L’obiettivo è il bene delle animeIn questo periodo ci sono cambiamenti nelle parrocchie, con le nomine di nuovi parroci. Salutare un prete che se ne va, dopo tanti anni, non è semplice, si creano legami che è doloroso spezzare. C’è l’attesa del nuovo, con il timore che le cose possano cambiare. E per qualche piccola parrocchia c’è la paura di restare senza parroco, con il prete che viene solo la domenica a dire Messa. Qual è lo spirito giusto per affrontare tutto questo? Come spiegare le cose a chi vive questo passaggio con disagio?
Lettera firmata
Risponde padre Lamberto Crociani, docente di liturgia
l mese di giugno nella Chiesa è spesso foriero di cambiamenti. Alcuni lasciano i servizi che hanno fino a questo momento svolto per assumerne altri o per giungere al meritato riposo dopo un lungo servizio che li ha visti impegnati per il bene della comunità locale.
Sicuramente questo ingenera molto spesso nel popolo di Dio un sentimento di rincrescimento e anche di dolore, soprattutto in coloro che sono stati più vicini e hanno collaborato col presbitero destinato ad altra realtà. Come sempre si crea una situazione di attesa e a volte più che di speranza di paura che possano cambiare le situazioni, che hanno prodotto i legami affettivi talvolta più che il bene della comunità.
Certo spesso si genera un disappunto nei confronti del vescovo che chiede i cambiamenti. C’è quasi un senso di risentimento, che nulla ha a che vedere con l’esperienza di fede e di collaborazione che deve animare le comunità parrocchiale, in permanente comunione col pastore della Chiesa locale, per il cui mandato i parroci svolgono nelle parrocchie il loro servizio.
Nell’apprendere gli avvicendamenti non ci poniamo l’interrogativo più importante, cioè la motivazione per il cambiamento, che non è puro arbitrio episcopale. La risposta più importante la offre proprio il codice di diritto canonico al canone 1748: «Se il bene delle anime oppure la necessità o l’utilità della Chiesa richiedono che un parroco sia trasferito dalla sua parrocchia, che egli regge utilmente, ad un’altra o ad un altro ufficio, il Vescovo gli proponga il trasferimento per iscritto e lo convinca ad accettare per amore di Dio e delle anime». La scelta, dunque, ha una motivazione legata all’utilità spirituale delle persone, quindi di tutta la Chiesa. Il trasferimento non è un’imposizione ma nasce dal dialogo tra il pastore e il presbitero che lo coadiuva nel servizio ecclesiale. Le fasi del dialogo, che possono essere anche difficoltose, sono espresse dai due canoni seguenti: «Se il parroco non intende assecondare il consiglio e i pressanti inviti del Vescovo, ne esponga i motivi per iscritto» (1749) e ancora: «Se il Vescovo nonostante le ragioni addotte, giudica di non dover recedere dal suo proposito, insieme a due parroci scelti a norma del can. 1742, §1, valuti le ragioni favorevoli o contrarie al trasferimento; che se poi ritiene che il trasferimento si debba fare, rivolga nuovamente al parroco paterne esortazioni» (1750). La decisione ultima, però, è del vescovo, valutato il bene delle persone a cui il presbitero dovrà essere destinato, ma forse anche dell’ambiente che egli deve lasciare.
Dopo anni di permanenza, come capita tra uomini, c’è spesso il rischio di una staticità che non giova al bene stesso della comunità parrocchiale, che continuamente è chiamata a rinnovarsi nella ricerca della volontà di Dio guidata dalla forza dello Spirito Santo.
Il nuovo causa sempre un po’ di apprensione e a volte di paura. Cambiare per gli uomini non è sempre facile e spesso si causano opposizioni e chiusure che danneggiano la vita comunitaria. Quale dunque l’atteggiamento da assumere? Innanzi tutto si deve tenere conto della situazione del nuovo arrivato, che pure ha dovuto – a volte con rimpianto – lasciare un ambiente noto per collocarsi in una nuova realtà. Se non è facile per la comunità accettare la novità, certo non lo è neppure per il nuovo arrivato. Da ambedue le parti occorre una vera disposizione all’accoglienza.
In secondo luogo deve essere chiaro per tutti che il nuovo presbitero non è la copia del precedente, una diversità che non significa che questo sia migliore o peggiore del precedente, ma semplicemente che Dio nel suo atto creatore l’ha voluto diverso per la ricchezza di tutti. Allora diventa chiaro che non si potrà continuare allo stesso modo la vita della comunità, che così riceve un impulso nuovo per la sua crescita. All’accoglienza pertanto si deve aggiungere il dialogo, ma non un dialogo ostinato per cui ambedue le parti non cedono dalle loro posizione, un dialogo, invece, che sia inizio di una ricerca comune per il bene di tutti.
Il nuovo parroco non è una persona che ha voluto prendere il posto del precedente, ma un uomo che vive quell’obbedienza e filiale rispetto che ha promesso al vescovo nel giorno della sua ordinazione.
È in questa certezza che accoglienza e dialogo devono divenire reciproca collaborazione, pronti ad assecondare da ambedue le parti la novità che lo Spirito del Signore domanda di continuo alle Chiese.
L’arroccamento sulle proprie posizioni, la tentazione di lasciare tutto, il taglio della comunione manifestano una fede vacillante che resta ferma solo se il «mio» progetto è accolto e considerato il migliore.
Questo credo sia il modo in cui la comunità deve prepararsi a vivere il prossimo settembre, senza prevenzioni o pregiudizi. I legami affettivi col parroco precedente possono pure restare, stando ferma la carità, per cui col vecchio non si mormora del nuovo.
Altre indicazioni mi sembrano meno importanti, accanto all’obbedienza che le comunità parrocchiali e i presbiteri devono al vescovo, che certo ha una visione più ampia e complessa delle diverse comunità che costituiscono la sua Chiesa, visione sempre guidata dalla forza dello Spirito Santo. L’impegno di tutti è avverare quanto l’Apostolo dice alla Chiesa di Colossi: «Ma sopra tutte queste cose rivestitevi della carità, che le unisce in modo perfetto. E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E rendete grazie!» (Col 3,4-15).