USA: secondo il Rapporto Mueller non c’è stata «collusione» tra Trump e la Russia
Non c’è stata collusione tra lo staff di Donald Trump e la Russia durante la campagna elettorale per le elezioni presidenziali 2016. Questo emerge dalla sintesi del molto atteso rapporto del procuratore speciale Robert Mueller sul cosiddetto «Russiagate», che è stata diffusa domenica 24 marzo dal procuratore generale o ministro alla Giustizia degli Stati Uniti, William Barr.
L’inchiesta portata avanti da Mueller, che è durata 675 giorni ed è costata secondo alcune stime più di 25 milioni di dollari, come ricorda il quotidiano Le Figaro, «non ha stabilito che membri della Trump Campaign abbiano cospirato o si siano coordinati con il governo russo nelle sue attività di interferenza elettorale». Per quanto riguarda il sospetto di ostruzione alla giustizia, l’indagine, alla quale hanno partecipato 19 legali e approssimativamente 40 agenti dell’FBI, «non conclude che il Presidente ha commesso un reato, ma neppure lo esonera».
Mentre si aspetta adesso la pubblicazione dell’intero «Rapporto Mueller», le reazioni della Casa Bianca e del presidente Trump non si sono fatte attendere. Mentre la portavoce della Casa Bianca, Sarah Huckabee Sanders, citata da Time, ha parlato di una «completa e totale assoluzione», Trump ha scritto domenica in un messaggino diffuso sul suo account Twitter: «Nessuna collusione, nessuna ostruzione, completa e totale ASSOLUZIONE. MANTENERE L’AMERICA GRANDE!». Per il presidente, l’intera inchiesta è stata una «caccia alle streghe» o «witch hunt», accusa che ha lanciato ben 183 volte secondo il Trump Twitter Archive, citato da USA Today.
Siria: è caduta l’ultima roccaforte dell’IS
«L’incubo è finito», così scrive la Neue Zürcher Zeitung. Dopo la caduta dell’ultima roccaforte dell’IS (Stato Islamico o anche ISIS), Baghuz, il sedicente califfato «appartiene al passato», osserva il quotidiano svizzero. Ad annunciare la fine del califfato sono stati i miliziani delle Forze Democratiche Siriane (SDF in acronimo inglese). «Le Forze Democratiche Siriane dichiarano l’eliminazione totale del cosiddetto califfato e la sconfitta territoriale dell’ISIS al 100%. In questo giorno unico, commemoriamo migliaia di martiri i cui sforzi hanno reso possibile la vittoria», si legge in un tweet pubblicato sabato 23 marzo dal portavoce delle SDF, Mustafa Bali. Le SDF, composte da combattenti curdi, arabi e cristiani assiri, hanno perduto nella guerra circa 11.000 membri, tra uomini e donne, scrive il quotidiano, che menziona anche le migliaia di yazidi rapiti e schiavizzati dall’IS e che risultano tuttora disperse.
Per i curdi, che sabato hanno celebrato la sconfitta dell’IS, la gioia potrebbe essere di breve durata, così osserva sempre la NZZ, che parla di una «vittoria di tappa». E non solo perché l’ideologia dell’IS non è ancora stata sconfitta – migliaia di combattenti del gruppo si sono nascosti in Iraq e Siria (anche il loro capo, Abu Bakr al-Baghdadi, è forse ancora vivo) – ma anche perché i curdi, che durante la guerra hanno goduto di un’autonomia di fatto, rischiano di essere schiacciati tra la Turchia da un lato e la Siria (e la Russia) dall’altro. Il presidente siriano Bashar al-Assad ha già annunciato che non vuole saperne di una decentralizzazione della Siria, poiché «mina l’autorità dello Stato». Per la NZZ, la sorte dei curdi è quindi nelle mani del presidente americano Donald Trump, ma se i curdi possano contare sugli USA «sembra dubbio».
Yemen: il conflitto entra nel suo quinto anno
Il conflitto in Yemen entra nel suo quinto anno. Nella notte tra il 25 e il 26 marzo 2015, una coalizione araba guidata dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti ha iniziato a lanciare dei raid aerei contro i ribelli prevalentemente sciiti Houthi, appoggiati dall’Iran, per fermare la loro avanzata verso il sud del Paese e in modo particolare verso Aden, dove si era rifugiato il presidente yemenita Abd-Rabbu Mansour Hadi.
Come osserva il quotidiano libanese L’Orient-Le Jour, la campagna lanciata da Riad e Abu Dhabi si chiamava «Tempesta decisiva», ma quattro anni dopo la crisi yemenita è oggi «più complessa che mai». Non solo la guerra non ha risolto nulla sul terreno, e questo nonostante i 19.000 raid, ossia tredici al giorno, più di uno ogni 2 ore, come calcola Il Corriere della Sera, ma ha scatenato inoltre «la peggior crisi umanitaria del mondo».
«Le cifre parlano da sole», sottolinea l’OLJ, che cita i dati delle Nazioni Unite: l’80% della popolazione – 24 milioni di persone – ha bisogno di assistenza e protezione umanitaria, il 60% soffre di insicurezza alimentare, il 56% non ha accesso all’igiene di base, il 73% non ha accesso all’acqua potabile e il numero di bambini che soffrono di malnutrizione acuta grave è aumentato del 90% negli ultimi tre anni.
Giornata Mondiale dell’Acqua: nuovi rapporti dell’UNICEF e dell’UNESCO
Nei conflitti prolungati, i bambini sotto i 15 anni hanno mediamente quasi tre volte più probabilità di morire per malattie diarroiche legate all’acqua insicura e alla mancanza di servizi igienico-sanitari che per la violenza direttamente legata ai conflitti e alla guerra. A lanciare l’allarme è un rapporto pubblicato dall’UNICEF con il titolo «Water under Fire» (Acqua sotto attacco) in occasione della Giornata Mondiale dell’Acqua, celebrata venerdì 22 marzo scorso. Questo vale specialmente per i più giovani: tra i bambini con meno di cinque anni di vita questa probabilità sale infatti a 20 volte, così rivela il rapporto, il quale ha preso in esame la situazione in 16 Paesi del pianeta colpiti da conflitti protratti, tra cui il Sud Sudan, la Siria e lo Yemen.
Sempre in vista della Giornata Mondiale dell’Acqua, l’UNESCO ha reso pubblico martedì 19 marzo a Ginevra, in Svizzera, durante la 40esima sessione del Consiglio dei Diritti Umani il nuovo rapporto «The United Nations World Water Development Report 2019: Leaving no one behind», di cui è disponibile anche una sintesi italiana. Nonostante i progressi «significativi» ottenuti nel campo, nel 2015 tre persone su dieci nel mondo, ossia 2,1 miliardi, non avevano accesso ad acqua potabile sicura, e inoltre 4,5 miliardi di persone, vale a dire sei abitanti su dieci, non potevano accedere a servizi igienico-sanitari sicuri, si legge in un comunicato stampa.
Il documento richiama anche l’attenzione sull’impatto dei cambiamenti climatici. «Se il degrado dell’ambiente naturale e la pressione insostenibile sulle risorse idriche globali continuano ai ritmi attuali, entro il 2050 il 45% del Prodotto Interno Lordo globale e il 40% della produzione mondiale di cereali saranno a rischio», così ha avvertito il direttore di UnWater e presidente dell’IFAD (Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo), Gilbert F. Houngbo. «Le popolazioni povere ed emarginate saranno colpite in modo sproporzionato, aggravando ulteriormente le già crescenti disuguaglianze», ha continuato il diplomatico e politico togolese.
Giappone: il suicidio è la prima causa di morte tra i bambini dai 10 ai 14 anni
Per la prima volta dal dopoguerra, il suicidio è diventato la prima causa di morte tra i bambini dai 10 ai 14 anni in Giappone. Il preoccupante dato emerge da un rapporto governativo, scrive il Japan Times in un articolo pubblicato venerdì 22 marzo. Anche se il numero totale di cittadini giapponesi che si sono tolti la vita è calato «notevolmente» negli ultimi anni, le statistiche del ministero della Salute evidenziano che nel corso del 2017, 100 giovani appartenenti a questa fascia d’età si sono suicidati, rappresentando il 22,9% di tutti i decessi registrati in questo gruppo d’età. La seconda causa di mortalità tra i 10-14enni sono i tumori (il 22,7%), seguiti poi dagli incidenti (l’11,7%).
Anche se non si conoscono ancora «sufficientemente» i motivi che hanno spinto i giovani in questione a lasciare la vita, una recente tendenza dimostra che i suicidi aumentano subito dopo le vacanze, ad esempio dopo le ferie di primavera e quelle estive. Un elemento che in alcuni casi ha contribuito ai suicidi giovanili è il fenomeno del bullismo scolastico, suggerisce l’edizione inglese dell’Asahi Shimbun in un editoriale (23 marzo), che ricorda il suicidio di una ragazza di Amagasaki, nella Prefettura di Hyogo, e di una ragazza di Toride, nella Prefettura di Ibaraki, avvenuti rispettivamente nel 2017 e nel 2015.