Fra tutti i libri liturgici, certamente il messale è quello che più densamente racchiude “le istruzioni” per una liturgia viva, fedele ed efficace. La pubblicazione dell’edizione italiana dell’Editio typica III del Messale Romano rinnova alle comunità l’invito a servirsi a fondo di uno strumento tanto straordinario.
Dall’oscurità della mia vita, così frustrata, metto davanti a te l’unica grande cosa da amare sulla terra: il Santissimo Sacramento. Lì troverai romanticismo, gloria, onore, fedeltà e la vera via di tutti i tuoi amori sulla terra, e – ancora di più – la morte. Per il divino paradosso, ciò che pone termine alla vita, e che esige l’abbandono di tutto, è pure il gusto (o l’assaggio) di ciò che solo può far sì che quanto cerchi nelle tue relazioni terrene (amore, fedeltà, gioia) sia sostenuto; di ciò che solo può assumere la complessità del reale, che dura per sempre – ciò che il cuore di ogni uomo desidera.
Così termina una certo non oscura lettera dell’ormai 59enne John Ronald Reuel Tolkien al figlio Michael, che nel marzo 1941 non aveva ancora compiuto 21 anni e aveva interpellato il padre (quel padre!) sull’amicizia possibile tra uomo e donna.
Tolkien e la mistica dell’Eucaristia
Il principiante creatore della Terra di Mezzo (all’epoca Lo Hobbit era già stato pubblicato da qualche anno, ma Il Signore degli Anelli ne avrebbe richiesti ancora una buona dozzina di gestazione) diede al figlio una risposta a tinte fosche, da quanto era realistica («this is a fallen world»), e molto cattolicamente squarciata da nettissimi squarci di Luce: quasi tutti i matrimoni si debbono a degli “errori”, nel senso che quasi sempre entrambi i partner di una coppia avrebbero potuto trovare rispettivamente coniugi migliori… eppure «la “vera anima gemella” è quella a cui sei sposato»; anche perché, «se c’è un Dio, queste [la vita e le circostanze, N.d.R.] debbono essere Suoi strumenti o Sue sembianze».
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Ovviamente la gente “si sbaglia” nelle scelte matrimoniali perché tutta l’umanità è decaduta (l’espressione “a fallen world” torna per tre volte in questa sola lettera) ed è così affetta da sentimentalismi romantici e mode perverse che «la ragion sottomettono al talento» – in tutto lo stile della loro vita, certo non (solo) in camera da letto. Quasi uno non se lo aspetterebbe ma, dopo aver raccolto davanti al figlio nel modo meno enfatico e positivo possibile la propria storia personale, il grande filologo additò al giovane erede «l’unica grande cosa da amare sulla terra», individuandola nell’Eucaristia, spiegandogli che «fuori di quella / è defettivo ciò che lì è perfetto».
Ecco che all’improvviso il grande Tolkien ci appare improvvisamente molto meno grande e tremendamente più interessante di quanto solitamente si pensa: ci mettiamo tutti istintivamente al posto del giovane destinatario nel raccogliere il racconto della giovinezza paterna, travagliata da indolenze ed errori commessi sul limitare della prima guerra mondiale (del resto quella di Michael lo era dalla seconda). E chi non ha almeno nella propria coscienza una guerra? E che c’entra il Santissimo Sacramento?
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L’Eucaristia: non tanto una cosa quanto un atto e un evento
«Dat panis cœlicus / figuris terminum» [«Il pane del cielo pone / un termine a ciò che lo prefigurava»]: Tolkien doveva aver lungamente meditato su questi versi del Panis angelicus, visto che il distico esprime in poche parole il medesimo senso delle righe da lui indirizzate al figlio Michael – dove “terminus/termine” significa al contempo interruzione e riferimento. La vita è imperfetta mentre il mistero eucaristico ne lascia intravvedere la perfezione originariamente voluta da Dio e dall’eternità predestinata ai suoi figli di elezione: ciò significa che tutto passa (anche quello che amiamo), mentre il contenuto dell’Eucaristia resterà in eterno; ma significa pure che nelle nostre realtà caduche (anche in quanto ci sono costate o ci costano dolore) si può transustanziare il Divino Sacrificio del Redentore.
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Quello di Tolkien al figlio è poco più che un accenno, benché sostanziale: non vi si trovano dettagli, né riferimenti a più diffuse spiegazioni. Quel che ne emerge forte è la connessione mistica tra il matrimonio (sintesi del meglio che la vita terrena offre all’uomo) e l’Eucaristia… e al contempo il loro rapporto asimmetrico: quello si specchia in questa e vi si riconosce, ma vi si scopre pure radicalmente imperfetto e bisognoso di continua riforma. Tutta la vita dell’uomo – ciò che «every man’s heart desires» – si ricolma di senso davanti alla sublime prossimità del dono di Cristo. Ora, Tolkien direbbe ancora poco se stesse semplicemente raccomandando al figlio Michael di curare la devozione al Santissimo Sacramento con la pratica delle visite o delle adorazioni eucaristiche, poiché «la celebrazione dell’Eucaristia nel sacrificio della Messa è veramente l’origine e il fine del culto eucaristico fuori della Messa» (Eucharisticum mysterium n. 3f). Neppure basterebbe, del resto, raccomandare a un figlio di “andare a messa” perché la sua mera compresenza alla comunità officiante gli risulti fruttuosa: invece soltanto una vera actuosa participatio lo includerà nella comunità celebrante in cui il ministro validamente ordinato presiede e ricapitola il mistero fontale della Chiesa.
Vera e falsa riforma secondo Tolkien (e Vincenzo di Lérins)
È del resto noto che Tolkien accolse con grave disappunto l’entusiasmo novatore (e venato di iconoclastia) che in certi neppure marginali settori ecclesiali accompagnò lo svolgimento del Concilio Vaticano II, in particolare con riferimento alla riforma liturgica. Il nipote Simon ha raccontato che quando andavano a messa insieme, negli ultimi anni della sua vita, in chiesa lo si sentiva scandire ad alta voce le risposte in latino mentre tutti gli altri le davano in inglese.
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Sempre a Michael, invece, è indirizzata una lettera del 25 agosto 1967 in cui l’ormai anziano padre degli Hobbit poneva delle osservazioni critiche che – proprio perché nient’affatto reazionarie – meritano di essere rilette oggi:
La “protestante” ricerca di “semplicità” e immediatezza, rivolta al passato – anche se naturalmente contiene alcuni motivi buoni o perlomeno comprensibili – è sbagliata e anzi vana:
- perché il “cristianesimo primitivo” è oggi – e, a dispetto di qualsivoglia “ricerca”, sempre resterà – largamente sconosciuto;
- perché la “primitività” non è garanzia di valore ed è anzi, come è già stato, in gran parte un riflesso dell’ignoranza (gravi abusi sono stati, fin dal principio, un elemento del comportamento liturgico dei cristiani – le strigliate di san Paolo sulla disciplina eucaristica bastano a mostrarlo);
- ancora di più perché “la mia Chiesa” non è stata destinata da Nostro Signore ad essere statica o a restare in una infanzia perpetua, ma ad essere un organismo vivente, paragonabile a una pianta, che si sviluppa e cambia nelle sue forme esterne per l’interazione fra la vita divina che ha ereditato e la storia – cioè le circostanze particolari del mondo in cui si trova.
Non c’è alcuna somiglianza tra il “seme di senape” e l’albero cresciuto: per quelli che vivono nei giorni in cui esso cresce ed estende i rami, l’Albero è la cosa, perché la storia di una cosa vivente è parte della sua vita, e la storia di una cosa divina è sacra. L’uomo saggio può ben sapere che quella cosa è cominciata con un seme, ma è vano mettersi a scavare perché quel seme non c’è più, e le virtù e la forza che esso aveva ora si trovano nell’Albero.
Tutto bellissimo: ora in botanica le autorità, i curatori dell’Albero, devono averne cura secondo la loro scienza peculiare; potarlo, rimuovere cancrene, asportarne parassiti e via dicendo (e devono farlo con trepidazione, tenendo conto quanto poco essi stessi sappiano delle leggi che presiedono allo sviluppo dell’Organismo!). Certamente però essi possono fare del male, ove siano ossessionati dal desiderio di tornare al seme o anche soltanto alla prima giovinezza, quando la Pianta era (ovvero così s’immaginano loro!) tutta bella ed esente da ogni male.
L’altro motivo (ora spesso malamente confuso con quello primitivista, anche nelle concezioni di alcuni riformatori) è l’aggiornamento: anche l’aggiornare ha i suoi gravi pericoli, come si è visto trasparentemente nella storia. Ecco come si è confuso il senso ecumenico.
Chiaramente nessuno potrebbe sensatamente dire, a quasi cinquant’anni dalla morte di Tolkien, che oggi il grande letterato sarebbe contento della piega presa dalla riforma liturgica seguita al Vaticano II, ma del resto niente è più lontano di ciò dalle nostre ambizioni: vorremmo anzi osservare che col passare del tempo le critiche dell’anziano filologo britannico suonano sempre meno i borbottii di un vecchio nostalgico e ne traspare invece il nerbo profetico, cristianamente aperto al progresso del Mistero ma diffidente verso le sue contraffazioni modaiole.
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Che egli ne fosse o meno consapevole, l’immagine del seme e dell’albero è quella già usata nel celeberrimo capitolo 23 del Primo Commonitorio di Vincenzo di Lérins: nel 1967, tuttavia, la pagina dell’abate provenzale non era ancora celebre quanto lo è oggi, visto che solo dalle mostre del rinnovato Ufficio delle Letture (ex Mattutinum) essa s’è universalmente imposta all’attenzione dei fedeli – e le copiose citazioni che ne fioccano anche nel Magistero pontificio sono praticamente tutte posteriori al 1970. Insomma, Tolkien mise profeticamente in guardia dalle derive iconoclaste (o comunque sconsiderate) di certa “foga conciliare” riecheggiando un testo oggi universalmente accettato come paradigma di discernimento tra vera e falsa riforma proprio grazie alla riforma della Liturgia delle Ore.
L’autocomprensione del nuovo Messale Romano in italiano
Una simile riflessione compare esplicitamente già nelle prime pagine del Nuovo Messale, quelle con cui i Vescovi italiani consegnano ai fedeli loro affidati l’importantissimo testo:
Questa nuova edizione italiana del Messale Romano è offerta al popolo di Dio in una stagione di approfondimento della riforma liturgica ispirata dal Concilio Vaticano II. Come ha ricordato papa Francesco, oggi è necessario continuare in questo lavoro di approfondimento «in particolare riscoprendo i motivi delle decisioni compiute con la riforma liturgica, superando letture infondate e superficiali, ricezioni parziali e prassi che la sfigurano. Non si tratta di ripensare la riforma rivedendone scelte, quanto di conoscerne meglio le ragioni sottese, anche tramite la documentazione storica, come di interiorizzarne i principi ispiratori e di osservare la disciplina che la regola. Dopo questo magistero, dopo questo lungo cammino possiamo affermare con sicurezza e con autorità magisteriale che la riforma liturgica è irreversibile» [Francesco, Discorso ai partecipanti alla LXVIII Settimana Liturgica Nazionale, 24 agosto 2017].
Presentazione, in Messale Romano, Roma 2020, viii
Sebbene sembri di poter annoverare archeologismo e “aggiornamentismo” tra quelle “letture infondate e superficiali” che il magistero pontificio ha recentemente stigmatizzato e che lo stesso testo del Messale ritiene nella propria Presentazione; d’altro canto non appare auspicabile alcuna “reazione”, e dunque non si tratta di inaugurare una stagione di revisionismo, bensì una di più libera e matura riflessione sui principî che hanno guidato la riforma, essendo tutti i cattolici ormai dell’avviso di Tolkien e di Vincenzo sulle cautele da osservare nella cura dello sviluppo ecclesiale.
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L’arte di celebrare
Ciò sarebbe semplicemente impensabile senza un forte accrescimento della sensibilità liturgica del popolo cristiano, che si auspica come importante frutto dello stesso “movimento liturgico” che un secolo fa pazientemente e nell’ombra gettava i semi dei germogli ora spuntati. Tale sensibilità liturgica non cresce attraverso letture o conferenze, bensì principalmente e soprattutto nella pratica liturgica stessa. E c’è in tal senso un passaggio di notevole bellezza nella Presentazione:
Occorre, a questo proposito, ribadire che il Messale non è semplicemente una raccolta di “testi” da comprendere e proclamare, ma pure e soprattutto un libro che indica “gesti” da porre in atto e valorizzare, coinvolgendo i vari ministeri e l’intera assemblea. La bellezza della liturgia scaturisce dall’armonia di gesti e parole con cui si è coinvolti nel mistero celebrato. Ricorda papa Francesco: «La fede ha bisogno di un ambito in cui si possa testimoniare e comunicare, e che questo sia corrispondente e proporzionato a ciò che si comunica. Per trasmettere un contenuto meramente dottrinale, un’idea, forse basterebbe un libro, o la ripetizione di un messaggio orale. Ma ciò che si comunica nella Chiesa, ciò che si trasmette nella sua tradizione vivente, è la luce nuova che nasce dall’incontro con il Dio vivo, una luce che tocca la persone nel suo centro, nel suo cuore, coinvolgendo la sua mente, il suo volere e la sua affettività, aprendola a relazioni vive nella comunione con Dio e con gli altri. Per trasmettere tale pienezza esiste un mezzo speciale, che mette in gioco tutta la persona, corpo e spirito, interiorità e relazioni. Questo mezzo sono i sacramenti, celebrati nella liturgia della Chiesa. […] Il risveglio della fede passa per il risveglio di un nuovo senso sacramentale della vita dell’uomo e dell’esistenza cristiana, mostrando come il visibile e il materiale si aprono verso il mistero dell’eterno» [Francesco, Lumen fidei 40].
Presentazione, in Messale Romano, Roma 2020, ix-x
Se prima Tolkien riecheggiava Vincenzo (forse senza averlo precisamente a mente), ora Francesco (con Benedetto XVI, che di Lumen fidei aveva preparato almeno una bozza) rivolge ai cattolici una parola che rischiara pubblicamente quella intima indirizzata nel 1941 dall’Inglese al figlio Michael.
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Sebbene sia evidente che il soggetto celebrante dell’azione liturgica è il popolo cristiano nella sua integralità e varietà, non lo è meno che ai ministri ordinati compete un ministero di sintesi che li rende indispensabili nella celebrazione eucaristica (e nel sacramento della Riconciliazione). Ciò comporta pure che essi – preti e vescovi – abbiano una responsabilità gravissima relativamente alla traduzione degli indirizzi dell’episcopato nel vissuto concreto delle comunità. Difficilmente lo si sarebbe potuto dire con parole più chiare:
Il principio della fedeltà, che si traduce in un vivo senso dell’obbedienza, impegna ciascun ministro a non togliere o aggiungere alcunché di propria iniziativa in materia liturgica. L’autentica ars celebrandi non può prescindere dal modello rituale proposto dal libro liturgico. La superficiale propensione a costruirsi una liturgia a propria misura, ignorando le norme liturgiche, non solo pregiudica la verità della celebrazione ma arreca una ferita alla comunione ecclesiale. Risuonano ancora di viva attualità le parole di san Paolo VI, quando, alla vigilia dell’entrata in vigore del Messale Romano riformato a norma dei decreti del Concilio Vaticano II, invitava a non lasciarsi ammaliare dalla tendenza ad affrancarsi dall’autorità e dalla comunione della Chiesa. Una tendenza che può «costituire una fuga, una rottura; e perciò uno scandalo, una rovina». E ancora qualche anno dopo richiamava tutti con forza a «dare applicazione fedele, intelligente e diligente, alla riforma liturgica, promossa dal Concilio e precisata dalle competenti autorità della Chiesa. […] È venuta l’ora d’una geniale e concorde osservanza di questa solenne lex orandi nella Chiesa di Dio: la riforma liturgica» [Paolo VI, Discorso all’Udienza generale del 22 agosto 1973].
Presentazione, in Messale Romano, Roma 2020, ix
Venga davvero e finalmente, l’ora auspicata dal papa bresciano. Possa la nuova versione italiana del Messale Romano sollevare un’attenzione decisiva, in tal senso, da parte di numerose comunità (chierici e laici insieme). Da parte nostra, promuoveremo come possiamo – anzitutto con articoli informativi e divulgativi – i principî generali del nuovo Messale e alcuni spunti per crescere insieme nello spirito della Liturgia.
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