L’anno finisce, ma qualcosa già sboccia. Da gennaio su Aleteia For Her partirà «Gemme», la scommessa di creare un dizionario vivo: ogni settimana vi proporremo una storia di vita unica, raccontata dalla viva voce di chi ha risposto alla domanda «quale parola ti ha insegnato la vita?».Ero seduta nella sala d’attesa di un ambulatorio, di lì a poco avrei saputo se mia figlia di 3 anni avrebbe dovuto essere seguita da una logopedista per superare le sue difficoltà a parlare. Mi sono trovata a sfogliare un vecchio numero del National Geographic e l’attenzione è caduta su un reportage che documentava un fatto allarmante ma apparentemente insignificante per le sorti del pianeta: ogni due settimane muore una lingua. A scomparire sono le parlate locali, i dialetti di popoli antichissimi. Perdiamo le parole che odorano e pulsano, quelle che la tradizione consegnava alla generazione successiva, piene di esperienza vissuta. Si parla tanto di disbocamento, ma perdere queste voci fa della nostra terra un deserto inadatto alla sopravvivenza. Perché le parole e il loro significato non nascono nelle biblioteche degli eruditi, bensì crescono dentro il pulsare di desideri, scommesse e dolori che ogni uomo vive come singolo e come parte di una comunità.
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Senza parole
Per contrasto ho pensato ad altre parole, quelle che in tanti modi ci vogliono mettere in bocca e non hanno niente a che vedere con l’autenticità di una vera esperienza. Abbreviamo le parole, per scrivere più in fretta su whatsapp; usiamo mappazzone da quando va di moda Masterchef e ripetiamo come ritornelli gli slogan che ci impone il variegato mondo virtuale; siamo bravi a coniare neologismi come googleare. Guadagniamo gerghi preconfezionati come cibo in scatola. Intanto qualcuno s’impegna strenuamente per cancellare il nostro ritratto umano, togliendoci di bocca le parole che parlano di un’identità chiara. In una città californiana sono state messe al bando tutte le parole connotate al maschile o femminile: ad esempio, il povero «tombino» è stato messo sotto accusa perché in inglese si dice «man’s hole» (letteralmente: il buco in cui scende l’uomo). Fortemente sessista e perciò da cancellare, così come «fratellanza» (tutte le sorelle del mondo si erano forse sentite offese finora?). In Inghilterra è stata contestata la definizione di donna come «essere femminile adulto». Il cantante Sam Smith ha deciso che il pronome «lui» non lo definisce e neppure «lei», quindi chiede che nei suoi confronti si usi «loro». Vogliono farci credere che queste forzature siano un guadagno.
Sono solo alcuni esempi, marginali forse. O forse no; sono segnali di un varco che si tenta di forzare per plagiare la nostra anima attraverso lo strumento che ci permette di comunicare. Insomma, in quell’ambulatorio mi sono ritrovata a chiedermi: sto cercando di aiutare mia figlia a parlare, ma che lingua userà? Avrà a disposizione qualcosa che le permetterà di avere una voce, oppure si ritroverà a balbettare un mucchio di vocaboli neutri, inflazionati, abbreviati e quasi disumani? Non è affatto una questione di erudizione, ma di ossigeno vitale. C’è un respiro che si fa affannoso e c’è il rischio persino di soffocare quando le parole si riducono a un mero strumento di scambio o pura persuasione.
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Gemme, un dizionario vivo
E così, pensando ai più giovani come mia figlia, ho immaginato una cosa un po’ folle: piantare un bosco fatto di parole vive e vegete. Ciascuno di noi può piantare qualcosa che è fiorito nella propria vita. Il nostro incontro col mondo è segnato da parole che restano impresse nella nostra memoria in modo unico, incarnate in una nostra trama di vita irripetibile. Un vocabolo semplice e generico come «terra» raccontato dalla viva voce di Cristoforo Colombo parla di una vita spesa per una scommessa incredibile; esce dal regno della pura astrattezza e ci catapulta nel vivo di un’avventura. Insomma, il vero dizionario di cui abbiamo bisogno non è fatto di carta ma di carne; va riempito non di definizioni ma di storie vissute.
La pronuncia di una parola somiglia a quel momento in cui un aereo in decollo si è già staccato dalla pista nella parte anteriore e ancora la tocca nella parte posteriore. Intelligente o sciocca, profonda o superficiale, la parola è il massimo che una persona può dare quand’è matura e non può far altro che sciogliersi verso l’esterno. (P. A. Florenskij , Il valore magico della parola)
Ecco, ogni uomo può portare come dono a chi verrà un’occasione per decollare, come a dire: “Nei giorni che mi sono stati dati da vivere questa parola è germogliata e si è riempita di incontri, lacrime e gioie che hanno fatto maturare la mia anima, te la dono viva perché anche tu possa viverla appieno e farla fiorire ancora di più”. Parlare è la sconfitta dell’egoismo e la via per nutrire l’io: noi siamo innanzitutto meraviglia, una voglia di relazione con ciò che esiste attorno e un bisogno di esprimere quel grumo di senso in cerca di compimento che pulsa dentra. Senza il linguaggio l’uomo è un’ombra, privo di un ponte che porti al vicino di casa, all’amata, al vigile urbano, al confessore quel tumulto di pensieri che ha dentro.
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Da piccoli ogni parola imparata era una conquista: un suono che aveva il timbro della nostra voce e l’impronta di un’esperienza. Vogliamo ripartire da qui, dalla certezza che le parole sono come gemme: piccoli squarci di vita che sbocciano. Stiamo cominciando a chiedere a persone di mestiere, provenienza e vocazione il più vari possibili di essere parte di questo dizionario vivo chiamato Gemme: la proposta è semplice, si tratta di rispondere alla domanda «quale parola ti ha insegnato la vita?».
Da gennaio su Aleteia For Her vi doneremo ogni settimana una parola che contiene un’avventura di vita, segnata dalla voce e dal volto di chi la dona. E se anche voi volete essere parte di questo progetto, donando la vostra parola, scriveteci. Non aspettiamo altro.
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