Probabilmente sapete perfino a memoria le quattro strofe di “Amazing Grace”, ma facilmente ignorate che esse furono composte da John Henry Newton sulla melodia di uno schiavo che egli stesso aveva rapito in Africa e avrebbe venduto in America nel XVIII secolo. Una vicenda emblematica delle gravi cicatrici spirituali e storiche che in seguito all’omicidio Floyd tornano a sanguinare negli Stati Uniti e altrove nel mondo. Il processo appare inarrestabile, ma già conosciamo alcuni elementi culturali capaci di favorire la riconciliazione della memoria. Primo fra tutti la fede in Gesù.
La città di Hartfort, nel Connecticut, ha rimosso l’altro ieri la statua di Cristoforo Colombo, ma quasi non se n’è accorto nessuno, fuori dagli Stati Uniti: ben altro rumore ha fatto invece l’analoga rimozione, ieri, nella città dell’Ohio che dell’esploratore genovese porta il nome – Columbus –; e non è detto che in questo caso la cittadinanza non spingerà il revisionismo fino ad abradere il nome stesso della città.
Il “peccato di razzismo” non è questione meramente politica
Tutto ciò fa tristezza, ma meno per questioni campanilistiche (in fondo Colombo era più genovese che italiano) che di tenuta complessiva della nostra civiltà: quando si ha col proprio passato un rapporto così conflittuale, come è evidente nel caso della gestione del movimento BLM con annessi riots, si addensano cupi nembi per tutto l’orizzonte intorno – e questa è una delle ricorsività meno sconfessate della storia dell’umanità.
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Sul piano politico, noi italiani facciamo fatica a comprendere tanto manicheismo: siamo infatti abituati a una narrazione del nostro processo unitario nazionale che armonizza in un unico amalgama elementi affatto eterogenei – Cavour odiava Garibaldi (del resto ne era cordialmente ricambiato) e Mazzini collezionava condanne a morte in Patria e fuori, eppure i tre sono un po’ il “triumvirato ideale” del Risorgimento italiano –, né le singole anime politiche del Paese (la liberale, la cattolica, la nazionalista, la socialista-comunista, la repubblicana…) si sognerebbero di fare incursioni per i borghi d’Italia a vandalizzare i monumenti eretti a questi o ad altri “padri della patria”.
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Molti italiani oggi hanno ancora genitori e nonni implicati con le vicende del regime fascista, e qualcuno può persino testimoniare di cosa i propri avi guadagnarono o persero durante il processo unitario, ma la verità è che tutto questo non è neppure paragonabile alla cicatrice spirituale di uno stigma razziale – «il peccato di razzismo», come l’ha icasticamente stigmatizzato Papa Francesco –, e che stanno venendo al pettine in America nodi plurisecolari. Sicuramente le incipienti presidenziali statunitensi fungono da enzima, ma certo non potrebbero produrre dal nulla un movimento suscettibile di polarizzare in modo così perentorio tutta la popolazione: ci chiediamo “possiamo farci qualcosa?”, e forse la risposta più ragionevole è che l’ideale sarebbe favorire la memoria e la riconciliazione tra le parti coinvolte.
Una via praticabile dove la fede ricade in arte
Facile a dirsi, ma come si fa? È fin troppo ovvio che non esistono ricette universali, ma altrettanto probabilmente si potrebbero stabilire principî generali da cui derivare accorgimenti utili contesto per contesto: sono del resto ormai più di cinquant’anni che negli Stati Uniti (come in Canada e nel Regno Unito) si celebra la “black history week” (la seconda di febbraio, ma ormai le manifestazioni si sono espanse a un “black history month”), il materiale da cui partire è già estremamente abbondante e variegato.
Resta però fortissima l’impressione che nella cultura cristiana prodotta dagli States sia dato di intravedere già come una caparra della società riconciliata con la propria storia: ne ho avuto forte l’impressione quando, ormai anni fa, sentii per la prima volta Wintley Phipps introdurre e cantare Amazing Grace nel 2012.
Ero già colpito dalla variopinta compagine che Bill e Gloria Gaither (coniugi cultori e promotori bianchi della musica nera) sono sempre riusciti a raccogliere attorno al loro clan famigliare: alcune delle loro canzoni, come la bellissima ballata “He touched me”, furono cantate anche da Elvis Presley, ma soprattutto (fosse solo questo staremmo sempre parlando “solo” di bianchi che cantano musica nera) in quelle stratosferiche manifestazioni musicali che furono i Gaither Homecoming vidi qualcosa che mi sembrava una felicissima sintesi di culto e di cultura genuinamente “cattolici” (in senso etimologico, non canonistico).
Il grande concerto del 2012 fu uno dei più seguiti della storia della manifestazione e vide la partecipazione dello strepitoso pastore avventista cui accennavo sopra.
Nativo di Trinidad and Tobago, Wintley Phipps aveva 57 anni nel video qui sopra, e con una presenza scenica di evidentissima forza introdusse il proprio momento raccontando dell’anziana signora nera che un giorno gli aveva detto: «Ragazzo, se la montagna fosse liscia non potresti scalarla» (citazione fortunatissima nella blogosfera anglofona). E proseguì raccontando che fu quella donna a fargli notare come «tutti i negro spiritual si suonino con i tasti neri del pianoforte». Al brusio di sorpresa del pubblico Phipps rispose con una dimostrazione pratica (accennando Every time I feel the Spirit e di Swing low, sweet chariot su una tastiera a disposizione) e con una spiegazione musicologica: la scala pentatonica è effettivamente tipica (anche se non in via esclusiva) della musica africana e dei suoi derivati, quali lo spiritual (e il gospel), il jazz, il blues e il rock. Per questa ragione – spiegò Phipps senza mai perdere la presa dell’assemblea – alcuni musicologi parlano della scala pentatonica come della “slave scale”, la “scala degli schiavi”. Studiando musica, proseguiva il pastore/cantante/musicista, si apre sempre il capitolo degli “spiritual bianchi”, ossia di quegli spiritual composti da bianchi sulla “slave scale”:
…E stasera vorrei cantare per voi quello che alcuni musicologi ritengono essere il più famoso di questi brani.
Una “Amazing Grace” riservata a tutti
Mentre sull’accenno di piano solo tutti i presenti intonarono all’unisono i celeberrimi versi di Amazing Grace, la lezione di musica divenne a questo punto lezione di storia: «C’è qualcuno qui che sa chi scrisse queste parole?».
Era stato tale John Henry Newton a scrivere le parole che tutti quella sera cantavano, anche senza avere idea di chi fosse il compositore, ma per Phipps proprio quello era il punto determinante, nonché la ragione per cui aveva voluto cantare proprio quella canzone, e non un’altra. Nato nel 1725, John Newton s’era infatti presto imbarcato sulle galere britanniche che alimentavano il commercio di schiavi, giungendo anche a capitanarne una. Fu quando si convertì a Cristo e decise di diventare suo ministro che prese anche a scrivere inni, ed è emblematico che il più famoso di questi sia proprio Amazing Grace: su tutte le fonti antiche dell’inno (Phipps ricordava di essere andato a cercare alla Library of the Congress) l’autore della melodia risultava “Unknown”, e l’avventista commentò dicendo che un giorno, in paradiso, avrebbe dovuto chiederlo al Signore, di presentargli «quello schiavo chiamato “Sconosciuto”».
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Perché sì, è a dir poco probabile che Newton abbia sentito e memorizzato quella melodia lungo le rotte per le quali traduceva i neri dall’Africa occidentale agli Stati Uniti: con l’aiuto dell’orchestra, quella sera Phipps propose al pubblico una memorabile interpretazione in vocalizzo che riproduceva quel che l’inglese negriero e imperialista potè sentire sulla nave (4:57).
Quel canto muto improntato sulla “slave scale” dovette corrodere lentamente in Newton l’adesione all’ideologia razzista che sosteneva la pratica schiavista, e tale corrosione (la cui causa è detta appunto “dolce suono”) fu da lui giudicata una “grazia meravigliosa”: