Perché è l’affermazione più radicale della speranza; del credere che l’essere umano non si può sbagliare quando segue il proprio istinto alla speranza.Ci vuole umiltà, per credere nella risurrezione. Ci vuole la disponibilità ad essere presi per bambini che credono alle favole.
La croce, come simbolo, può essere accolta anche dai “sapienti e dagli intelligenti”: tutti sappiamo che la vita umana è costellata di momenti duri, di sofferenze, di ingiustizie, di dolore; e nella croce qualcuno può vedere il simbolo di ogni sofferenza umana, qualcun altro un simbolo dell’oppressione ingiusta, qualcun altro addirittura uno j’accuse contro Dio.
Ci vuole invece un animo da bambino per credere alla risurrezione. Perché è l’affermazione più radicale della speranza; del credere che l’essere umano non si può sbagliare quando segue il proprio istinto alla speranza.
Non esiste un bambino cinico. Esistono bambini simpatici, bambini intelligenti, bambini anche un po’ maligni, qualche volta; ma il cinismo è degli adulti, di quelli che pensano di avere capito tutto, e che in questo “tutto” che hanno capito non ci sia spazio per la speranza vera.
Si chiama anche “disincanto”.
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L’incanto del bambino che scopre il mondo e se ne innamora fa spazio al disincanto dell’adulto. E in certa misura è necessario, altrimenti il nostro credere sarebbe davvero un credere alle favole. È necessario, molto spesso (non a tutti) attraversare una o più fasi di dubbio, di incertezza, di “crisi” e di “critica”; in certa misura, questa dimensione continua ad attraversare l’esperienza del credente un po’ in tutta la sua vita.
E anche nella vita di Gesù si è passati dall’incanto del presepio al “disincanto” del grido sulla croce: “Perché mi hai abbandonato?”. Chi passa da questo crogiuolo di dubbio, di sofferenza, di pensiero e anche di ribellione può poi sbocciare nel canto.
Canto che è il prorompere di un fiume in piena che finalmente riemerge dal suo inghiottitoio carsico; di un fiume che è entrato nelle viscere della terra e poi risboccia, purificato e arricchito, a “riveder le stelle”. Canto che, come il Christus musicus, è entrato nelle viscere della terra per poi ri-sorgere, tornare lui ad essere la nostra luce.
Alcuni teologi antichi si appassionavano a dibattiti che oggi fanno quasi un po’ sorridere: come faremo, si chiedevano, a cantare da risorti, se nel cielo non c’è l’aria per respirare? È un dilemma scientificamente un po’ improbabile, ma che ci dice qualcosa di essenziale: chi se lo poneva aveva una visione molto chiara della “risurrezione della carne”, e capiva che – in un modo che non riusciamo ad immaginare – questo nostro corpo brillerà di vita e di luce. Di nuovo.
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Io conosco e sono conosciuta tramite il mio corpo; sono più del mio solo corpo, ma, come dico sempre, se incontrassi l’anima delle persone a me più care per strada non la riconoscerei… E questo corpo, in un modo che non conosco, tornerà a vivere. Tornerò a poter abbracciare chi amo e chi ho amato; tornerò ad udire la loro voce; tornerò a vedere i tratti amati del loro viso. E nello stesso tempo non soffriremo più, saremo liberi da quello che oggi ci frena e ci opprime, ci limita e ci pesa.
“Canteremo” come canta chi è felice, come canta chi è libero da ogni male, come chi ama. Canteremo come canta il Christus victor, e il suo canto è l’amore per il Padre.
Non è facile avere una speranza così radicale; non è facile fidarsi che una cosa così bella possa essere anche vera. Siamo troppo disincantati per credere a qualcosa di infinitamente più grande di ogni nostro sogno.
Eppure, proprio oggi, questo canto risuona, e non si può fermare più.
Buona Pasqua!
QUI IL LINK ALL’ARTICOLO ORIGINALE PUBBLICATO DA CHIARA BERTOGLIO