accordo”, anzi in un passaggio appaia due “pariter” che possono tradursi bene con “da pari”: «Pariter ergo consilium de omnibus haberetis, pariter moderaremini quid thesaurizandum esset in cœlo […]». «Insieme avreste dovuto decidere su ogni cosa; insieme avreste dovuto stabilire quali tesori farvi fruttare in cielo […]».
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Ora ecco qui una cosa sorprendente: il verbo che qui ho tradotto con “stabilire” – moderare – torna in due voci nominali (moderatio e moderator) all’inizio e alla fine della lettera. Nel primo paragrafo si riferisce alla moglie, nell’ultimo al marito: in quest’ultimo si rimprovera alla moglie di «non aver voluto il marito partecipe e moderator»; in quel primo la si rimbrottava per aver difettato della «debita moderatio». Adesso attenzione, la “moderatio” non è il mediocre “non esagerare”, come se la fede andasse presa “quanto basta”, a mo’ di medicina: al contrario, chi legge la lettera vede quanto sia esigente e inflessibile Agostino con la figlia spirituale. Ma “moderatio” è un sostantivo che indica governo, anzi buon governo, perché esprime quel controllo che impone il giusto modus alle cose. Agostino rimprovera ad Ecdicia non di aver preso decisioni sbagliate, ma di non aver guidato il marito ad assumerle e assimilarle con giusta gradualità. Allo stesso modo, la cattiva guida di Ecdicia si è accompagnata alla presunzione di non volere la guida del marito: l’una e l’altra cosa appaiono quasi due sintomi di un’unica mala pianta, che è la superbia spirituale. Al centro del testo il vescovo lo spiega bene alla sposa zelante: avrebbe potuto suggerire tutto quanto, al marito, ma nel matrimonio nessuno può dire “cosa propria” un qualsivoglia bene – il sesso, i figli, il denaro, gli immobili… – perché nella sottomissione reciproca, e nel rispetto delle reciproche differenze, entrambi avrebbero dovuto «stabilire insieme quali tesori farsi fruttare in cielo».