Una vita che si fa salita, una madre sola con una figlia disabile da crescere: non parla e non cammina, ama l’aria aperta e le paillettes. Tra loro un amore che conosce il buio e trova la luce. E poi una proposta folle: 6 atletici amici hanno spinto la carrozzina di Caterina per più di 120 km fino a Santiago.Nelle scorse settimane la storia di Caterina Malinverni è stata riportata da molti giornali come il più folle degli esami di maturità: mentre i compagni erano sui banchi di scuola, lei ha fatto il cammino di Santiago sulla sedia a rotelle, spinta e accompagnata da 6 maratoneti. Una settimana durissima e perfetta, la racconta così mamma Angelica con cui ho chiacchierato. E siamo andate oltre Santiago, o meglio ho chiesto che percorso di vita c’è alle spalle di questo pellegrinaggio, che è stato un grande traguardo. Angelica è una donna solare e amabile, mi parlava mentre accompagnava in giro su una speciale bicicletta sua figlia Caterina tra le risaie di Vercelli. D’altra parte, la Cate ama l’aria aperta e la sua mamma ha imparato ha osservare il mondo attraverso l’anima buona ma nient’affatto sconsolata della sua ragazza. Tra le molte cose che le parole di Angelica mi hanno regalato, c’è la battaglia alla tuta grigia … che spero possa radunare un esercito di fan. Curiosi di sapere cos’è?
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Cara Angelica, grazie di dedicare un po’ di tempo a noi di Aleteia For Her per raccontarci il viaggio da cui sei reduce in Galizia. Un’avventura epica?
Epica no, però è stata un’esperienza di vita, un’impresa. Il cammino di Santiago è stato impostato proprio come la fine di un viaggio e l’inizio del futuro di Caterina: mentre i suoi compagni affrontavano l’esame di maturità, noi le abbiamo fatto fare un esame un po’ particolare, perché lontano dalla quotidianità e dalle comodità di casa. Il Cammino non è un cammino di comodità, si cambia letto ogni sera, si cambiano persone da incontrare ogni giorno; è lontano dalla routine. Tutto questo è stato affrontato benissimo da Caterina; io sapevo che le sarebbe piaciuto ma non mi aspettavo così tanto. Mi ha lasciato senza parola, e sono incantata perché ci ha dato dei riscontri che nessuno si aspettava. Avevamo quasi “paura” che si mettesse a parlare e non siamo pronti a questo … Ci ha ringraziato tutti i giorni, ci ha dato il riscontro di cosa succedeva e di come lo viveva lei. È stata magica, ha detto grazie in tutti modi possibili agli amici, spingitori o angeli custodi. Loro hanno fatto tanta fatica.
Mi racconti la storia di Caterina?
Lei ha un ritardo psicomotorio dalla nascita, praticamente aveva il cordone ombelicale di 10 centimetri che non è cresciuto nella pancia; quindi è rimasta in anossia da parto. I primi 10 anni di vita ha comunque camminato e si spostava autonomamente, con fatica e appoggiandosi alla mia mano, però riuscivo a farla camminare addirittura senza passeggino. Non ha mai parlato, non ha usato le mani. Ha sempre socializzato con gli occhi; a scuola è stata in un angolo della classe a osservare i suoi compagni, passivamente cioè non c’è mai stata interazione attiva.
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Nessuno però ha mai avuto dubbi sulla sua presenza, non era “assente”. Perché lei adora stare in compagnia, adora mangiare. Ha un suo strano modo di vivere, apparentemente passivo ma che di fatto tale non è: lei non ha mai avuto problemi a socializzare. Con lei ho fatto una vita normalissima, difficile certo, ma non ho mai avuto problemi di disagio perché lei è davvero una ragazza buonissima. Le piace la vita all’aria aperta, le piace ascoltare i discorsi di tutti. Ci chiediamo spesso: chissà quante informazioni ferme ci sono nella sua centralina? Forse un giorno scoppieranno e scoppieranno anche solo in una risata o in un battito di ciglia.
La tua voce mi parla piena di entusiasmo e di gioia, però immagino non sia stato tutto facile…
I momenti bui, durissimi, ci sono stati; ad esempio quando c’è stata la decisione di fare un intervento grosso alla schiena e poi c’è stata la regressione dalla camminata alla sedia a rotelle. La regressione non è facile da digerire, bisogna cominciare da capo e cambiare prospettiva.
Nel buio dove hai trovato lo slancio?
Non so dirlo bene. Senz’altro non ho gestito bene la mia situazione personale quando il papà di Caterina ci ha abbandonato; però ho preso il mio fagottino in braccio e le ho detto: “Siamo noi due”. Il nostro rapporto è simbiotico, ci siamo aggrappate l’una all’altra con le unghie e coi denti. Ho una situazione privilegiata perché ho una grande famiglia alle spalle che non ci ha mai abbandonate e ci ha supportate in tutto quel che c’era da fare. Noi non ci siamo chiusi in casa, non è la nostra filosofia di vita. Non ci siamo nascoste e purtroppo in Italia c’è ancora chi vive la disabilità come una colpa. Questa è la mia battaglia di vita: aiutare quei genitori che per vergogna si nascondono. Non è una favola la nostra vita, ma con la disabilità si può vivere. La mia battaglia è contro la tuta invernale grigia.
Spiegamela, cos’è la tuta invernale grigia?
Si associa la disabilità alla sfiducia, al brutto, al vestito male. Quando vedi una persona in carrozzina la associ subito alla scomodità, alla tuta come unico vestito possibile. No! Ci si può vestire bene anche sulla sedia a rotelle, altrimenti l’unica associazione possibile è alla sfortuna. Bisogna cambiare prospettiva, anche solo usare il colore.
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Immagino che nel tuo percorso di mamma tu abbia dovuto sviluppare della doti di creatività insospettabili.
Sì, perché la Cate vive di luci, suoni e colori. La mia è dovuta diventare una vita colorata, piena di paillettes perché lei adora il luccichio, anche delle candele. Una sfumatura di colore che a me sembra banale, invece per lei è qualcosa che la accende. Ho dovuto imparare ha osservare il suo sguardo; ho capito cosa poteva piacerle. Bisogna imparare a osservare il suo mondo, non è lei che deve adattarsi a noi.
Adesso Caterina ha 22 anni e ha finito il suo percorso scolastico, giusto?
Sì, abbiamo sfruttato qualsiasi bocciatura possibile e abbiamo avuto un percorso scolastico d’eccellenza, perché Caterina non ha mai cambiato insegnante dalle elementari alle superiori. Molti mi chiedono come ho fatto, forse è stata solo fortuna. Di sicuro ho chiesto tutto ciò a cui lei aveva diritto, ho cercato di farlo sempre con gentilezza, senza sbattere i pugni, senza urli.
La burocrazia può essere un calvario pesante …
La burocrazia ci ammazza, non c’è un altro termine. Un esempio? Per poter finire il cammino di Santiago ho dovuto chiedere 3 giorni di permesso straordinario e l’Inps mi ha chiesto la documentazione medica di Caterina. Ce l’hanno da 22 anni. Possibile? Possibile che nell’era tecnologica mi venga chiesta documentazione cartacea? Che, peraltro, era già in possesso. Nell’era tecnologica, noi dobbiamo presentare la carta, sempre. Anche a livello di assistenza la situazione non è rosea. Io, tuttora, non so che cosa sarà di Caterina a settembre. Il ritornello delle scuse è “la crisi”. Ieri ho dovuto alzare la voce a proposito del centro estivo: parte il 29 luglio (il 29 luglio!) e va dalle 8.30 alle 12.30. La scuola è finita il 10 giugno e io lavoro part time; per fortuna ho la mia mamma e sorella totalmente dedicate a Caterina quando non ci sono. Ma mica tutti sono messi così; e non è giusto approfittarsi, cioè dire “però tu puoi assisterla in autonomia”.
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Sono mamma di 4 figli, uno disabile gravissimo. Quale speranza ci sostiene?
Poi bisognerebbe anche cambiare la prospettiva dell’assistenza, perché ci sono delle fasce di età che hanno bisogno di stimoli attivi: musica, arte, anche solo un libro da leggere. Bisognerebbe cambiare la prospettiva, da una visuale passiva passare a una attiva. Lo so che sto parlando di sogni, ma come dicono i miei amici, il sogno deve essere grande per riuscire a realizzare anche solo la base del sogno. La prospettiva attiva è un modo totalmente nuovo di guardare la vita, come passare dal buio alla luce. Proviamoci a lanciare questo messaggio!
Mi sembra che il Cammino di Santiago sia, in fondo, l’immagine perfetta di ciò che tu racconti: è una proposta attiva, entusiasmante, ma niente affatto facile.
Devo dire che la decisione di partire senza conoscere il percorso è un po’ da sprovveduti e incoscienti, però nel nostro gruppo di amici c’erano 4 persone che avevano già fatto il Cammino. Mi avevano raccontato, però quando lo vivi è davvero un mondo che si apre, un mondo pieno di solidarietà. Ogni tanto io rimanevo indietro perché non avevo il passo di quelli che spingevano Caterina, e li guardavo fare fatica; è stato qualcosa di indimenticabile.
Mi racconti meglio chi sono queste intraprendenti persone che hanno spinto la carrozzina di Caterina durante i 6 giorni di Cammino?
Noi siamo un gruppo di amici, ci siamo conosciuti grazie alla squadra di corsa di Caterina; lei corre coi Maratonabili di Prato (un gruppo di runners, maratoneti, semplici appassionati pronti a prestare le gambe a chi non può correre in autonomia perché costretto a vivere su una sedia a rotelle – NdR). Il progetto di fare il Cammino di Santiago non nasceva per Caterina, nasceva da Cristina e Francesca che lo avevano pensato per le loro figlie 15enni. Parlandone, ho detto loro: “Ragazze, ma voi lo sapete che è il nostro sogno …”. Già nel 2005 una coppia in vacanza nel nostro stesso albergo ci aveva regalato la spilla di Santiago; nel 2005 Caterina camminava ancora e loro ci avevano augurato di fare il Cammino prima o poi. Ho conservato la spilla come una reliquia, ogni tanto la guardavo e dicevo: “Sarebbe bello, ma come si fa?”. In tutti questi anni Santiago ci ha mandato dei messaggi, ma noi non riuscivamo a rispondere a questa chiamata. Poi Cristina mi ha detto che a giugno sarebbe partita e io le ho risposto: “Ma come? Anche tu?”. E lei ha rilanciato invitando anche noi, ha aggiunto: “Non c’è problema, si fa”. Nel gruppetto c’era Caterina, io, le due ragazze 15enni e i 6 maratoneti, che hanno fatto il lavoro grosso: spingere, frenare, virare, sollevare. Abbiamo fatto una media di 20 km al giorno. L’unica differenza con gli altri pellegrini era che noi spedivano le valigie da un ostello all’altro e quindi sapevamo già dove avremmo dormito. Sono stata sprovveduta e incosciente, ma non proprio del tutto.
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C’è un ricordo o un’immagine che porti nel cuore di questa settimana di cammino?
È stato il giorno in cui abbiamo percorso 26 km: io non ce la facevo più e mancavano 6 chilometri all’arrivo. Abbiamo imboccato una mulattiera ed erano 6 km tutti in salita e ho visto loro, davanti a me, che spingevano la Caterina come fosse naturale, quasi senza fatica. Parlavano, ridevano con lei, scherzavano sulle radici che spuntavano dal sentiero. Lei si affidava, non ha mai avuto paura e li ringraziava ad ogni passo. È incredibile come loro hanno risposto ai suoi sguardi e gorgheggi. Ed è ancora più incredibile che loro abbiano ringraziato noi per quello che gli abbiamo permesso di vivere. Io sarò grata a loro a vita: Elena ha lasciato a casa suo figlio che faceva la maturità, Donato ha compiuto 50 anni con noi, ognuno di loro ha lasciato la sua storia personale per dedicarsi a me e Caterina. In una settimana abbiamo costruito una famiglia e dopo il ritorno ci siamo già rivisti; la Cate aveva bisogno di vederli. Infatti, arrivati a casa dal viaggio ha smesso di sorridere … testa bassa … il broncio. Ho capito che aveva bisogno di capire che c’erano ancora. Una volta che li ha visti attorno al nostro tavolo, è di nuovo lei.
Voleva avere la certezza che sono amici che restano, che è un legame vivo e presente. Questa è la cosa più umana possibile. È una testimonianza bellissima!
Infatti abbiamo avuto un grande riscontro anche dalle persone che ci hanno seguito su Facebook. Io non volevo aprire la pagina (In cammino con Cate – NdR), mi sembrava di mettermi troppo in mostra; Cristina mi ha stimolato dicendo che poteva essere d’aiuto ad altri genitori che hanno bisogno di esempi positivi, di vedere il bello della vita, che hanno perso la speranza.
Santiago è un cammino di fede, tu hai chiacchierato anche con Dio mentre eri in viaggio? Cosa pensi della storia che ti sta facendo vivere?
In questi anni c’è stato un rapporto di amore e odio, credo sia plausibile per chi come me vive una sofferenza grande in prima persona e, frequentando gli ospedali, ne vede tante altre. Non so come definire il mio rapporto con Dio, so che Lui c’è. È la base di tutto.
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La mia impressione è che ci sia molto di Lui, della sua presenza viva, nella compagnia che si è creata verso Santiago.
Sì, perché l’amore genera amore, e Dio è amore. Non posso dire che sono arrabbiata con Lui per la situazione che vivo perché, se mi trovo la forza che ho, sicuramente è Lui che me la dà. Poi vedere la gente che abbraccia la statua in cattedrale a Santiago è qualcosa che fa capire quali sono le nostre radici: noi siamo Europei, la nostra base è il cristianesimo. E Lui c’è. Quando ti ritrovi da sola sui tuoi passi e pensi alla tua vita, comunque tutti i giorni il pensiero va a Dio perché quello che è stato creato ce lo ha donato lui. Non mi sento di dire che sto soffrendo; questa è la vita che mi è stata donata e nel momento in cui l’accogli senza combatterla si va avanti meglio.