A cosa si riferisce la frase «Beati i miti, perché erediteranno la terra»? Si parla di un ruolo che le persone miti potranno avere nella storia di questo mondo, o si parla di una loro posizione privilegiata in paradiso?
Fabio Luppi
Risponde don Stefano Tarocchi, docente di Sacra Scrittura alla Facoltà teologica dell’Italia Centrale.
La terza beatitudine («beati i miti, perché erediteranno la terra»), che si ispira al Salmo 37,11 («i poveri invece avranno in eredità la terra e godranno di una grande pace»), nasce in realtà dalla Bibbia greca dei Settanta, che al posto di «poveri» legge «miti». Ecco la ragione perché questa beatitudine viene solitamente collegata con la prima: «beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3)».
Ma essa impone anzitutto il riferimento ad altre beatitudini, come quella sulla giustizia: «beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati (Mt 5,6); o quella sulla persecuzione: «beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia (Mt 5,10-11).
La «mitezza» come tale, ed i «miti» che la posseggono, risulta essere detta, secondo il lessico Treccani, di una persona che ha carattere dolce e umano, disposto alla pazienza e all’indulgenza. L’origine latina del termine («tenero, maturo», detto dei frutti) si può addirittura estendere a fattori climatici, favoriti da politiche dissennate di lungo corso, come negli inverni senza freddo, gli inverni «miti» – che hanno il loro complemento nella primavera crudele di questi giorni: sarebbe il caso di riscoprire la lettera Laudato si’ di Papa Francesco…
Una definizione più calzante definisce la mitezza quella squisita «gentilezza» che «evita scontri», ed in sostanza si manifesta nella posposizione del proprio diritto acquisito. Del resto, nelle “lettere pastorali” l’apostolo Paolo scrive che «un servo del Signore non deve essere litigioso, ma mite con tutti, dolce nel rimproverare quelli che gli si mettono contro, nella speranza che Dio conceda loro di convertirsi, perché riconoscano la verità» (2 Tim 2,24-25) – la versione italiana si muove tra più vocaboli che nell’originale greco si riferiscono alla virtù della mitezza. Scrive ancora Paolo: «tu, uomo di Dio, evita queste cose; tendi invece alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza» (1 Tim 6,11).
Dopo Mosè, che la Scrittura definisce «uomo assai umile» (Numeri 12,3) secondo l’originale ebraico (ma secondo la versione greca dei Settanta diviene «mite»), è lo stesso Gesù che dice nel Vangelo secondo Matteo «prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita» (Mt 11,29). Nella pagina dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme, sulla cavalcatura della pace, l’evangelista commenta citando la scrittura: «guarda il tuo re viene a te: egli è umile e viene seduto su un asino» (Mt 21,5).
Si tratta in realtà della somma di due citazioni profetiche (Is 62,11: «dite alla figlia di Sion: “Ecco, arriva il tuo salvatore; ecco, egli ha con sé il premio e la sua ricompensa lo precede”»; Zac 9,9: «esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina. Il riferimento è chiaramente messianico, ma nella luce del re-messia di Zaccaria, diventa modello di una mitezza, che nella rinuncia alla potenza e alla gloria «intraprende il cammino che dovrà condurlo alla croce».
Tornando al testo di Matteo, quando l’evangelista, riguardo alla mitezza, introduce l’immagine dell’eredità della terra, non vuole indicare l’attendere rassegnati una situazione che appare senza via di sbocco, o movimenti disarmati («non-violenza»), bensì quel possesso, che è dono di Dio ed opera della solidarietà di coloro che si sono fatti poveri per condividere le proprie ricchezze con gli altri secondo la prima beatitudine.
Così nota un celebre esegeta: «si esalta non già la condizione sociale, ma la sottomissione religiosa e la fiducia in Dio, che si traduce in pazienza e dolcezza. La felicità stabile di pace e sicurezza loro promessa è il “possesso della terra”, non intendendo l’occupazione della terra (promessa), terra d’Israele in senso politico, e ancor meno “tutta la terra”, il mondo intero, bensì l’entrata nel regno di Dio quaggiù e, da ultimo, in quello dei cieli. L’“eredità” per questi indigenti che tutto hanno atteso da Dio, è quella della beatitudine» (C. Spicq).